Stivali e foglie secche

Stivali rossi tra le foglie – di Roberta Morandi


È  una splendida giornata di fine estate, quasi autunno, quando l’aria è più  fresca ma non ancora frizzante, il cielo è  di un rosso pacato, non violento, che quasi vorresti affondarci le mani. È quel momento in cui le foglie dei platani non sanno se staccarsi e planare delicate a terra o aspettare ancora un poco. 
Ecco, il viale è già pieno di foglie di tutte le sfumature del rosso e dell’arancio, e altrettante sono ancora attaccate, ed altre ancora sono lì,  appese, in attesa di un soffio di vento che aiuti la loro incertezza.
Una ragazzina coi suoi stivali rossi, beata di quelle scarpe di gomma tanto attese con cui può  scalpicciare ovunque senza paura di sciuparle, osserva pensierosa quel tappeto di foglie ai suoi piedi, pronto per essere pesticciato e sparpagliato. Si muove e inizia piano piano a smuovere quelle foglie tirando dei calcetti, ma piano, senza fretta, assaporando ogni gesto; il rumore le piace e la interessa, allora prova a scalciare più forte e via via si lascia prendere la mano, anzi il piede, dall’emozione immensa di correre scalciando quelle foglie rosse e non ancora morte, provocando quello stropiccio (ci vorrebbe un accento sulla i ma non lo trovo). E corre, e scalcia, e le foglie scivolano sotto i suoi piedi.
Poi di colpo si ferma. Davanti a lei due grosse scarpe e una ramazza. Un omone in  tuta gialla le sta davanti  con le braccia conserte, e la guarda.


Fruscìo di pannocchie

Nel campo di granturco – di Nadia Peruzzi

Nel campo le pannocchie erano una punteggiatura di giallo. Toni caldi, colore  su colore. Le foglie un po’ riarse sfrigolavano ad ogni tocco. Cercare un sentiero in mezzo a quella distesa, era quasi impossibile, eppure era necessario.

Laura aveva un appuntamento in quel pomeriggio assolato. Luca la aspettava al vecchio pioppo, l’unico che aveva una piccola radura tutto intorno.

Era il loro posto segreto. Era difficile da trovare in quel mare di mais che arrivava così in alto da coprire la luce del sole una volta che ci si era immersi dentro.

Era in ritardo Laura, come sempre. Così ora le toccava correre facendosi spazio con le mani per allontanare le grandi foglie. Foglie fra i capelli, foglie attaccate alle vesti a strattonarla, foglie che si rompevano in mille pezzi una volta che le scarpe le sfioravano o le schiacciavano.

Non fu facile arrivare a destinazione.

Il sentiero, già stretto, spesso lo perdeva ed era costretta a fermarsi, cercando un altro varco per poi ripartire con passo lesto.

Ad un certo punto avvertì lo stesso rumore arrivare dalla sua destra. Un fruscio, uno sfrigolio, un macinare di foglie secche, come quello che aveva accompagnato la sua corsa.

Capì che anche Luca stava arrivando e non era così lontano dalla radura.

 Lo immaginò ansante, sudato e con quel suo ciuffo castano incardinato in mezzo al blu profondo dei suoi occhi, mentre si sedeva per riprender fiato appoggiandosi al tronco.

Con emozione pensò ai momenti che avrebbe trascorso con lui .  

Il vecchio pioppo, dall’alto, avrebbe osservato paterno i loro baci appassionati.

Caffè d’orzo

La Fata anziana – di M.Laura Tripodi

Arrivava puntuale, alle dieci del mattino.

La signora, che non a caso si chiamava Regina, bussava con un segnale convenzionale: toc toc, toc-toc-toc. I primi due toc distanziati, i secondi tre ravvicinati. Così si sapeva che era lei e anche io avevo il permesso di aprire la porta.

Da sfollata, anche se molto facoltosa, aveva dovuto adattarsi all’assegnazione di una casa popolare, proprio quella di fronte alla nostra, sullo stesso pianerottolo.

Era accompagnata dallo svolazzio e dal fruscio di una vestaglia rossa a piccole fantasie gialle, credo fosse di seta. Ai piedi un paio di  pantofole con il tacco e un ciuffo di marabù sul davanti.

Avrei dato non so cosa per impossessarmi di vestaglia e pantofole.

Regalava alla mamma il quotidiano che aveva già letto. Sulla pagina della cronaca c’era passo passo il processo Raoul Ghiani- GianniFenaroli: un fattaccio relativo all’uccisione di una donna. 

La mamma tifafa spudoratamente per l’imputato Ghiani che invece fu condannato all’ergastolo. Leggeva sempre con molta attenzione l’evolversi dell’istruttoria e se c’era il babbo lo faceva a voce alta, per commentare con lui.

A me piaceva stare ad ascoltare.

La signora arrivava accompagnata anche da una scia di profumo, con il rossetto sulle labbra, le unghie laccate e le dita  inanellate.

Io notavo un gran sbrilluccichio, ma avrei realizzato molto tempo dopo che con uno di quei brillantini la mia famiglia ci avrebbe campato per un bel po’. E comunque ero molto più affascinata dall’insieme. Avrebbe potuto sembrare una fata anziana, ma io sentivo sempre un certo disagio quando entrava a casa mia. Come se la differenza fra la mia realtà e quella che lei impersonava si tramutasse in un abisso colmo di diffidenza.

Lei si sedeva, tirava fuori il pacchetto di Nazionali e si accendeva una sigaretta. Ho ben impresso nella mente quanto brillassero i suoi anelli quando strofinava il cerino sulla scatola.

Quel personaggio faceva parte del mio quotidiano, ma era lontano da me anni luce e lo vivevo ogni mattina come qualcosa di incomprensibile e straordinario.

Lei andava dalla pettinatrice (chiamava così la parrucchiera) una volta a settimana, aveva la sarta che le cuciva i vestiti (a Fiesole. A volte portava anche me), la lavandaia che le lavava i panni (la Serafina), era separata dal marito e quando usciva aveva in testa sempre un gran cappello. Anni cinquanta: un altro mondo.

Lei però non era spocchiosa. Faceva pesare la sua differente condizione quel tanto che fosse percettibile, ma non offensivo. A me e mia sorella qualche volta faceva dei regali.

Ricordo quel Natale quando con gli occhi spalancati aprimmo quel pacco che conteneva due ombrelli identici, di quelli con gli spicchi colorati. Non so quanto tempo siamo state a scrutare il cielo sperando che piovesse. Ai miei fratelli che erano molto più grandi di me,  prestava spesso i gialli Mondadori e le settimane enigmistiche con ancora qualche cruciverba da fare.

A volte ci invitava a vedere la televisione, ma dovevamo portarci le sedie da casa.

La sua, di casa, era uno spettacolo. Io ho un ricordo molto preciso del mio disagio: mi sembrava che come mi fossi mossa avrei fatto danno, che io ero quanto di più fuori posto potesse esserci in quell’ambiente.

Però la mia era  una famiglia molto modesta, ma tre volte tanto dignitosa. Credo che questo sia stato un dogma che mi ha accompagnato per tutta la vita: modestia, coraggio, onestà, testa alta e si va avanti.

,…………E comunque la signora Regina, tutti i giorni, alle dieci in punto del mattino, bussava alla nostra porta per gustare il caffè della mamma fatto di orzo mescolato a Vecchina.

Carta che scricchiola

Regalo di Natale – di Sandra Conticini

Tutti gli annivicino a Natale la solita storia… Voglio fare il cesto natalizio con caramelle cioccolate e dolci vari per i bambini poveri della parrocchia, ma quel foglio di cellophane trasparente mi fa sempre arrabbiare,  non sta fermo, si muove e scappa da tutte leparti.  Lo accortoccio, faccio una palla e lo butto via. Ne prendo un altro sperando di avere più fortuna, ma dopo averlo piegato varie volte e sgualcito decido di buttare via anche questo, chè sembra un dono riciclato. Al terzo tentativo andato male, decido di mettere tutto in una busta di carta colorata, con un bel fiocco rosso e di portarlo così, tanto sia bambini che adulti guarderanno il contenuto e non la confezione!!!

La voce nella radio

La Lola – di Rossella Gallori

Il gruzzoletto era lì, malcelato dall’unico paio di calze di pizzo bianche, accanto al sottabito di nylon nero, tanto simile a quello della mamma, erano il  frutto del mio lavoro, a 15 anni lavoravo già da un anno e quel poco che avevo mi sembrava tanto,  ma l’ importante era che fosse sufficiente.

Quindi avevo deciso di farlo…e lo feci; mi informai da colleghe più grandi, chiesi in giro, San Lorenzo, era un mondo a parte, un mondo che io poco conoscevo, ma della Lola parlavano tutti, proprio tutti, dal barrocciaio, alla contessa…la Lola era una sensitiva, cioè dicevano che lo fosse. A  me,sinceramente sembrava più  una prostituta di terzo livello, messa in pensione dopo lunga  ed intensa attivitá, ciondolava su alte scarpe di vernice verdi, dal tacco rivestito di pelle mangiucchiato dalle pietre dei vicoli, un cappotto di casentino bianchiccio, stretto in vita da una cintura piatta e larga a mò  di vestaglia, al collo una macabra stola di pelliccia intignata, con una testa di volpe dall’ occhio di vetro, completava la “mise” un cappello di feltro nero, con la penna rossa….no, no non era invitante, la Lola, ma di lei si raccontava tanto, per lo più si parlava del suo mettersi in contatto con i morti attraverso un’ immensa radio.

Andai, con le gambe tremanti, il cuore in gola, avevo chiesto un paio d’ore libere…una visita medica come scusa, e la certezza che con i soldi ce l’ avrei fatta, volevo risentire la sua voce, il colore del suo amore per me, avevo paura di dimenticarlo, quel babbo amato, non avevo avuto il tempo di salutarlo, di dargli un bacio, erano passati già più  di cinque anni. Ì soldi nella tasca della gonna di jeans, la speranza nella mia testa…feci gli scalini a due a due e non vedendo il campanello, bussai …l’ odore di minestrone era forte, il buio era pesto, pesante, forse le persone erano tre o quattro, una lama di luce filtrò dalla porta cigolante, ed apparve ĺei, struffellata   e diafana, per magia la radio si accese…..smisi di respirare ed ascoltai…quanto gracchiò quella radio, sembrava sputare, non trasmettere, ogni tanto si  udivano frasi sconnesse e sommesse, no la voce non era quella del mio babbo…no capii che l’ avrei riconosciuta tra milioni…

Quanto costò la Lola, e quante lacrime versai, quando mi sembrò di riconoscere nel secco fruscio, la voce del Semboloni, il ganzo della Lola,  lattaio di via Dell’ Amorino…piansi sulla mia stupidità, sulla mia ingenuità, sulla mia solitudine di adolescente, rividi i miei fogli da mille affogati nel seno della  Sensitiva e piansi, piansi ancora…..

Schiuma

AUTO – LAVAGGIO – di Laura Galgani

Si era persino messa gli stivaloni da pioggia, quelli neri di plastica, per dare l’impressione di voler fare sul serio. I gettoni erano caduti nella monetiera con un rumore sordo, e lei aveva meccanicamente premuto i pulsanti per il primo step: acqua e sapone.

La lunghissima e steccuta lancia metallica, fredda e sottile, moderno animale sputacchiante, aveva iniziato a rumoreggiare buttando fuori un getto d’acqua saponosa, che con una considerevole forza andava ad infrangersi sulla carrozzeria della sua auto sporca, fangosa. Teneva la lancia sfoggiando convinzione e determinatezza, quasi professionalità: prima il parafango di plastica, poi il cofano inzaccherato dalle deiezioni appiccicose degli storni, poi il parabrezza lurido di polvere dello sterrato di campagna, il tetto stondato, il lunotto posteriore e giù, fino al paraurti.

Ci metteva una gran lena a dirigere quel getto d’acqua grigiastro e bolloso. Troppa. Via via che passava e ripassava sulle varie parti dell’auto non poteva fare a meno di accompagnare ogni gesto con un gemito di fatica, che però non era solo quello; era anche rabbia. Sì, rabbia. Impotenza, rabbia, dolore. In quella macchina si erano amati, tante volte. Oramai, quanto tempo fa? Prima con tenerezza, poi con passione, alla fine per abitudine. Cercava, con quella schiuma, grigiastra e mutante, di cancellare i ricordi, ma non era facile. Soprattutto, cancellare i lividi dalla sua pelle e dalla sua anima le riusciva davvero impossibile.

Non si rese conto che i gemiti di fatica erano diventati gemiti di dolore, acuti, forti. Piangeva, senza nemmeno saperlo. E continuava a dirigere quel getto d’acqua sulla lamiera, sui vetri, sulle ruote, per cancellare il passato.

D’improvviso il getto si fermò, l’animale metallico si fece silenzioso.

Lei si sorprese ad ascoltare lo sgocciolio dell’acqua sul cemento. Tirò su col naso, le lacrime salate se le sentì in bocca, e le fecero piacere. Pensò che con l’auto pulita valeva proprio la pena di andare da qualche parte, fare un viaggio dove avrebbe sempre voluto. Da sola, però. 

Radio e amicizia

Incontri – di Chiara Bonechi

Si ritrovavano il sabato sera, erano un gruppo di amici affezionati.

La casa che li accoglieva non era sempre la stessa, cambiava secondo la disponibilità di ciascuno, si offriva caffè, dolcetti e vini liquorosi.

Era diventata un’abitudine molto bella, impegni diversi che potevano capitare venivano collocati possibilmente in altri giorni della settimana perché nessuno voleva rinunciare al rito del sabato sera.

Quella volta l’incontro fu fissato in casa di Lina per ascoltare storie lette alla radio.

Nella sua ampia taverna aveva conservato un vecchio apparecchio, un parallelepipedo ingombrante, in legno marrone con tasti dorati.

“Prima metto il caffè” disse, “poi ci mettiamo in ascolto”.

La serata si preparava diversa, poteva sembrare un evento come ai tempi dei nonni.

Intanto le chiacchiere fra amici creavano un certo brusio, poi quel rumore inconfondibile che dalla moka si sprigiona insieme al profumo del caffè, li pose in attesa.

Che buono il caffè!

Il suo sapore rilassa e, mentre si gusta, prepara all’ascolto.

La vecchia radio viene messa in funzione, un mano sicura cerca la stazione, è il momento dei racconti ma si sente solo un fruscio, la manopola viene mossa a più riprese, il cursore scorre, si passa da una stazione all’altra, il fruscio non cessa e si alterna ad uno scoppiettio.

Qualcuno non si fida, vuole provare e riprovare, è difficile arrendersi e rinunciare dopo l’attesa.

La stazione non si trova, il fruscio continua, lo scoppiettio pure e la storia per quel sabato è svanita.

Bazar

Potere del potere – di Carla Faggi

Mia madre aveva un negozio bazar dove vendeva un po’ di tutto, anche giocattoli.

Sono quindi nata e cresciuta in un negozio di balocchi.

Inutile dire che la supervisione la facevo sempre io!

La preferenza la davo alle bambole, quelle con i capelli lunghi e morbidose,  bambole che non avevano età.

Poi arrivò Cicciobello, bambolotto bebè e poi la Barbie, bambola adulta.

Non mi piacevano, preferivo le bambole bambine.

Adoravo pure i camioncini, i trenini e le locomotive di legno. Tutti da trainare.

Da bimbi imparavamo a camminare, poi a trainare e poi a costruire con il lego.

Poi arrivarono i trenini e le macchinine di latta ma con il motore a batteria. Già non mi piacevano più.

Non dico la mia disapprovazione quando arrivò jeeg robot e gli eroi di guerre stellari!

Però erano pubblicizzati dalla tv e andavano a ruba, con grande gioia di mia madre e mio notevole disappunto.

Durante il carnevale il negozio vendeva bombettine, manganelli, maschere e coriandoli.

Non ho mai amato il carnevale, non mi piaceva mascherarmi e avevo paura delle bombettine e delle manganellate. I maschietti a quell’epoca erano tremendi, se ti prendevano di mira ti massacravano.

Io però ero abbastanza fortunata perchè se mi riconoscevano dicevano: no, a lei no! sennò non ce li vende più!

Eh già! Potere del potere!

I privilegi di chi conta!

Comunque continuo a non amare il carnevale, troppa confusione, troppo caos! In fondo io sono una light…e come dico sempre…delicata e fragile!

Acqua argentina

L’Arno giovane – di Carmela De Pilla


Avevamo deciso di uscire quel giorno, il sole era così prepotente e invitante che non potevamo rimanere in casa.
Le avevo messo il vestitino che preferiva, uno scamiciato di cotone leggero cosparso di innumerevoli fiorellini azzurri, Lisa saltellava, pregustando già il pomeriggio all’aria aperta.
Presi la sua manina morbida e accondiscendente, desiderosa di essere guidata e ci tuffammo nella strada.
Era una stradina di un piccolo paese che portava direttamente alla “Rana”.
Che buffo sentire la sua vicina che ripeteva: -Mamma andiamo alla Rana?
Mentre si camminava mi accorsi che anch’io saltellavo, ero spensierata, volevo giocare con la mia piccola in un tempo senza tempo.
L’aria era calda e afosa così accellerammo il passo per arrivare il prima possibile.
Eccoci, la pineta era punteggiata di troppe persone che si impossessavano di ogni angolo e la pozza, così la chiamavano, era affollata di piccole e grandi teste che fuoriuscivano dall’acqua.
Risate, grida, palloni, panini …no,no…non avevamo voglia di tutto questo, ci guardammo negli occhi e con aria complice andammo oltre e via, via davanti a noi si dipanava uno spettacolo meraviglioso.
Un ruscello ancora giovane, ignaro delle meraviglie che avrebbe scoperto durante il suo percorso, scorreva silenzioso, non un soffio di vento lo distoglieva dal suo andare, ogni tanto borbottava o giocava con qualche masso che con dispetto deviava il suo corso.
Quel gioco di luci che il sole si divertiva a creare mi trasportarono in un mondo di suoni e colori.
Lisa si divertiva a camminare lungo la riva, nell’acqua morbida e trasparente invitandomi a una musica che risuonava dolcemente.
Era magico l’Arno quel giorno, lo sentivo più amico del solito.

A proposito di donne

Alma, una storia vera – di Rossella Gallori

Non posso dire  “ LA CONOSCEVO BENE”  come spesso si dice, dopo un fatto, una notizia di cronaca; dico semplicemente, ci ho parlato, l’ho incontrata spesso,  forse l’ho anche sottovalutata nel suo parlare freddo, senza emozione apparente…

Ci incontravamo casualmente, in una latteria che non c’è più, un po’ nascosta a S. Andrea, lei era lì con una età indefinita e la tazza del cappuccino tra le mani, sembrava scaldarsi, più  che dissetarsi, aveva freddo…un freddo che la vita non le ha mai tolto.

Seppi che si chiamava Alma, quando il lattaio la richiamava perché aveva lasciato il resto ….Sora Alma i sordi….ohindo la ce l’ha la testa!!!

Un giorno, lo ricordo bene, era quasi maggio, io avevo sbattuto la porta sulle mie rabbie, per fare pochi metri senza respirare, e ritrovare con quell’apnea forzata, una specie di equilibrio. Me la trovai alle spalle, quasi sorridente, aveva voglia di parlare di raccontarsi, mi disse che si era sposata a 15 anni con un lui apparentemente ricco e gentile, vecchio di anni e di cattiveria, mi parlò dei suoi figli, 5 nati uno dopol’altro, con nomi mai scelti da lei, che aveva solo l’obbligo di “ covare” e basta…e se piangevano  erano  botte, per lei…e se non eran  botte erano insulti, sputi in viso, nel cuore…

Non piangeva Alma raccontava e basta, raccontava del suo conoscer due lingue, del suo leggere, del suo amare la musica, la poesia…e di quel lui che l’aveva sempre umiliata ed offesa….per poi  lasciarla sola senza soldi, senza casa, senza amici, senza un minimo di stima…

Le domandai, come avesse fatto a non odiare un uomo così violento….ebbi una strana risposta…

“Non l’ho perdonato perché mi ha fatto credere di essere scema, le botte mi han fatto meno male.”

Ho saputo da poco che Alma si è uccisa…..non so come, ma so chi è stato …….

Acqua preziosa

Acqua che scorre – di Anna Meli

            Siamo in estate, fa molto caldo, io sto camminando a piedi verso casa dopo essere stata a trovare un’amica. Abito in collina, la strada sale abbastanza ed io sono affaticata. I raggi del sole sembrano incandescenti, il canto delle cicale monotono e assordante.

            Non vedo l’ora di arrivare a casa per potermi dissetare. Ancora qualche passo, qualche passo   ancora; ho una sete terribile, veramente non ce la faccio più!

            Sgombro la mente da immagini di acqua fresca, ma il pensiero corre alle popolazioni dell’Africa che tanta strada fanno per rifornirsene e dove la siccità provoca carestie e morte. Sono triste………..

            Continuo passo dopo passo, prendendo atto della mia impotenza e quasi senza accorgermene sono casa. Fuori, nel giardino, c’è la canna dell’acqua che serve per innaffiare, la apro e un getto forte esce gorgogliando ed io bevo, mi bagno la faccia, la testa, le braccia e mi sento felice di poter apprezzare una cosa così semplice, ma preziosa e insostituibile.

Passeggiate lente

Seconda passeggiata lenta per le vie di Antella – di Cecilia Trinci

Nonostante il tempo minaccioso  Roberta Tucci parte alla guida del gruppo dei “passeggiatori lenti”, curiosi di conoscere immagini, aneddoti e storia di questo magico territorio.

Dopo una breve passeggiata condita di storie e l’incontro con un giovane capriolo, sotto una leggera pioggerella intimidatoria,  il gruppo torna sui suoi passi verso la piazza da dove ha avuto origine il paese.

“Ante illam” (“di fronte a quella”) è infatti l’etimologia di Antella perché dietro alla bellissima chiesa che tutti conoscono si trova un’altra chiesa ancora più antica, oggi tornata al suo splendore, con le finestre che funzionano come meridiane e che lasciano passare fessure di luce a squarciare il buio di quella che oggi è una cappella per la messa del mattino. A tradire la sua esistenza una porta dietro l’Altar Maggiore,  non al centro rispetto all’asse verticale del transetto.

Dentro la chiesa, nel raccontare di Roberta, prendono vita le nobili famiglie dei Peruzzi, dei Bardi e degli Antellani  che hanno fatto la storia di questo territorio, ben collegato a Firenze. Folgorante  la scoperta di un quadro del ‘600 che ha sullo sfondo la piazza come era allora e il tabernacolo con una splendida Madonna, di età ancora più antica, ancora oggi ben visibile all’esterno,  sul piccolo ponte di fronte al negozio di fiori davanti al quale gira costantemente un traffico intenso, eternamente distratto.

(Stemma della Famiglia Dell’Antella presente anche sulla facciata del Teatro Comunale di Antella)

Ruscellare d’acqua

Alle sorgenti dell’Affrico – di Luca Di Volo

Quel giorno, alla fine di un pomeriggio di tarda estate, mi ero trovato nei pressi del Salviatino, proprio vicino al punto in cui l’Affrico si infogna per sfociare in Arno dopo 2 chilometri di putrido canale. Ero capitato lì per caso, senza una meta precisa, ma mi rallegrai nel vedere che prima di affrontare la “morta gora” il fiumiciattolo della mia (e non solo della mia) gioventù era ancora un ruscellare di acque multicolori rutilanti tra i barbagli del sole calante. Ne emanava un alito di freschezza, pur essendo questa solo una pallida imitazione del luogo che era stato tanti anni prima.

Mi persi nei ricordi come in un flash-back….già, perché anch’io in anni migliori, ero stato tra gli adolescenti che avevano scelto quel luogo come scenario delle loro avventure.

Ero scappato di casa dopo un perentorio richiamo della mamma per essermi scordato di far correre l’acqua del bagno, preso dalla furia di raggiungere gli amici….ma non ci fu nulla da fare, masticando amaro, ero tornato indietro e feci il mio dovere…Povera mamma …quel giorno non fu tutto bello quello che pensai di te….

Comunque, in ritardo, raggiunsi quei ragazzacci (così ci chiamavano allora), con nelle orecchie lo scroscio dell’acqua del bagno, colpevole, nella più completa illogicità del mio mancato arrivo…Ma erano ancora tutti lì..perché quello era il gran giorno, il giorno della battaglia che avrebbe deciso finalmente la supremazia tra noi, Sudisti di S.Salvi, e i perfidi Nordisti del Ponte a Mensola.

E battaglia ci fu..armati di una specie di fucili fatti in casa per sorreggere una cerbottana, con tanto di cartucciere piene di innocui pirulini una squadra di marines nostrani (quelli di S.Salvi) affrontava un’altra pattuglia di orridi musi gialli (quelli del Ponte a Mensola). I primi camminavano chini lungo l’alveo dell’Affrico, i secondi  li bersagliavano coperti dalla boscaglia …ah, l’illusione era perfetta, il sole traeva accecanti barbagli dal verde profondo delle foglie, e poi i suoni..c’era uno che addirittura imitava alla perfezione i suoni della giungla (quella vera), immagino per averli sentiti al cinema, durante qualche film che allora propinavano a noi ragazzi e per i quali andavamo pazzi…chiù chiù chiù….crò crò  crò…fiì fiì, insomma tutta la gamma. Chi veniva colpito era fuori gioco e molte furono le “vittime”. Una delle prime a cadere fu una bambina..si chiamava (spero che ancora si chiami..) Fiammetta, mi ricordo che era indispettita solo per il fatto di essere stata così bischera da farsi colpire… per il resto era un vero maschiaccio che poi sarebbe diventata una splendida donna.

Insomma, tra queste tragicomiche imprese, senza accorgercene arrivammo dove l’acqua del fiumiciattolo aveva origine..la sorgente dell’Affrico..una sorta di piccolo getto che sgorgava dalla pietra. Allora più che l’ardore guerriero potè la sete. Amici e nemici ci abbeverammo tutti, posando la bocca, a turno, sotto quella fresca e rugiadosa beatitudine…

E qui finì il mio sogno ad occhi aperti.

Gorgoglìo di ruscelli

Acqua di montagna – di Laura Casati

Li sciacquo continuamente questi denti doloranti, anche i colluttori non attenuano il dolore sordo e continuo. Mi alzo anche di notte, nel silenzio della casa, si ode questo rumore: l’ acqua che scorre nel lavandino. Il gorgoglio dell’acqua riporta alla mente un’emozione piacevole e rivedo i rigagnoli impercettibili che dalla sorgente pian piano  si dirigono verso il torrente impetuoso che scende a valle verso Pozza di Fassa e si getta nell’Avisio. Lungo il torrente situato nel gruppo Monzoni,  sul sentiero,  con il passare degli anni è divenuta una strada, scorgo il rifugio omonimo “Monzoni” il mal di denti siattenua e mi par di gustare lo yogurt montano con panna e mirtilli che viene servito lì. L’ultima volta che ci sono andata, ormai sei anni fa, oltre all avista, al gusto, anche l’udito si è deliziato, la filodiffusione trasmetteva brani del periodo della mia giovinezza: è stato un momento magico che non scorderò. Che strano i miei malanni fisici sono più sopportabili sarà stato l’effetto del colluttorio oppure i bei ricordi influenzano la mente e quest’ultima anche il fisico?

Scrosci d’acqua

L’acqua in casa – di Ivana Acciaioli

Andare a prendere l’acqua alla fonte in mezzo all’aia era a volte un piacere a volte un peso, ma sempre fonte di litigio con mia sorella.

La pesante pompa di ferro da alzare ed abbassare era  un incubo per me, la guardavo sospettosa mentre trascinavo la mezzina di rame vuota,  certa che volesse umiliarmi . Mi attaccavo a lei con tutto il mio peso di bambina ma mai sentivo l’acqua sgorgare, ci voleva sempre un aiuto per dare vigore alla prima mossa e questo mi irritava molto perché non ho mai amato le sconfitte. Poi giungeva il primo scroscio e singhiozzando si succedevano gli altri mentre  spingevo su e giù  fino a veder riempire la mezzina, che immancabilmente non riuscivo a sollevare da sola alimentando altra delusione. Invece mia sorella di cinque anni più grande di me gongolava  affermando la sua superiorità.

Quando arrivò l’acqua in casa compresi il significato di “miracolo”. La vecchia pompa rimase al suo posto ma ci dimenticammo di lei.

Il babbo decise di fare il bagno in casa ed una delle  camere al piano superiore fu adibita a toilette. Un lavandino e un water si perdevano e si guardavano nella vastità della stanza. La vasca non fu presa in considerazione, forse sembrò un lusso eccessivo. La mamma continuò a farci il bagno, si fa per dire, in piedi nel grande acquaio di marmo in cucina, soffrendo in inverno un freddo terribile.

Il lavandino e il water divennero, fino al disincanto materno, i miei giocattoli preferiti; ascoltare flussi diversi mi incuriosiva, il suono esile della mia pipí e subito dopo quello fragoroso dello sciacquone, mentre il lavandino diventava mare per le mie barchette di carta risucchiate nel vortice quando toglievo il tappo, veri naufragi si perdevano nel bianco della ceramica. Il mistero di dove tutta quell’acqua andasse a finire era un caso per me irrisolvibile.

La mamma intervenne a spezzare incanto e mistero per via di quelle mie lunghe permanenze nella “camera da bagno” come io la chiamavo, spiegandomi che l’acqua consumata andava pagata. Guardai dalla finestra della camera da bagno, si vedeva l’aia con la vecchia pompa e di nuovo sentii il sapore della sconfitta.

Gorgoglìo d’acqua

GORGOGLIO D’ACQUA – di Simone Bellini

La penombra nella stanza fredda della vecchia casa di campagna accoglieva l’arrivo della mamma. Con la pentola piena d’acqua appena riscaldata sul fuoco riempiva la catinella alloggiata su di un bellavamani in ferro battuto. Il vapore caldo dell’acqua si univa a quello dei nostri  fiati, mentre a torso nudo, tremanti dal freddo, aspettavamo il nostro turno per lavarci. Come sempre a me toccava l’ ultima mescita di acqua ormai fredda:

Non mi lamento mamma, ormai sono grande !  Dicevo con orgoglio, ma non ne ero molto convinto!

Acqua d’amore

Acqua d’amore – di Chiara Bonechi

Erano rumori di acqua, acqua che scorre, acqua che lava, acqua che bolle, acqua che nutre.  Ho sentito rumori caldi di casa, rumori di una volta, rumori di adesso.

Mi hanno regalato un’immagine lontana, la vecchia vasca da bagno, ovale e con i sostegni, mia nonna, i suoi piedi, proprio come erano fatti e le sue gambe grassottelle e ho risentito la sua voce, quando mi chiedeva aiuto perché la sorreggessi nell’atto di entrare nella vasca.

E se l’acqua era troppo calda ne aggiungevamo altra fredda e poi ancora calda fino a trovare un giusto equilibrio per un piacevole pediluvio. E avrei voluto che continuasse a lungo quello sciabordio, quello sciaguattio che per gioco non mi era permesso.

Ho rivisto anche mia zia nel suo grande giardino, le sue braccia forti che sostenevano annaffiatoi pieni d’acqua, due alla volta ne portava, dal viaio agli orci pieni di fiori.

Era instancabile in quel giardino, appagata dalla bellezza dei fiori.

I colori che penetravano attraverso i suoi occhi nella sua anima e i profumi che poteva odorare sono stati capaci di colmare il vuoto di un amore che troppo presto l’ha lasciata.

Acqua di pozzo

Acqua di pozzo – di Stefania Bonanni

In casa non c’era acqua corrente, e neanche luce elettrica, e forse mancavano anche molte altre cose. L’acqua si prendeva al pozzo in corte, con la mezzina. Per farsi mandare al pozzo bisognava essere grandi, mi ricordo quando non vedevo l’ora.

Il pozzo era in una corte, che era il centro del gruppetto di casette dove vivevamo. La corte era lastricata di ciottoli, ed ombreggiata da un grosso, scuro, nespolo. La costruzione del pozzo era una specie di cilindro rivestito di mattoni rossi sbiaditi e sgretolati e sul davanti aveva una finestrina chiusa da una porticina di ferro, fermata dauna stanghetta che, spinta dentro all’occhiello che la bloccava, consentiva di sbarrare l’accesso al pozzo.

I bambini, naturalmente, non dovevano arrivare alla finestrella, ma in corrispondenza, in basso, erano appoggiati due o tre mattoni sovrapposti, che servivano appunto a regalare quei centimetri mancanti. Io ci sono salita sopra, la prima volta che sono andata al pozzo, e avventurando la testa dentro la finestrella, ho finalmente guardato l’abisso. Il fondo, l’antro delle streghe, il regno delle lumache, delle lucertole, di certe ostinate piantine che avevano radici sulle pareti, ma poi crescevano in obliquo, sporgendosi anche loro sull’abisso.

Una volta aperta la finestrina, si agguantava la catena. Il movimento sganciava un vecchio, sbocconcellato secchio agganciato anche lui alla catena che srotolandosi lo accompagnava giù giù giù, fino a che si sentiva “splash”, e si avvertiva che  diventava pesante la catena, sempre di più via via che il secchio si riempiva.

Quanto fosse profondo il pozzo era il vero mistero.

A volte era quasi secco, sembrava che non bastasse la lunghezza della catena, a volte era pienissimo, si vedeva subito l’acqua, si poteva toccare.

Ho anche fantasticato di entrare nel secchio, scendere in fondo ed andare a vedere.

Vedere se come pensavo c’erano anche strade asciutte. Se passavano sotto le case, se erano abitate.  Io pensavo fosse possibile ci vivesse una popolazione di persone piccolissime, verdi come le rane, molto abili a nuotare, nei momenti nei quali il pozzo era pieno. Quando arrivò l’acqua corrente, salutata dalla fine di una grossa fatica esclusivamente di donne, rimasi un po’ male. Mi sembrarono un po’ squallidi quei tubi, quei rubinetti, quell’acqua a comando, tutto quel lavorare a spaccare strade e corti, e violentare la terracon quei tubi. Ecco, di sicuro non c’era da fantasticare, sui tubi.

Fontana

Acqua e non solo – di Rossella Gallori

Per le sue gambette, la salita non era cosa da poco, per i suoi piedini, poi, quasi un piccolo inferno, d’altronde le Superga blu erano poco sue, un  po’ strettine, un po’ ereditate.

La mano grande che la tirava, anzi la strattonava, non era quella che avrebbe voluto…era quella che c’ era, che passava il convento, la vita… ma la meta era importante, ambita…varcò il cancello con le guance arrossate, ma gli occhi ben “spippolati”, suo fratello la lasciò lì e lei non si voltò nemmeno per salutarlo. La fontana l’aspettava, sapeva di essere cresciuta, anche troppo in fretta, lo dicevano le amiche della mamma: come è alta questa bimba……

Quindi, lo aveva deciso: sarebbe arrivata a bere da sola.

La chiamava Giorgia, quella vecchia fonte, dava un nome a tutte le cose, quella strana bambina, raramente alle persone, solo alle cose…

…e Giorgia era lì, bronzea ed austera e stranamente sola, nessun moccioso che riempiva la pistola ad acqua e nessuna bimba che, precisina si lavava il visuccio.

Un piccolo sforzo ed arrivò  alla magica “pigna” consumata da mille manine, l’acqua non si fece pregare, schizzò da tutte le parti, per tutti i versi, da ogni lato, rimbalzando disordinata, sul secchio arrugginito che stava là sotto… Arturo ( il secchio) era colmo, non calmo e  traballò rovesciando il suo  contenuto  formando un piccolo fiume, che in pochi minuti raggiunse il tempietto, facendo la doccia a grassi pesci rossi ed irritando il vecchio cigno, che indispettito voltò il culo, in segno di protesta.

Bello lo Stibbert, bella la sua fontana, bello il suo silenzio, le sue foglie, le sue grandi braccia, la sua protezione, bella nonostante tutto, l’ infanzia….

Tolse le scarpe, mezze e sbiadite, e corse sui sassi bagnati..