La suggestione di Nadia nata dalla condivisione

La casa di Carmela – di Nadia Peruzzi

Photo by Junior Bastos on Pexels.com

Una casa è amore.
Una casa può diventare “ marchio dell’amore”, casa del cuore se stiamo bene insieme, pur se ci si riunisce una volta l’anno.
Anche una casa semplice inserita in una paesaggio superbo e fuori dal comune può diventare una reggia. Splendore si aggiunge a splendore se è il mare a farle da accompagnamento.
Il mare con le sue mille e mille cangianti note di colore, con i suoi suoni e i suoi toni irripetibili e non imitabili, perché non riferibili a niente altro.
Ogni suo movimento ha un effetto sull’animo umano.
Rasserena lo sciacquio ininterrotto sulla battigia, che si frange come una carezza sugli scogli, mentre la sabbia lo accompagna nel suo va e vieni.
Incute timore quando fra cielo e mare la linea si fa inesistente, il blu si traveste di grisaglie, il vento solleva nuvole di sabbia. Le onde si sollevano e muggiscono mentre schiaffeggiano la costa. Se capita che un cono nero si formi in lontananza e rapido si muova, puntando verso terra, è terrore e senso di minaccia quello che stringe il cuore in una morsa gelida.
Quante sensazioni, quante emozioni si possono alternare e mutare in pochi attimi.
La vita è scorrere più o meno lento di paure, dubbi e silenzi.
La via piana spesso diventa un’erta che sembra insormontabile, tanto da indurci a credere che sia impossibile andare avanti. Le gambe fanno fatica a muoversi, come avessero catene invisibili che le bloccano a terra.
Eppure offre, spesso inaspettatamente vie di uscita, di crescita continua, momenti di ripartenza che hanno il profumo leggero di una rinascita.
Nuovi sentieri, nuove strade possono aprirsi.
Nuove case del cuore possono diventare da sogno agognato, rifugio e placido approdo per il nostro essere.

Dalla lettura condivisa nasce il pensiero di Carmela

Da un’idea di Stefania – di Carmela De Pilla

Photo by Karolina Grabowska on Pexels.com

È buio e mi tappi gli occhi con le mani

Mani che stingono

per lanciare emozioni

Mani che raccontano

il piacere di esserci

Mani che avvolgono le spalle

per raggiungere morbidi traguardi

Mani sincere

per tenerti per mano

Mani calde

che mi fanno bene

Mani umide di crema Nivea

che sulla sponda del letto mi guarivano

Mani inutili

che hanno vestito, spogliato, disfatto, rifatto, acceso, spento…

Quante mani incontrate

Quante accolte o rifiutate

Quante dimenticate

E quante da scoprire

Tante

Tutte da accarezzare

( grazie Stefania)

Dalla lettura nascono considerazioni di Daniele

La bellezza della Terra – di Daniele Violi

Photo by Darina Belonogova on Pexels.com

Da una lettura condivisa nasce un ringraziamento alle Anime Amiche delle Piante e dei loro Frutti.

L’emozione del donare o preparare un cibo come la frutta, penzolante da anime amiche come gli alberi e le Piante che ci regalano la loro perfezione che si compone di forma e sostanza con la genesi misteriosa delle inimitabili (e impossibili a noi), creazioni di sapori e bontà, che è rappresentata dalla grande varietà dei prodotti che ci sono dati, per un processo che conosciamo come chimico- naturale, ma che definiamo spesso con semplicita’ come frutta e/o parti della pianta. Cibo commestibile; come da secoli viene tramandato, da generazione in generazione, per trasmissione di conoscenza e di stupore per la profondità di questa grande ricchezza che la Natura ci regala; da un mondo ritenuto spesso ostile. La sensazione che avverto leggendo i periodi dello scritto condiviso che l’autrice rappresenta, mi parla di Lei bambina, con un infanzia vissuta anche con gioco, nel contesto campagna paese scuola, che assapora consuetudini e abitudini alimentari e di convivialità che riuscivano a rinsaldare, anni addietro, un legame forte tra le persone che quotidianamente vivevano una vita condivisa, come anche io ricordo nella mia giovinezza, che si tinteggiava di emozioni, di fronte a bontà raccolti da alberi. Iniziative in uso delle tradizioni che erano alla base delle culture negli anni passati, come dimostra la descrizione da parte di una adolescente, delle abitudini alimentari legate al suo rapporto con la frutta in primis.

Il ricordo per Stefania Bonanni

Ricordare – di Stefania Bonanni

Photo by Pixabay on Pexels.com

E’ la  porta dell’ultramondo, il ricordo. Il modo per renderlo eterno. L’ ingresso in uno spazio solo tuo dove non esiste né ieri, né oggi, né domani. Solo il pensiero della vita che e’ stata e di quello che ti ha lasciato. Perché ogni cosa vissuta, ogni persona che se ne è andata, ti ha appiccicato addosso qualcosa di sé, ti ha cambiato il cuore, ed il ricordo è il mezzo per rendere eterno quello che non tornerà, ma nn n se ne andrà mai piu’.

Io ho avuto una vita bellissima, e ne sono infinitamente grata alla sorte, ai personaggi che l’hanno abitata, ai luoghi sullo sfondo, a chi mi e’ stato vicino, a chi mi è stato lontano. Ho avuto un’ infanzia di certezze, serenità, libertà ed amici, che basterebbe per essere la base solida e resistente di grattacieli altissimi, con i piani alti dondolanti nello spazio, ma consapevoli che la base è antisismica e  anti sgretolamento . Gli amici di allora sono quelli di ancora, ed alcuni hanno viaggiato senza perdere né pezzi, né bagaglio. Un tesoro immenso, abbracci teneri e parole superflue. Liquidi che si scambiano volentieri, un po’ di commozione, un grande affetto che non si nasconde, mani che si sono tenute per mano a battesimi, funerali, matrimoni, in corridoi di ospedali, nel cortile della scuola, davanti a fredde bare.

La lettura condivisa fa pensare: La casa di Sandra

La casa senza mare – di Sandra Conticini

Photo by mali maeder on Pexels.com

A differenza di Carmela, che ha scritto il brano, io ho sempre avuto una casa e non mi sono mai sentita precaria, mi dispiace per lei perchè queste sicurezze  i bambini le dovrebbero avere per poter affrontare la vita in modo migliore e con più positività.

La casa  della mia famiglia è stata quella dove ho vissuto fino a 14-15 anni, ma per la mamma era quella “del cuore” perchè l’aveva costruita il suo babbo e il suo fratello, che io purtroppo non ho mai conosciuto..

E’ bello pensare di vivere in  una casa con un bel paesaggio marino che, oltre ai colori possiede un profumo inebriante che, solo chi conosce bene la sua terra può saper descrivere così bene e far nascere un po’ di sana invidia.

Ho avuto solo case di città e anche con poco panorama, posso solo ricordare quando hanno costruito un altro palazzo, un ponte, aperto un viale oppure buttato giù  alberi per fare un centro commerciale, ma di profumi e colori pochi, già mi sembra strano sentire in primavera gli uccellini cantare.

Sono contenta della mia casa perchè è  comoda, spaziosa e luminosa. L’abbiamo arredata come ci piaceva e  ci sto bene perchè ci sono stata con la mia famiglia, anche se per poco tempo, ho molti ricordi e per fortuna quelli positivi sono maggiori di quelli negativi.

Dalla lettura condivisa nasce una ispirazione: Le mani di Rossella G.

Le mani raccontate da Stefania – di Rossella Gallori

Photo by Pixabay on Pexels.com

..mi appare Bruno, un babbo forte, non solo perché “tira di boxe” ma per la sua voglia di esserci, di restare, di esser punto fermo, uno su cui si poteva contare e cantare,  che c’era e c’ è stato…anche quando il suo tempo era scaduto…

Un babbo Paoloso……e  di padre in figlio trovo mani, un susseguirsi di mani, grandi, piccole, buffe, incoraggianti, mani da cercare nei nipoti, nei figli…ed un flash intrigante di mani giovani, di gesti arditi ed accolti con un: quasi no! Dita che cercano il concreto nel buio di un cinema vellutoso  e complice.

Poi senza falsi voli pindarici, ritorni da ieri a domani, ad un oggi sincero, ad una te così diversa da me, che per incanto trovo simile a me, dissacrante e riguardosa al tempo stesso: NON HO MANI UTILI IO!  Scrivi

Mani poco utili le tue, come le mie: né cucire, né ricamare, né maglia, né uncinetto, né impastare, mi casca tutto di mano, trito, più che riordino, raccolgo cocci assortiti, che schizzano a terra di nuovo…. mani che si son strette a pugno in un anno che non so se c’ ė stato, mani che poco si son giunte per pregare, mani grandi, trascurate, le mie, che come le tue han lasciato qualcosa a metà….ed ho usato l’ indice a mo’ di tergicristallo per dire no….nooooo, quando avrei dovuto dire: siiiiii, con il capo e con le parole!

Mani che han lavorato, però troppo presto, che han misurato, pesato, scritto, medicato ed asciugato moccio e lacrime, mani che han raccolto pasticche….

Non ho colto i tuoi fiori Stefania, stasera, ma ho guardato quelli che hai lasciato nel “tuo prato”  li ho annusati, senza capire che fiori fossero, perdendomi, però nei tuoi e loro colori, tavolozza di te…

Papaveri rossi forse,  che si sono piegati al vento forte, ma non spezzati. Neppure ai tuoi strilli, giocosi sempre, nemmeno agli attacchi fecondi di Paolo, nemmeno al vento di burrasca…

Ti leggo, nasce un pensiero:

Con le mani prendi la luna

Dalle tue dita scende sabbia dorata

Tracci una strada…

La seguo, ci sei, ci siete, ci siamo…..

La lettura condivisa genera ispirazioni: Carla e l’acquerello

Festa di colori ad acquerello- di Carla Faggi

Photo by Lum3n on Pexels.com

Come non condividere l’amore per i colori.

Come non pensare di essere un colore.

Come non giocarci e non strapazzarli per esserne amici.

Io sono amica del rosso, il rosso fuoco.

Il rosso fuoco si espande sulla carta a rigagnoli, incontra una macchia di giallo, cerca di evitarla per non contaminarsi, è superbo, si piace e vuole rimanere tale. Ma non può, una parte di se è attratta dal calore del giallo che si sta infiltrando piano in lui, sente che si sta trasformando, si illumina piano piano, una parte di se è completamente ormai arancio, solo un piccolo spazio è rimasto rosso pieno, il resto è arancio striato di giallo.

Si immagina di essere un tramonto illuminato dall’ultimo sole, le colline solo un profilo oltre al quale esplodono i colori più caldi dell’arcobaleno, io rosso ne sono il re, gli altri la corte!

Oppure sono un aranceto dove solo io ne sono il padrone e posso portare i frutti ad essere desiderati o ancora aspettati a seconda dei miei desideri di giallo.

Però che bello, pensa, quanto più ho adesso, forse è questo il senso di un colore e non solo di un colore, mescolarsi, contaminarsi per creare.

La lettura condivisa fa nascere ispirazioni: Stefania e il fiocco croccante

I bambini con il fiocco croccante – di Stefania Bonanni

Photo by Abd Alrhman Al Darra on Pexels.com

Ad un certo punto seppi che c’erano paesi dove le classi erano di soli maschi e di sole femmine. Forse fu allora che mi resi conto di vivere in una specie di minuscola bolla. Se avessero voluto dividere per sesso la mia classe, ci sarebbero state tre bambine da una parte, e quattro maschi da un’ altra. Forse nemmeno, visto che noi sette eravamo frutto dell’ unione di due anni in uno.

Noi sette: tre grembiuli bianchi con fiocco rosa, quattro grembiuli neri con fiocco azzurro. Il fiocco rosa era sempre gonfio, lucido, pulito ed annodato come un fiore. Quello azzurro sempre striminzito, grinzoso,  col nodo stretto stretto e le ciocche pendenti ai lati, pronte a svolazzare nelle corse. Tutto documentato nella foto di quarta elementare (anche queste foto non le fanno più, peccato, era una festa quando veniva il fotografo, sembrava di fare parte di un film) : io, grembiule bianco che arrivava preciso alla fine dei calzettoni, gonna scozzese a pieghe che si intravede dall’ abbottonatura, in piedi, davanti alla lavagna, fiocco perfetto. Paolino, grembiule nero stazzonato, fiocco disfatto, dita pollice ed indice della mano destra che si toccano, immortalato nell’ atto di tirare qualcosa, qualcosa che prima di quel momento sicuramente gli viveva nel naso.

La lettura condivisa ha creato ispirazioni: Lucia e la luna

La luna grande – di Lucia Bettoni

Photo by David Besh on Pexels.com

La mia luna non ha acqua di mare
La mia luna ha acqua di lago
La mia luna sta sulla punta del cipresso davanti alla nostra casa sulla collina
Era una luna rossa la luna del nostro primo bacio
Immensa in un cielo rosa la luna ieri mattina all’alba
Mi sono fermata e l’ho guardata
Era una luna grande
Perché ho lasciato passare così tanto tempo senza guardare un’alba con la luna?
Pensavo questo ieri e oggi ecco ancora la luna tra queste righe a ricordarmi di alzarmi presto e di volgere lo sguardo in alto all’alba esattamente sopra la testa
Esattamente dove sono
Senza neppure fare un passo

La lettura condivisa ha generato ispirazioni: Patrizia e il pepolino

 Pepolino – di Patrizia Fusi

Photo by Andy Lee on Pexels.com

Il pepolino è una piccola pianta selvatica dal fiore di colore rosa, che si adopera per profumare alcune pietanze.

Nel testo che ho letto , vedo la campagna in primavera, quando da bambina ci scorrazzavo con le mie amiche a raccogliere i fiori che nascevano nei campi lavorati, nei filari delle viti, nei balzi, si doveva stare attenti a non sciupare le semente.

Dei fiori raccolti facevamo de mazzolini che il giorno dopo portavamo alle nostre maestre.

Un mazzolino di fiori di aglio selvatico, fiore di un colore chiaro e una forma elegante, lo preparai con accuratezza, che portai a mia mamma credendo di farle cosa gradita, con poche parole smontò l’entusiasmo del mio regalo per lei, dicendomi: puzza d’aglio, donna brava ma alcune volte dura, come la vita che aveva avuto e l’aveva forgiata così.

Il ricordo di Carmela: L’altalena e l’eucalipto

Ritrovarsi – di Carmela De Pilla

Rivederla aveva rinnovato in me emozioni così forti che mi  appoggiai al vecchio eucalipto ancora rigoglioso e rassicurante.

La grande casa mi aveva accolta bambina e nonostante il tempo avesse cancellato l’armonia che vi regnava apparve ai miei occhi  pregna di sorrisi e allegria, non si sentivano più le risate dei bambini che rincorrevano le galline o i canti notturni, ora se ne stava solitaria e abbandonata a se stessa ricordando con un po’ di nostalgia un tempo troppo lontano.

In quella pianura avvolta dall’aria salmastra del mare poco distante erano state costruite molte case con la riforma fondiaria che assegnava ai contadini più bisognosi qualche ettaro di terra e l’abitazione, erano tutte uguali queste case con grandi spazi atti ad accogliere famiglie numerose.

Tutto sembrava come allora, il pozzo era sempre lì e rivederlo così piccolo e spaventato mi fece sorridere perchè da bambina mi sembrava gigantesco e quando mi chiedevano di tirare l’acqua col secchio avevo una gran paura di caderci dentro! Solo l’intonaco scortecciato, le finestre sbarrate e il grande silenzio che la circondava mi fecero capire che fosse abbandonata da molto tempo, rividi i miei zii indaffarati a tramestare nell’aia e i miei cugini più grandi di me che ci tenevano impegnati facendoci giocare con legnetti, pietre, sassolini e una vecchia palla e per un attimo ritornò a vivere.

Il grande arco che portava a una veranda chiusa era ancora intatto, mi avvicinai, gli antichi ricordi riaffiorarono con prepotenza: nel mezzo il grande tavolo, una panca e qualche sedia, un mettitutto avorio profilato di azzurro appoggiato alla parete e accanto una stufa a legna dove la zia con poco faceva mangiare tutti.

Ci andavamo d’estate quando la scuola chiudeva e l’attesa dell’arrivo dei miei genitori diventava insopportabile, ci riparava dalla tristezza, lì potevo assaggiare l’amore di cui ero privata.

Tante case sparse in qua e in là e tante vite abbandonate a se stesse, in balìa di un destino che se ne fotteva dei loro dolori  nascosti con pudore e dignità, ma loro non si abbattevano, sapevano che le battaglie vanno combattute con coraggio, senza troppi lamenti e ogni giorno sfidavano quel destino cieco e sordo e inventavano momenti di allegria per dare un po’ di tregua ai loro poveri cuori.

Nelle sere d’estate quando la frescura rasserenava gli animi uomini, donne e bambini si trascinavano lungo l’unica strada bianca che collegava le case e spesso si fermavano nell’aia della zia che accoglieva tutti sotto il grande eucalipto offrendo loro la sedia e lo zio pronto a raccontare aneddoti divertenti e a intonare canzoni popolari portava allegria e spensieratezza mentre i più piccoli andavano a giocare sotto il grande fico dove un’altalena li aspettava con le loro grida di gioia.

Le porte erano chiuse e attraversai la stalla confinante con la veranda, per un attimo sentii l’odore della paglia mista al letame e lo scalpitio di Stellina, la giovane cavalla tanto temuta e allo stesso tempo amata, forzai la vecchia porta sgangherata e mi trovai sul retro della casa,  il forno trasformato dallo zio in una conogliera era sempre lì e c’era pure la recinzione del pollaio dove io e mio fratello andavamo a prendere le uova.

I ricordi si accavallavano e mi rividi con mio fratello mentre portavamo a pascolare i tacchini di cui io avevo grande paura e quando aprivano la coda a raggiera e sentivo quel verso buffo e assordante “gluh gluh gluh” mi stringevo a lui che come un bravo pastore mi  proteggeva.

-Se volete mangiare dovete faticare!- Diceva scherzosamente lo zio, ma noi lo prendevamo sul serio e senza fiatare andavamo soli soletti in quei grandi campi abbandonati. E poi arrivava il tempo della vendemmia che avveniva prima del nuovo anno scolastico e la pigiatura dell’uva, un rito che si ripeteva ogni anno si trasformava in un vero e proprio momento di gioia, entravano nel grande tino prima le mie cugine e quando l’uva era già schiacciata facevano salire anche noi che cantando le canzoncine imparate a scuola ci divertivamo a saltare e ballare senza preoccuparci troppo di sporcarci assaggiando quel dolce succo d’uva che ci imbrattava il viso trasformandolo in una maschera, si comprava così una giornata di divertimento senza spendere nulla.

Osservavo con meticolosità come se fossi andata lì per vedre se tutto era a posto poi ritornai sotto l’eucalipto e mi sedetti per terra e nel toccare la terra dura e ormai arida mi venne in mente il grande falò di quella sera…eravamo tanti, gli adulti seduti sulle sedie e i più piccoli per terra, dopo la calura del giorno i vicini si erano ritrovati come spesso accadeva dai miei zii e seduti a formare un grande cerchio raccontavano gli ultimi fatti, gli uomini si accanivano contro la siccità o il governo che pagava poco i prodotti, le donne parlavano sottovoce degli affanni quotidiani e i bambini giocavano ai “ cinque sassolini “, io ero diventata esperta e nelle gare vincevo quasi sempre, era questione di abilità e di allenamento e quando nell’ultimo passaggio buttavo in aria i cinque sassi riprendendoli con una mano sola ero la bambina più felice del mondo.

Era buio da qualche ora e s’incominciava a sentire il freddo della notte così gli uomini fecero un grande falò nel mezzo del cerchio e all’inizio qualcuno intonò timidamente una canzone poi se ne unirono altri e altri ancora e nell’aria oltre alle scintille e alle fiamme che si rincorrevano si spandeva un’unica voce che saliva con slancio, quasi con violenza fino all’alto dei cieli come a voler dire ”Ascoltate, ci siamo anche noi.”

Il ricordo di Simone: L’altalena

QUEST’ANNO LO FACCIO – di Simone Bellini

Giuro che lo faccio ! Ho messo da parte polistirolo, cartone, ghiaino e muschio.

Inizierò da questa scatolina di cartone; ci disegno e ritaglio porta e finestre.

Poi, con le mani, strappo piccoli pezzetti irregolari di un contenitore per uova, di quel cartone grezzo, grigio e li incollo in un angolo della facciata incastrandoli fra di loro come se fossero un muro di pietra.

Dopodichè passo una mano di gesso per fare l’intonaco grezzo lasciando scoperto le pietre.

Coloro il tutto sporcando il muro e le pietre per dare un aspetto di povertà vissuta.

Potrei usare il polistirolo al posto del cartone, basterebbe il pirografo per incidere pietre o mattoni.

Un tappeto di muschio per il giardino e del ghiaino per il vialetto. Pezzetti di spugne di mare ( sono più porose ) tinte di verde su dei ramoscelli per fare gli alberi.

Bastoncini e corda per fare l’altalena.

Tutto questo mi ricorda la vecchia casa in campagna, dove passavo noiosi mesi estivi e l’altalena era l’unico diversivo per passare il tempo. Essendo l’ultimo di sei fratelli dovevo aspettare il mio turno. Fortunatamente i più grandi avevano altri interessi ; avevano riesumato un vecchio motorino del dopoguerra,48 cv, trovato nella rimessa di famiglia. Il giorno che riuscirono a metterlo in moto, fra l’entusiasmo di tutti, fecero dei giri di prova, anche una mia sorella volle provarlo, ma nessuno gli disse come si faceva a frenarlo! Andò a schiantarsi contro al muro accanto all’altalena piegando irrimediabilmente la forcella. Fortunatamente mia sorella non si fece nulla, ma la moto perì dopo nemmeno un’ora di vita.

Tornando al mio progetto per fare un presepe, devo disegnare tutta l’ambientazione, le case, la capannuccia, una cascatella,sentieri e montagne e……..

Cosa?…….. Come?… Natale è già passato?!?…….Oh cavolo!!!!

Il ricordo di Nadia: l’arcobaleno

Ottobre 1984 – di Nadia Peruzzi

Le prime ferie furono in ottobre. Era il 1984. Un autunno piovoso e ce lo beccammo con vento , fulmini, grandi acquazzoni.
Nei pochi giorni che passammo fra Orvieto, Viterbo, il Parco di Bomarzo con i suoi mostri, il lago di Bracciano con il possente castello degli Orsini, la protagonista principale fu l’acqua.
Erano i tempi in cui non erano i cellulari a darci le previsioni del tempo aggiornate ora per ora ,e si prendeva quel che veniva.
A Bracciano il Castello lo si vide dalla macchina come se stessimo sbirciando da dietro una tenda pesante. Era tanta l’acqua che cadeva che non si vedeva da qui a lì. Per non parlare delle sferzate di raffiche di grandine che sembrava di essere sotto attacco nemico a colpi di mitragliatrice.
Godimento poco o nulla, lago pressoché invisibile come il castello, fuga a tutta velocità dopo poco .
Per fortuna portavamo con noi il ricordo della mattina passata a Villa Lante a Bagnaia. Il suo giardino all’italiana risplendeva col poco sole che cercava di resistere all’avanzata di nuvole nere da paura .
Ci importava poco di quel tempo clemente solo a tratti. Eravamo insieme e felici. Sposati da appena un anno, tutto era bello anche con la grandine .L’acqua la prendevamo come una sorta di accompagnamento ritmato, ma in musica, per una vacanza comunque conquistata.
Le mie prime ferie dall’inizio del lavoro erano giorni da vivere con entusiasmo il meteo avverso non lo consideravamo più di tanto.
Poi lo sappiamo tutto scorre e tutto può cambiare .
Arrivati al lago di Bolsena, ci accolse uno spettacolo inatteso. Il sereno stava prendendo il sopravvento sulle nuvole e fu il meno.
Del tutto strabilianti furono gli archi perfetti e nitidissimi di due arcobaleni che ci fecero compagnia per il lungo tratto di strada che correva attorno al lago.
Erano gli ultimi due giorni. Furono spumeggianti per Walter e per me. Anche perché ci dedicammo a laute libagioni con uno dei vini locali l’Est Est Est, che era già stato traditore per mia madre in una calda giornata estiva romana . Lei era alle prese con delle cose da stirare, il vino era fresco e si trovò brilla prima di aver finito.
In quell’autunno di molti anni dopo, con quel vinello aggiungemmo più di un colore a quelli dei due arcobaleni che ci avevano dato il benvenuto.

Il ricordo di Tina: l’arcobaleno

Arcobaleno – di Tina Conti

L’immagine dell’arcobaleno, del prato e dei colori  sul fondo del biglietto, realizzato con mano leggera, sembra a matita o acquerello, mi ha riportato a lei, la Fata del bosco.

Conservo i suoi biglietti discreti, leggeri e riservati con grande  cura e affetto.

 Lei è nel mio cuore, ci siamo scambiate momenti intensi e intimi, in una fase della vita vicina.

L’ho rincontrata circondata  da bambini  nel parco con quella sua valigia  di tesori scelti e pensati con fantasia e competenza educativa.

Ammaliatrice, attraeva  con la sua voce pacata e dolce, incantava con il fare delle sue mani, con i modi semplici, tranquilli e tanto garbo.

I bambini arrivavano, trasportati da quella atmosfera quasi magica, estraniati dai rumori circostanti, lei non chiedeva  di più.

Io la osservavo e mi facevo tante domande, e la rivedevo compagna di scuola di Iacopo, studentessa e giovane donna con mille sogni e tanto cuore.

Un giorno, un patto; vengo a prendere lezioni di acquerello da te e in cambio facciamo pratica di lingua inglese che lei conosceva bene per i suoi  soggiorni e studi in quel paese.

Belle mattinate insieme, chiacchiere e colazioni con the e dolci, scambi sulle nostre vite e sulle sue scelte; il padre, che  ho conosciuto, le sorelle, gli studi e il lavoro a Londra.

Ho apprezzato quanto sia stata brava a cercare la sua strada, nonostante tutte le traversie è rimasta fedele al suo mondo e alle scelte.

Mi ha parlato della sua casa nel parco, del coniglio bianco, dei libri realizzati, delle attività portate a termine o iniziate. Ho messo a sua disposizione il materiale e la documentazione del percorso professionale e tutti gli strumenti che ancora usavo con i nipoti nella mia casa.

Questo, mi ha portato a proporre ancora un tempo insieme, il laboratorio nonna- nipoti del mercoledì, dove, mettevamo insieme forze e competenze con un piccolo gruppo di quattro bambini.

Negli incontri di pittura, facevamo proposte che avremmo offerto ai ragazzi, si disponeva una  Scaletta, e si pensava ai materiali, lei portava giochi e libri adatti al contatto con la lingua.

Per due anni, ci siamo incontrate e goduto di questo percorso, con momenti di gioco, canto, lettura e lavori realizzati, abbiamo osservato i progressi e le proteste delle bambine più grandi che si vedevano private di un tempo loro per confidenze e giochi. Aabbiamo adattato il tempo e le proposte alle varie situazioni, sfruttando  lo spazio  all’aperto.

Con la scuola media delle ragazze, è terminata questa esperienza che io ritengo sia stato molto importante e di grande valore per tutti, perché le proposte erano di vita concreta.

Se ci ripenso, mi ritornano in mente le cose prodotte, come i burattini, le tovaglie   e le tele ricamate con i fili di lana che sono rimaste a casa mia.

Prima delle vacanze estive, si concludeva il percorso con un finto viaggio, in montagna, al mare, e nell’ultimo incontro a Londra

I bambini, avrebbero potuto davvero andarci da quanto erano diventati bravi a districarsi  con bagagli, treno, ristorante, orari e visite a parchi e musei.

Poi, è ricominciata la vita di sempre, non era facile comunicare con lei perché non aveva telefono fisso e neppure un cellulare, solo saluti portati da conoscenti. Incontrati dopo una cena.

Una mattina mentre percorrevo una stradina secondaria per andare alla mia seduta di ginnastica, la vedo di sfuggita davanti ad un treno di circa dieci bambini che si immetteva in una viottola fra i campi, mi sono chiesta se era proprio lei, da dietro non potevo esserne certa, ma chi altro poteva essere, vicino alla piccola sezione della scuola di campagna?

Mi sono imposta quanto prima di fermarmi e verificare.

Sentivo le voci dei bambini che si rincorrevano nel giardino, e il ticchettio di un martelletto, ho suonato, e lei ha aperto il cancello. Ci siamo abbracciate e con sguardi felici, raccontato un po’ di eventi. Lei gestiva la struttura con pochi aiuti, era molto felice di poter riproporre le esperienze di Londra e quelle che aveva maturato in seguito.

Anche per me è stato bello immaginarla in quel mondo che abbiamo condiviso, presa da passioni e scelte faticose ma vere , utili, in questa realtà tanto evanescente.

Il ricordo di Carla: Il tram

Il tram a Vienna – di Carla Faggi

Avevo voglia di sposare Marco, chissà perché!

Lui era poco convinto. Anche qui mi chiedo chissà perché!

Ma ce l’ho fatta, l’ho sposato!

Il cosiddetto viaggio di nozze l’abbiamo però rimandato, mia madre non stava molto bene in quel periodo. Poi fu rimandato di nuovo, il nostro cane aveva dei problemi di salute.

Quando poi abbiamo potuto fare il nostro primo viaggio insieme era inverno inoltrato ed io che non amo il freddo mi sono ritrovata in pieno febbraio a Vienna sotto la neve.

Ma eravamo io, lui e Vienna, quarantenni e innamorati.

I ricordi sono tanti, naturalmente belli e languidi come si deve alle circostanze.

Ma le foto di Cecilia mi hanno ricordato come amavamo andare in tram a Vienna.

Potevamo vedere tutta la città comodamente seduti, osservare i comportamenti delle persone nella loro spontanea quotidianità. Perché nel tram non ci sono atteggiamenti costruiti, passerelle o finzioni, chi sale non è lì per mostrarsi, per sedurre o minacciare, è lì di passaggio, è riconoscibile e vuole starci il meno possibile.

Quindi noi ci godevamo la città ed i suoi abitanti. Seguivamo una linea fino alla periferia, incuriositi, perché era la periferia che ci raccontava davvero la città.

Naturalmente abbiamo fatto anche la Vienna classica, le visite ed i Musei da turisti.

Ma le foto di Cecilia non mi hanno fatto ricordare le cose più belle di quel nostro primo viaggio, ma la prima cosa banale ma stimolante che abbiamo condiviso insieme in quella nostra prima avventura.

Il ricordo di Daniele: Il treno

Il treno verso sud – di Daniele Violi

Il Treno che ricordo, lo potevo tenere parcheggiato sui binari sotto il mio letto.

Un trenino elettrico con binari, modellino Lima o Rivarossi, non ricordo. Un trenino  che costruivo con piacere, che la Befana dei Ferrovieri, ci regalava per il 6 Gennaio. Sono gli anni 1965 – 68. Essendo una nidiata di fratelli ci capitava di avere negli anni, un intero parco ferroviario, con il quale potevamo giocare con grande piacere a far funzionare questo piccolo mondo di tecnica.Tutto sotto le raccomandazioni di Mia Madre, per suddividerci i ruoli e Lei stessa a fungere da Capostazione, con paletta improvvisata a seconda di quale treno arrivava o di quale treno partiva…..sui binari che realizzavamo come tragitto. Merito tutto di una certa abbondanza di pezzi di materiale da comporre come i binari diritti i binari in curva e anche le locomotive e i vagoni. Una grande emozione per gli anni che avevo, organizzare anche con i miei due fratelli più piccoli, lo spettacolo di andirivieni, di un piccolo mondo di tecnica e gioco, forse uno dei pochi, che potevamo permetterci.

Mi ricordo delle scatole di cartone delle scarpe che utilizzavo per creare e modellare gallerie e ponti, con sotto lo sfrecciare dei trenini, che alle curve costruite troppo azzardate, uscivano dai binari e facevamo a gara per intervenire a risistemarli in asse e farli ripartire. Toccare questi modellini in scala, immaginare di essere viaggiatori all’interno, essere artefici di una visione di un aspetto della realtà che potevamo creare con la nostra manualità alle prime armi, senza dubbio era molto attraente e coinvolgeva sia io che i miei fratelli, tanto, anche troppo, visto che spesso doveva intervenire la…..Capostazione. Comunque anche nella realtà poi avevo il contatto con il treno, quello vero. Nelle vacanze, quando partivamo, tutta la famiglia, dalla stazione di Firenze S.M.N. ,con la Freccia del Sud, un lungo treno che partiva da Milano direzione Sicilia, un treno con tante fermate, che ci portava in Calabria dai Nonni, dai Parenti. Dal binario 15 ogni sera alle 20:30, sostavano 3 vagoni con locomotore pronto, che si agganciavano in coda al treno presso altro binario per ripartire alla volta di Roma.

Talvolta vi era quasi un assalto al treno. Io ero addetto a salire per primo sul treno con mio Babbo ferroviere e riuscire a occupare non un solo posto ma un intero scompartimento con qualche bagaglio, poi dal finestrino ci passavano borse e piccole valigie.

L’intera famiglia in truppa arrivava. Eravamo 7 occupanti e questo ci permetteva di poter disporre di un intero scompartimento. Allora sì, finalmente entravo dentro un vagone passeggieri del trenino che tenevo parcheggiato sui binari sotto il letto; ganzo, ghivido. Avrei potuto essere in seguito un ferroviere anche io; i miei desideri hanno rivolto lo sguardo verso quanto di bello vedevo appunto, durante i viaggi. Ho preferito la Natura che ci circonda con le Piante e tutti gli esseri viventi, che già sentivo di difendere; hanno fatto colpo sul piccolo viaggiatore che in treno attraversava verso il sud lo stivale di Bellezza, allora contaminata solo da un gioiello di tecnica e di poesia come il Treno. 

Il ricordo di Luca M.: La bicicletta

Sorpresa di compleanno – di Luca Miraglia

Sono nato nel mese di luglio alla fine degli anni ’50, nato insieme al boom economico in famiglia lanciata nel marasma della rincorsa al benessere. Quindi d’obbligo la vacanza estiva al mare e di conseguenza mai una festa di compleanno degna di tal nome, almeno per il me bambino.

Correva l’anno ’64 o ’65. Primi di luglio: armi e bagagli tutti al mare.

In realtà non tutti: il babbo solo nei fine settimana ma io sapevo che per il mio compleanno ci sarebbe stato, e questa era già una festa dato che viaggiava sempre per lavoro.

Giorni classici della vita al mare di un bimbo di 5/6 anni: ombrellone, maglietta per non scottarsi, paletta secchiello, formine, biglie di plastica con le foto dei ciclisti, tutto per far passare le fatidiche tre ore prima del possibile bagno, poi ancora giochi in spiaggia lasciando correre il tempo tranquillo della vacanza.

Arriva il fine settimana del mio compleanno.

Arriva anche la millecento del babbo ma, stranamente, la mamma non vuole che scenda a salutarlo. Indispettito e un po’ incuriosito riesco comunque a sbirciare fuori e lo vedo sfilare dall’auto un pacchettone ingombrante, stretto e lungo, che però sparisce subito verso le cantine.

Boh?! Chissà che roba è: se va in cantina sicuramente niente di interessante per me.

La sera cena tutti insieme e poi di corsa a letto per far in modo che domani il mio compleanno arrivi un po’ prima.

Nonostante l’eccitazione della mia festa in arrivo, dormo come un sassobambino, tanto che devono venire a svegliarmi per iniziare con lauta colazione le celebrazioni di me…

Sole estivo dalle finestre, già quel caldo che non ti fa venir voglia di vestirti, ma è il mio compleanno e allora oggi forse cornetti a colazione!!!

Giù dal letto, giro la porta e resto fulminato: in mezzo al corridoio troneggia una bicicletta rossa, lucente e meravigliosa.

Gigantesca per me bambino.

E ora come faccio che non ci so andare??

Il ricordo di Anna: La raccolta delle olive

L’OLIVETO – di Anna Meli

            E’ da poco passata una lunga e caldissima estate. A causa dello sconvolgimento climatico le stagioni non rispettano più le scadenze di una volta. Siamo a metà ottobre e già si raccolgono le olive, o meglio si battono, senza più nessun rispetto per le piante che vengono strapazzate e scosse da varie macchinette.

            Se chiudo gli occhi, immagini fuggenti scorrono legate a vari momenti del passato: disegni appesi in quella scuola dove ogni stagione aveva il suo spazio, serate trascorse insieme ad altri ragazzi in aperta campagna fra gli odori di erba tagliata, di legna bruciata nei focolari e la sensazione di quell’aria frizzante che annunciava il vicino inverno.

            Come era il mio disegno appiccicato con delle puntine al righello sulla parete di fronte alla finestra? Forse non bellissimo, ma c’era tutto: tronchi scuri e contorti con lunghi rami e tante foglioline verdi staccate l’una dall’altra e intercalate da pallini neri neri e lucidi, lunghe scale appoggiate con il contadino che si apprestava a salire e poi altre persone piegate nella raccolta e….ragazzi, donnine, qualche cane con la coda a ricciolo, un prato di erbe e zolle. Il tutto componeva una sola storia.

            E la storia, quella reale, si realizzava nei pomeriggi dopo la scuola, quando noi ragazzi andavamo a chiedere a Pietro i cestini per raccogliere le olive a terra. Ci era proibito salire sulle scale, anche se, qualche volta, qualcuno ci provava.

            La raccolta, in quegli anni, avveniva a fine novembre e le giornate erano, come dicevano i grandi “ Un pugnello” vale a dire brevi. Rientravo a casa al calar del sole, con le guance rosse di fuoco e le mani fredde e screpolate, ma felice. La mia mamma faceva un’emulsione di olio d’oliva e acqua e mi massaggiava le parti che erano maggiormente offese; anche se bruciava un po’ ricordo quella sensazione con piacere. Ero stanca ma felice e coccolata.

Il ricordo di Stefania: La bicicletta

La bicicletta rossa – di Stefania Bonanni

Quell’anno la Befana porto’ due biciclette. Una blu per la Sonia, una rossa per me. Tutte le cose di Sonia erano blu, tutte le mie rosse.

Avere una bicicletta voleva dire che si potevano fare tratti di strada piu’ lunghi che non a piedi, ci si poteva spingere forse in paese, forse a scuola, si poteva girellare, si poteva arrivare in luoghi che si sapeva solo noi, senza rendere conto delle strade percorse, a meno che non si avesse la sfortuna di essere viste , ci si conosceva tutti, ed erano tutti gran chiacchieroni.

Svanì presto l’ illusione di libertà. Vennero subito le indicazioni di utilizzo delle bici. Si poteva andare al forno, in macelleria, alla posta. All’ Arno assolutamente no. Per la strada principale nemmeno.

Il mio posto preferito era lungo la strada sterrata, dove si formavano enormi pozze di pioggia e fango. C era una semicurva, in particolare, che nascondeva alla vista, e nella fantasia, quando arrivavo lì ero sola, sperduta, orfana, nel bosco o nel deserto, a seconda di che stagione fosse. Appoggiavo la bici al balzo, tra i rovi, e mi sedevo su di un sasso piatto che mi sembrava un trono. E guardavo le nuvole, ed immaginavo storie. La preferita raccontava le avventure di una ragazzina sola al mondo che restava tra i rovi tutta la notte. Dalle frasche uscivano pantere e serpenti, a volte fantasmi, che però fecero parte delle mie storie per poco, perché mi riportavano sempre a casa.

I giorni piu’ belli era quelli nei quali pioveva poco. Quel tanto che bastava ad impastare la polvere della strada sterrata, con la pioggia. Il risultato era una una materia a metà, né liquida, né solida, marrone e lucida, e se ne capiva la consistenza solo mettendoci le mani, o i piedi, o tirando sassi nella pozza e valutandone gli schizzi. Era molto bello arrivarci con la bici, in velocità, alzare i piedi dai pedali, e volarci attraverso. Una volta sono caduta col sedere proprio nel mezzo della buca grossa. Per tirarmi su ho anche strusciato le ginocchia, e sono tornata a casa ricoperta di terra. “Guarda come sei ridotta!” E non capirono quanto mi ero divertita, e quanto mi piacesse non essere più quella bambina buona, pulita e pettinata che volevano fossi.

Quando era troppo brutto tempo e la bici era proibita, andavo a piedi alla buca. Mi preparavo bene ed a lungo. Mettevo gli stivalini da pioggia, la mantellina impermeabile naturalmente rossa, prendevo l’ ombrello, e partivo. Cominciavo a fantasticare da subito.

 Se avete pensato che la buca fosse distante chilometri dalla mia casa, è esattamente quello di cui allora ero convinta.