La storia di Patrizia

Il ponte di una nave

Macchia, lacerare, frequentarsi

Sul ponte di una nave – di Patrizia Fusi

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E’ la prima volta che faccio un viaggio in nave, mi sento piccola piccola e tutto è grande, seguo il gruppo con timore, un giovane marinaio mi aiuta alle scale mobili a portare i bagagli, arrivo in salone dove il gruppo è  insieme, ci consegnano le chiavi della cabina.

Dalle vetrate si vede il porto, mi piace quello che mi circonda, mi sento timorosa, insicura.

 Mi sposto verso la cabina che mi hanno assegnato, sto molto attenta alle indicazioni nel prendere l’ascensore e  scendere al piano giusto, controllare i numeri delle cabine alla parete all’inizio dei corridoi,  arrivo alla mia con un po’ di difficoltà.

L’ambiente è piccolo e senza oblò, lascio il bagaglio, vado subito fuori ho voglia di vedere questa grande nave, salgo al piano dove c’è il bar mi aggrego al mio gruppo, c’è chi gioca a carte, c’è chi fa conversazione, c’è chi fa uno spuntino, altri gruppi fanno le stesse cose, alcuni passeggeri si distendono sui divani laterali e cercano di dormire.

 Dalle grandi vetrate vedo la scia di schiuma bianca che il movimento della nave produce.

Mi sposto al lato opposto della nave ho voglia di vedere, nel corridoio negozi di vario genere, abbigliamento, specialità gastronomiche regionali, un’edicola di giornali con un po’ di tutto da giocattoli, ninnoli di ogni genere e tanto altro, alla fine del corridoio uno spazio dedicato ai bambini piccoli , con vari giochi gonfiabili, dove tre bambini giocano spensierati saltellando da un gioco all’altro sotto lo sguardo vigile di una figura maschile.

Entro in un’altra grande sala dove ci sono tanti divanetti azzurri damascati e poltrone di colore blu ticchettate di celeste, tavolini tondi di metallo e vetro formano tante piccole isole, in una parete il bar, con dei sedili alti, io non ci riesco a stare, su alcuni il simbolo di non sedersi.

Un  ronzio di sottofondo ci accompagna da quando siamo partiti, leggero chiacchiericcio, un bambino si fa sentire con insistenza, ad un tratto si quieta, la mamma l’ha accontentato.

Il suono di un macinino, i gridolini felici di un piccolo mentre cammina traballante davanti al suo babbo, allietano i miei orecchi.

 Anche in questo salone persone che leggono, mangiano, giocano, guardano la televisione, o dormono.

Le nostre fisionomie sono nascoste dalle mascherine, siamo vestiti in maniera diversa, da chi è in pantaloni corti a chi indossa un piumino leggero, vite sospese su questo mostro galleggiante, mi guardo intorno mi immagino  tante vite diverse, penso come è cambiato il mondo in cinquant’anni, in questo grade salotto penso alla massa di disperati che attraversano lo stesso mare in condizioni molto diverse, lo stesso mare è una tomba liquida,  e una macchia nella coscienza di una parte dell’umanità?

Un sole lattiginoso riflette i propri raggi sull’immensità del mare, di color grigio celeste con in lontananza delle strisce di luce bianco argento, vedo tutto questo da una grande finestra, il cielo è pieno di morbide nuvole grigie che si fondono in lontananza con il mare, nel corridoio passano persone, ognuna con i propri rumori, voci o pesticcio di passi.

Tutto è calmo, il mare è una grande tavola leggermente increspata, non si vede nessun pesce scappano all’arrivo di questo mostro, anche lui può diventare fragile e con lui tutti noi.

Un carrettino con dentro una bambina mi passa accanto lei sillaba baba baba, vita che inizia.

Sono salita sul ponte alto della nave, un altro mondo, lettini pieni di varia umanità, signori attempati anche qui chi gioca chi fa altre cose.

Odore di toast che proviene dal bar situato sotto la poppa, al soffitto tanti faretti, persone sedute ai tavolini.

Una piccola piscina vuota, dove le persone si siedono ai bordi, dove anche io sono seduta, un leggero vento mi arruffa i capelli, il sole lattiginoso mi scalda la schiena.

Dei giovani si sono distesi per terra, si vedono piedi sporchi, ci sono diversi cani a passeggiare con i padroni, alcuni si rifugiano fra le loro gambe, ne sta passando uno con un musino appuntito ha un portamento eretto e un forse è un cucciolo, si gira a guardare la propria padrona come a chiedere se andava nella direzione giusta.

Brusio generale, rullio dei motori, dolci vicine di bambini, qualche capriccio.

La grande ciminiera a forma di piramide a spirale disperde nell’aria un ciuffo continuo di vapore bianco.

C’è un giovane che si fa la doccia.

Un angioletto biondo si diverte a saltare delle corde tenendo la mano della madre.

Tutto in torno a me è immenso, il cielo si fonde col mare, i raggi del sole accarezzano la superfice del mare e lo illumina, sembra una lastra di cristallo smerigliato.

Movimento continuo di persone, passaggio continuo di carrettini.

Una famiglia con due bambine, la più piccola in braccio alla madre, capelli corti maglina rossa gonna a fiori, l’altra di circa cinque anni capelli lunghi biondi maglietta rossa con fusò, ciascuna ha una bottiglietta d’acqua da cui bevono.

Un giovane con una grande barba scura sta fumando, in una mano ha una tabacchiera in ottone lucido che risplende al sole  dove depone la cenere è insieme a una bella ragazza.

Seduti per terra su un tappeto cinque giovani  stanno mangiando, il ragazzo con barba ha i capelli lunghi raccolti in un codino,  due ragazze hanno capelli lunghi di colore chiaro sciolti che si arruffano con l’aria l’altra li ha raccolti in una lunga treccia….bella la gioventù.

Il mare visto dall’alto è di colore blu scuro solo la striscia dell’acqua smossa dalla nave è di colore turchese.

Un piccolo canino bianco è in braccio e si fa coccolare dalla sua padrona, un altro, uno spinone marrone, si è disteso per terra, il vento gli arruffa il pelo, ha lo sguardo assente come si fosse rassegnato a questo strano frequentarsi.

Una ragazza, come lo spinone, è distesa per terra, sta dormendo ha intorno a sé attrezzature da campeggio, lo zaino ha una lacerazione dal latro sinistro dove si intravede il contenuto.

Noi persone nelle nostre diversità siamo un mondo da scoprire.

 Dopo aver familiarizzato con la grande nave mi sono sentita un po’ meno piccola.

La storia di Sandra

Mercato di Sant’Ambrogio

Macchia – lacerare – frequentarsi

Il mio mercato – di Sandra Conticini

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Ho lavorato per tanti anni vicino al mercato di Sant’Ambrogio e tutte le mattine, prima di entrare lo frequentavo per fare un giretto, vedere i banchi ed il venerdì facevo la spesa.

Passavo sempre di corsa tra le file, sembravo uno tsunami, il tempo era contato, mi conoscevano tutti, il pesciaiolo, il civaiolo, il trippaio, anche se non compravo niente, mi salutavano con il sorriso sulle labbra e io ricambiavo.

Era l’occasione per passare dal mio amico macellaio a fare due battute ricordando  la nostra gioventù.  Per un periodo eravamo un bel gruppo, siamo andati a sciare, al mare, a fare girate domenicali ed abbiamo trascorso dei bei momenti. Poi ci siamo persi di vista e ritrovarlo al mercato è stata una bella sorpresa.

Conoscevo il formaggiaio, dove andavo soprattutto in estate per prendere quelle favolose mozzarelle fresche che venivano dalla  Campania.

Con i forni mi sbizzarrivo, erano diversi, da uno compravo la schiacciata croccante, da un altro il pane all’olio, da un altro il filone cotto a legna, secondo la voglia che avevo in quel momento. 

Dopo uscivo e andavo dagli ortolani e dai fruttivendoli. Iniziavo a prendere mele, arance, fragole, pesche, susine, secondo la stagione ma i kiwi non mancavano mai. Era il banco che mi piaceva di più, perchè in tutte le stagioni aveva tanti colori che messi insieme davano una macchia di colore unica e tutto quel ben di Dio in estate con quel caldo torrido mi faceva venire l’acquolina in bocca..

Ho assistito anche a diverse litigate fra venditori per motivi più svariati dalla politica, allo sport, alla luce che non funzionava, la merce più o meno buona e  era sempre un bello spettacolo. Mi sembrava di tornare indietro nel tempo quando tutto era più semplice. Il giorno dopo i litiganti erano insieme a ridere scherzare e prendere un caffè.

Mi avviavo per andare a lavorare e, se ero in macchina tutto bene, ma se ero in bicicletta era dura! Quando arrivavo ero già stanca e sudata, ma in perfetto orario. I colleghi si meravigliavano che avessi già fatto la spesa e io  rispondevo che dovevo passare dal mercato perchè  aiutavo a montare il banco e guai se non ci andavo.

Ricordo quella volta che ero in bicicletta con tutta la spesa e, mentre pedalavo, mi si impigliò la gonna preferita ai raggi della ruota lacerandola, provai un gran dispiacere perchè  stare tutto il giorno con lo strappo non mi faceva sentire a mio agio.

Ancora oggi quando devo fare una spesa “di fiducia” vado al mercato di Sant’Ambrogio, ma dei miei fornitori  ufficiali ne sono rimasti pochi. Il mercato sta cambiando, da anni è  in ristrutturazione,  prima dentro ora fuori, il parcheggio non è facile trovarlo. Anche li si vedono stranieri con le guide che fanno visite guidate e, per noi fiorentini, sta perdendo il suo fascino, ma io finchè posso, continuerò ad andarci, perchè lo sento un po’ mio.

La nuova storia di Rossella B.

MACCHIA LACERARE FREQUENTARSI

– Un Convento di Suore di clausura –

Clausura ciao ciao – di Rossella Bonechi

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A Varlungo c’era un Convento di Monache di clausura, trasformato ora in residenza universitaria, a cui gli abitanti del quartiere attribuiscono il Miracolo della Piena del ’66 visto che l’acqua d’Arno si fermò pochi metri prima della costruzione.

Io le conobbi nel 1982 quando d’estate, a scuola finita, ero di corvée nella rosticceria del babbo.  A chiusura, verso le 3, se qualcosa di preparato rimaneva intero nelle teglie, veniva portato alle suore e mi domandavo spesso come poteva avvenire visto che loro e il mondo fuori non potevano frequentarsi. Per non farmi lacerare da questo interrogativo, una volta mi offrii io di fare il servizio. 

Già si cominciava che invece del campanello si tirava una maniglia di ferro che all’interno faceva risuonare una campanella; poi la porta si apriva da sola comandata, penso, da un tira-corda. Con le mie due borse una in una mano e una nell’altra mi avviai in un androne poco illuminato pavimentato a scacchi bianchi e neri e come mi era stato indicato salii la prima rampa di scale in pietra serena (grigie…..). Mi ritrovai in una specie di disimpegno  davanti a un muro che aveva un’apertura incorniciata da un bel motivo in pietra in stile rinascimentale  con una grata bella spessa in ferro battuto. Ferma, lì in mezzo, sempre con le mie borse saldamente in mano, non sapevo proprio che fare ma una vocina tutta miele e zucchero si palesò: “Oh cara, vieni, vieni avanti. Ti manda Giuliano? Sei la sua figliola? Gli assomigli tanto !”. Avevo il terrore che mi chiedesse di entrare, io non volevo proprio spingermi oltre! Ma fortunatamente vidi che avrei potuto appoggiare la roba sulla balaustra di pietra del muro e svelta svelta la misi lì e rivolgendomi alla macchia scura indistinta dietro la grata masticai un “Arrivederci Madre!” e scesi di corsa le scale.

Era un modo di dire il mio “arrivederci” perché  non accadde mai più!