Febbraio – fiori di stagione

calendule

Calendule – di Cecilia Trinci

Non hanno profumo le calendule. Sono fiori stellati, quasi grossi margheritoni  arancioni, allegri, ottimisti, ma senza il minimo profumo. Fioriscono ora, quando l’inverno è  attivo e qua e là le previsioni del tempo  danno ancora “possibili nevicate anche in pianura”. Erano i primi che ci accoglievano in campagna, con quelle capocchie accese, rugginose e tozze, quando si arrivava in certe mattine di sabato piene di sole freddo e si scoprivano lì, sotto il mandorlo secco, esploso  di bianco.

In città era inverno e lì era già “primavera a mare”. Perché il mare è proprio là, a pochi metri di distanza.

Da tanto tempo non le vedo rifiorire, anche se  certamente lo faranno senza di me. Esploderanno silenziose d’arancio e petali allungati, guardando il sole di mare con lo stupore solito, staranno qualche giorno a parlare con i merli innamorati,  il vento di libeccio strapazzone e le nuvole salate che strisciano basse, bianche e ghiacce come bioccoli di gelato.  Chissà se si chiederanno di noi, se noteranno la nostra assenza e la mancanza definitiva di qualcuno della famiglia o se staranno lì, nell’erba, senza domande, in silenzio, aspettando senza paura la loro fine fiorita.

Gioielli di fiaba

IMG-20180213-WA0006 (1)

GLI ORI DELLE SORELLE – di Elisabetta Brunelleschi

Dopo una giornata trascorsa insieme alle nipotine, al momento dei saluti, le ultime parole della zia Ernesta erano sempre :

– … E ricordatavi, quando avete un po’ di soldi compratevi l’oro! Anche se ci fosse da scappare, quello ve lo mettete in dosso e andate via! –

Le due sorelle a forza di sentirselo ripetere crebbero con il mito dell’oro.

Dopo i primi stipendi, messo da parte qualche risparmio, iniziarono a frequentare le oreficerie.

Natale dopo Natale, ricorrenza dopo ricorrenza acquistarono la catenina, il braccialetto, gli orecchini, l’anello, l’orologio: tutto rigorosamente d’oro.

Poi ricominciarono, un altro paio di orecchini, due tre medagliette per la catenina, una collana, altri anelli, uno con l’acqua marina, uno con il topazio.

La perle no, non le compravano, perché la zia Ernesta diceva che portano solo lacrime, era meglio un ciondolino di corallo.

Ma alle sorelle il corallo non piaceva e i loro acquisti si fermavano sempre al giallo e morbido metallo.

Gli ori li indossavano per le feste di famiglia: battesimi, comunioni, cresime, matrimoni, nozze d’argento e nozze d’oro. In queste occasioni era uno spettacolo vederle uscire elegantissime e agghindate, in un tripudio di giallo, con con anelli, bracciale, orecchini, collana e orologio.

Ma non pensavano solo a se stesse, per battesimi, comunioni e cresime non mancavano mai di regalare ninnoli d’oro: catenina, anellino, medagliette.

Poi, quando tutti furono cresimati, sposati, ecc. … le feste si fecero più rade e gli ori restarono sempre più spesso nei cassetti.

Lentamente giunse il tempo degli addii, un funerale dopo l’altro e molti parenti se ne andavano.

Anche per le due sorelle arrivò la vecchiaia e allora gli ori dimorarono solo nei cassetti.

Passarono degli anni e la fine si stava avvicinando.

Un bel mattino, quasi nascondendosi a se stesse, presero l’oro e lo chiusero in due scatoline di cartone che depositarono in luogo segretissimo.

Dopo la loro dipartita la casa è stata meta di eredi, architetti e geometri. Vi hanno lavorato, a turno, muratori, elettricisti e idraulici.

Ma nessuno ha ancora scoperto gli ori delle sorelle.

Qualcuno dubita che siano mai esistiti.

 

 

I diamanti di vetro

IMG-20180213-WA0006

Il regno che diventò repubblica  – di Stefania Bonanni

C’era una volta un regno, che diventò una repubblica. I regnanti furono fatti prigionieri, ed i gioielli della regina non servirono a liberare nessuno. Si scoprì che erano tutti solo pezzi di vetro, buoni per carnevale, o per giocare col riflesso del sole e colorarlo.

La regina per un po’ negò. Disse che non era possibile, che erano veri diamanti, che i rivoluzionari non si intendevano di gioielli, che a lei erano stati tramandati, che erano la ricchezza sulla quale si fondava il loro staterello. Furono fatte prove, allora. Furono fatti venire gli esperti che misurarono, cercarono di scalfire, morsero i diamanti. Quando cercarono di scalfirli, si spaccano, quando li morsero se ne staccarono pezzi che rischiarono di soffocare gli esperti. Vetri, erano solo vetri. Ma come? E quello grosso, grezzo, il più prezioso di tutti, quelli che si voleva montare al centro della corona, ad imitazione del kho-hi-noor? Vetro? E quando sarebbe successa questa mutazione? (Perché sicuramente era un fenomeno fisico) Forse quest’ultima, caldissima estate, ha fatto diventare vetro il diamante. O forse era vetro da sempre, poi con il ghiaccio dell’estate si è trasformato in diamante, poi di nuovo d’estate è tornato vetro, e così via. Bastava aspettare cambiasse il tempo.

Fu così che nacquero le statuine di pappagallini rosa, che quando piove diventano azzurri.

I gioielli della Regina

 

IMG-20180213-WA0006

Il  cielo in un vetro blu – di Nadia Peruzzi

George bighellonava nella sua bottega. Guardava e riguardava un blocco di vetro informe, rozzo, puntuto, irregolare.

Ne era attratto per il suo blu e per la trasparenza che riusciva a farsi strada malgrado tutta quella massa. Era inerte, ma non privo di vita. George la percepiva, quasi la sentiva pulsare come a chiedergli di fare da levatrice.

Sembrava chiedergli una forma, non una qualsiasi, una che servisse a qualcuno.

Era stufo di star lì pietrificato e senza un senso compiuto.

Toccandolo, gli sembrava di avvertire come un’onda di pura energia. E guardandolo bene poteva trovarne più di una traccia il quel groviglio di bolle, bollicine, gocce, che stavano sospese in un galleggiamento perfetto e orientate dal centro verso l’esterno.

Gli sembrava che si fossero organizzate tutte insieme, per trovare una via di uscita, rispetto all’angustia nella quale si trovavano costrette!

Il blu, quel blu profondo, intenso sapeva di magia. Come se un tocco di bacchetta magica avesse solidificato un pezzo di mare e qualcuno fosse riuscito a strapparlo nel punto più profondo, quello in cui il blu è più blu.

George decise. Non poteva certo restituirgli la fluidità dell’acqua. Doveva riuscire a ridargli duttilità e morbidezza, che gli avrebbe permesso di lavorarlo senza romperlo.

Ci voleva fare qualcosa di bello. Non sentiva, però, nessuna ispirazione. Eppure sperava che, tradotto in gel dal calore, fosse proprio quel blocco, in forma più malleabile e meno puntuta, a trasmettergli tutto quello che serviva per il suo capolavoro.

Di prismi non sapeva più che farsene. Ne ha fatti di tutti i tipi e di tutte le grandezze. Li trovava ormai privi di senso e di vera utilità, troppo simili ai patacconi preziosi che passavano tutto il loro tempo incastonati in anelli, corone, poltrone e di cui nel gran palazzo non si sentiva certo la mancanza.

Voleva semplicità. E una forma che fosse  in grado di rappresentarla. Era stufo di cose che avevano un valore materiale, pur inestimabile, ma che non parlavano al cuore e alle emozioni.

Una lieve scossa sembrò arrivargli direttamente dalla materia, guidandolo verso l’idea giusta. Bastava un semplice rettangolo per realizzarla.

La stanza in cui la regina amava passare le ore del  pomeriggio aveva, a guardarla bene, un che di triste e banale. Eppure le finestre facevano entrare non poca luce. I raggi si rincorrevano e giocavano a rimbalzino su quei mobili austeri, mancava  un po’ di vita. Mancavano giochi di colore. Il gel blu si compose, quasi magicamente, in un rettangolo che si adattava benissimo ad una delle grandi finestre. E altrettanto magicamente nella scomposizione di quella massa informe cominciarono a far capolino altri  toni di blu che, da cristallizzati, non riuscivano a farsi apprezzare per la loro bellezza, vivacità e varietà.

In un baleno riuscì a montarlo e agganciarlo al telaio. Lo rimiro’ soddisfatto. Era cambiato tutto. La stanza sembrava aver cambiato pelle. Un pezzo di cielo, con tutte le sue sfumature, stava giocando birichino con quadri, arazzi e con i mobili stile Impero.  Finalmente, si disse, la vita entrava in quella stanza !

Concentrarsi su una forma

low-poly-2767146_960_720

Il piccolo rettangolo – di Chiara Bonechi

…e così mi sono concentrata sulla forma e sul colore…

Il rettangolo piccolo disegnato sul foglio si amplia nella mia mente e si colora di verde fino a diventare un grande prato verde. Io sono al centro di quel prato, il verde si muove intorno, c’è molta luce e il colore uniforme del rettangolo si sfuma in una miriade di verdi in quel prato.

Nel primo pomeriggio di oggi sono andata a camminare con due amiche.

Passiamo dalla ciclabile lungo il fiume Ema poi su, verso Belmonte.

Si cammina a passo svelto, abbiamo voglia di perdere un po’ di peso, snellire le gambe, respirare correttamente e intanto non manchiamo di chiacchierare e di guardare…

A destra mi appare un prato verde ben curato davanti ad una colonica, le pansè nei vasi di cotto interrompono il verde dell’erba, a sinistra ancora un prato che degrada verso campi di olivi, non è curato questo prato, l’erba è più secca, più alta e più bassa, a tratti unita a sterpi e pruni, guardo avanti e in lontananza ancora case, ogni casa ha il suo prato e sul prato sedie, tavoli, panchine e giochi colorati per bambini. E così mi sono ricordata del mio rettangolo verde e di come si è trasformato in un prato dal manto erboso folto e di un verde intenso, e di quanti prati è fatta la terra e di quanto l’uomo ha bisogno del prato…un prato per riposare, un prato per giocare, un prato per il pic nic o semplicemente per sederti comodo a gustare un panino, un prato per chiacchierare, un prato per suonare,cantare e ballare, un prato per far correre i cani e far fuggire i leprotti, un prato che custodisce il magnifico segreto della vita.

 

Concentrazione

71hBZ-fTx8L._SL1500_

Dal bianco al giallo – di Gabriella Crisafulli

Il viaggio è lungo: temo di non essere attrezzata per farlo.

Sento aleggiarmi intorno il freddo di chi non mi ama ed ho paura di brancolare nel buio.

Mi sostiene la speranza di un rinnovamento, di un soffio caldo e leggero che mi dia tutta l’energia necessaria.

Desidero un pensiero intenso che mi accompagni nella fatica della scoperta: la rivelazione di parti di me, di loro, in un intricato doppio gioco di fili spezzati. Un gioco allo specchio dove ogni personaggio è contemporaneamente la freccia e il bersaglio.

Ho perso il bandolo.

Devo trovarlo.

“Acchiana acchiana babbaluci

Ca ti dugno pane e nuci

Ca ti dugno pane e cutieddo

Tuppe, tuppe, tu …

Un’è Mastro Antonino?”

 

La luce di un freddo giovedì di febbraio è raggiante.

Sono emersa dal fondo melmoso.

Il fango, adesso, arriva solo al mento.

L’acqua scorre; qualcuno si allontana: lo lascio andare a fatica, ma voglio sopravvivere.

La sua parte, nella mia storia, è terminata.

Lo strappo è lacerante: vanno via pezzi di me.

Addio.