La Fata anziana – di M.Laura Tripodi
Arrivava puntuale, alle dieci del mattino.
La signora, che non a caso si chiamava Regina, bussava con un segnale convenzionale: toc toc, toc-toc-toc. I primi due toc distanziati, i secondi tre ravvicinati. Così si sapeva che era lei e anche io avevo il permesso di aprire la porta.
Da sfollata, anche se molto facoltosa, aveva dovuto adattarsi all’assegnazione di una casa popolare, proprio quella di fronte alla nostra, sullo stesso pianerottolo.
Era accompagnata dallo svolazzio e dal fruscio di una vestaglia rossa a piccole fantasie gialle, credo fosse di seta. Ai piedi un paio di pantofole con il tacco e un ciuffo di marabù sul davanti.
Avrei dato non so cosa per impossessarmi di vestaglia e pantofole.
Regalava alla mamma il quotidiano che aveva già letto. Sulla pagina della cronaca c’era passo passo il processo Raoul Ghiani- GianniFenaroli: un fattaccio relativo all’uccisione di una donna.
La mamma tifafa spudoratamente per l’imputato Ghiani che invece fu condannato all’ergastolo. Leggeva sempre con molta attenzione l’evolversi dell’istruttoria e se c’era il babbo lo faceva a voce alta, per commentare con lui.
A me piaceva stare ad ascoltare.
La signora arrivava accompagnata anche da una scia di profumo, con il rossetto sulle labbra, le unghie laccate e le dita inanellate.
Io notavo un gran sbrilluccichio, ma avrei realizzato molto tempo dopo che con uno di quei brillantini la mia famiglia ci avrebbe campato per un bel po’. E comunque ero molto più affascinata dall’insieme. Avrebbe potuto sembrare una fata anziana, ma io sentivo sempre un certo disagio quando entrava a casa mia. Come se la differenza fra la mia realtà e quella che lei impersonava si tramutasse in un abisso colmo di diffidenza.
Lei si sedeva, tirava fuori il pacchetto di Nazionali e si accendeva una sigaretta. Ho ben impresso nella mente quanto brillassero i suoi anelli quando strofinava il cerino sulla scatola.
Quel personaggio faceva parte del mio quotidiano, ma era lontano da me anni luce e lo vivevo ogni mattina come qualcosa di incomprensibile e straordinario.
Lei andava dalla pettinatrice (chiamava così la parrucchiera) una volta a settimana, aveva la sarta che le cuciva i vestiti (a Fiesole. A volte portava anche me), la lavandaia che le lavava i panni (la Serafina), era separata dal marito e quando usciva aveva in testa sempre un gran cappello. Anni cinquanta: un altro mondo.
Lei però non era spocchiosa. Faceva pesare la sua differente condizione quel tanto che fosse percettibile, ma non offensivo. A me e mia sorella qualche volta faceva dei regali.
Ricordo quel Natale quando con gli occhi spalancati aprimmo quel pacco che conteneva due ombrelli identici, di quelli con gli spicchi colorati. Non so quanto tempo siamo state a scrutare il cielo sperando che piovesse. Ai miei fratelli che erano molto più grandi di me, prestava spesso i gialli Mondadori e le settimane enigmistiche con ancora qualche cruciverba da fare.
A volte ci invitava a vedere la televisione, ma dovevamo portarci le sedie da casa.
La sua, di casa, era uno spettacolo. Io ho un ricordo molto preciso del mio disagio: mi sembrava che come mi fossi mossa avrei fatto danno, che io ero quanto di più fuori posto potesse esserci in quell’ambiente.
Però la mia era una famiglia molto modesta, ma tre volte tanto dignitosa. Credo che questo sia stato un dogma che mi ha accompagnato per tutta la vita: modestia, coraggio, onestà, testa alta e si va avanti.
,…………E comunque la signora Regina, tutti i giorni, alle dieci in punto del mattino, bussava alla nostra porta per gustare il caffè della mamma fatto di orzo mescolato a Vecchina.