Il gioco con le parole di Tina

Macchia – lacerare – frequentarsi

Il mercato di Sant’Ambrogio a Firenze

Amiche in giro – di Tina Conti

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Emma cammina avanti e indietro sul marciapiede, passano frettolose signore con fagotti, pacchi e borse piene di frutta e verdura.

Si sentono voci che reclamano la bontà e la freschezza degli ultimi carciofi e dei novelli asparagi, il banco che si allarga ogni giorno e che prepara panini e prelibatezze fiorentine, stamani ha messo due tavolini con le sedie sopra un camioncino.

Gli avventori si mostrano soddisfatti di quella posizione dall’alto, il proprietario ha guadagnato cinque o sei posti per i suoi clienti e poi, essere lassù crea una bella novità

Emma, riceve una telefonata dalla sua amica Marcella.

 -Dove sei Emma? Non mi ricordo dove abbiamo fissato!

-ti sto aspettando davanti al negozio della Corti

 -bene ,arrivo!

 -scusami, aggiunge Emma, arriverò  con qualche minuto di ritardo, ho combinato un bel guaio, ma penso di farcela in dieci minuti………scusi tanto  signora, non volevo proprio crearle problemi

-ne è sicura? risponde la Signora. Viaggiare con quell’ ombrello sbrindellato, con quelle stecche rugginose sporgenti cosa credeva di fare? ormai il danno è fatto, e mi deve risarcire, guardi che lacerazione alla mia bella gonna di seta.

-certo, certo, ha ragione sediamoci a quel caffè  e accordiamoci, desidera prendere qualcosa?

 -si, si,quando sono agitata mi rilassa solo uno spumantino!

-Italiano o Francese?

 -naturalmente francese……allora, facciamo presto, la gonna come vede è ERMES di seta, l’ho pagata 800 euro e sicuramente non ne troverei una uguale, facciamo 1800 euro e io sarei soddisfatta.

 -via signora, sia ragionevole, la gonna è vecchia.

 -vecchia? ma come si permette, e poi faccia attenzione con quel bricchino di caffè, non vorrei  che combinasse un altro guaio.

 -le faccio un assegno  di 900 euro e così  penso di averla risarcita a modo.

 -metta giù quella mano, vede che sta rovesciando il caffè sulla mia maglia? Ma da dove viene, che sguaiata che  è

 –scusi, scusi, sono mortificata, mi devo essere emozionata, io vengo dall’Antella, ho appuntamento con  un ‘amica, accordiamoci lei mi sta aspettando.

 -bene, lacerazione gonna, macchia che non so se ne andrà sul golfino di Cuccinelli, facciamo 2000 e salutiamoci.

Marcella, ha seguito la scena da lontano e si avvicina all’amica

– Emma ma cosa è accaduto? avevi appuntamento con me, chi è questa signora?

-si sieda con noi, dice la Signora,   faremo in un attimo, ma, io la conosco, è la signora della bottega di ricami in Portarossa.

 – Si! si!,  sono Ferrini, la riconosco anche io, ci frequentavamo spesso in passato

 -che peccato  che avete chiuso il negozio, io ci venivo spesso , ho fatto regali  a tutti gli amici sparsi per il mondo, la qualità era ottima e poi che fantasia.

 -si! si!, mi ricordo di lei  molto bene, mi ricordo anche che non ha saldato gli ultimi conti, ci ha lasciato un bel buco. Mi ricordo che erano circa 6000 euro, aggiunge aggressiva Marcella, se ha da accordarsi con la mia amica possiamo fare i conti così io potrò incassare la parte che mi deve, le sembra una buona proposta? Lo spumante naturalmente lo offriamo noi, siamo le signore dell’Antella

Il gioco con le parole di Nadia

Macchia, lacerare, frequentarsi.

Pranzo di compleanno

Tempo che va – di Nadia Peruzzi

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Era il suo trentesimo compleanno.
Lei non amava festeggiare, tanto meno che la festeggiassero. Era stato così da sempre. Preferiva lasciare scorrere il tempo così come veniva.
Si negava sempre quando la invitavano alle feste di compleanno di amici e parenti. Ritrovi di chiacchiericci infiniti, pettegolezzi che la annoiavano  a morte. Per non parlare dei complimenti con sorrisi che più falsi non potevano essere.  Quelli li detestava proprio. Bastava guardare gli sguardi fuori sintonia  di chi si sperticava  in “come stai, bene! questo taglio di capelli ti dona tantissimo! che vestito fantastico!” Insopportabile.
Spesso per evitare tutto questo, scompariva letteralmente. Per il suo compleanno preferiva andare in viaggio, anche solo per qualche giorno, in modo che nessuno la assillasse, e quel fatidico giorno passasse in tranquillità, senza che fosse la festa a decidere per lei, e a condizionare il suo doversi atteggiare rispetto agli altri.
Quell’anno però qualcosa era cambiato.
Aveva cominciato a frequentarsi con Nicola. Un amore partito quasi per scherzo e diventato serio e appassionato in breve tempo.
Lui, a differenza di lei, era votato alle feste. Era un giocherellone che amava la compagnia e quel particolare clima che una festa ben organizzata era in grado di creare.
Stava cominciando a contagiare piano piano anche lei, che stava scoprendo come, accanto a lui,  anche le cose che detestava di più cominciassero a piacerle.
Per i suoi 30 anni Nina non aveva più possibilità né di scappare, né di rinchiudersi a riccio. Nicola cominciò per tempo a lavorare sulle sue ritrosie e a far cadere tutte le linee di difesa che lei provava ad alzare.
Alla fine decisero per un pranzo in una località di mare.
Invitarono gli amici più cari. Alcuni li accompagnavano addirittura fino dall’infanzia. Non erano in molti.
Si stavano divertendo e Nina si sentiva stranamente bene .
Il sole caldo e un vinello frizzante fecero il resto.
Si mangiava bene in quella trattoria sul lungomare. Gli spaghetti erano così conditi che alla prima forchettata, la camicetta di seta bianca di Nina subì un attacco traditore.
Uno spaghetto si mosse a mo’ di frusta e zac, una macchia rossa e strascicata cominciò a colare sul davanti. Proprio in bella vista.
Si alzò di scatto, per non farla vedere anche agli altri.
In bagno riuscì in qualche modo, sfregando e risfregando,  a far sì che rimanesse solo un piccolo alone quasi invisibile.
Si riavvicinò al tavolo. Tutti ridevano e scherzavano, erano così belli.
Nicola, il più figo di tutti, ed era solo suo, pensò con grande gioia.
Pensiero fugace. Fu un’occhiata lanciata da Lara, seduta proprio di fronte a lui, a farle gelare il sangue.
Era ammiccante, seducente ed estremamente fuori luogo e fastidiosa.
Anche lui guardava lei. Non ci potevano essere dubbi. Lo si capiva da come muoveva la testa e dal suo gesticolare. Era rivolto, quasi proteso verso Lara e rideva alle sciocche battute di lei. Erano amici di infanzia. Per questo l’aveva portata quel giorno.
Nina si sedette al suo posto. Non sapeva né cosa pensare, e soprattutto non sapeva che cosa fare. Si vedeva chiaramente che fra quei due c’era dell’altro, non solo amicizia.
Si trovò, senza rendersene nemmeno conto, a lacerare in pezzetti piccolissimi il tovagliolo di carta che aveva sulle ginocchia. Sicuramente un transfert alla Jung o alla Freud, anche se non le importava minimamente né dell’uno, tantomeno dell’altro in quel momento.
L’istinto l’avrebbe indotta a far ben altro.
Si immaginò come una furia, a tirar via la tovaglia con tutto quel che c’era sopra. Non contenta si vide lanciata attraverso la tavola con una mano stretta a pugno, versione volante alla Superwoman, per beccare Lara direttamente sugli incisivi.
Infine una mossa alla Jackie Chan. Con un colpo di gomito si vide centrare il naso di Nicola in modo da romperglielo almeno in due punti, uno solo sarebbe stato troppo poco per ciò che aveva visto.
Il piano B che comprendeva il fugone le sembrò il più adatto a lei.
Non salutò nessuno, se ne andò a rotta di collo.
Ricominciò a scappare dai suoi compleanni e anche dalle rimpatriate fra amici di più o meno lunga data.
Preferiva di gran lunga i giorni normali, quelli in cui il tempo scorre e si lascia vivere un po’ così come viene.
Di Nicola non seppe più niente e si accorse che nemmeno le importava sapere cosa facesse o dove fosse!
Era tornata lei a decidere il chi, il dove, il come. Era libera di essere sé stessa e questo la faceva star bene.

Il gioco con le parole di Stefano

Macchia – frequentarsi – lacerare

Cena sotto le stelle

L’amico scomparso – di Stefano Maurri

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Erano stati tutti convocati per una cena sotto le stelle, nella zona di Campiglia dove la macchia boschiva si alterna al prato e al seminativo. Dalla casa molto suggestiva si  vedeva il mare, ma anche le ciminiere delle acciaierie di Piombino e la Torre del Sale, ex struttura dell’ENEL per la produzione di energia elettrica, testimonianza visiva del lavoro di migliaia di operai che si erano susseguiti fino ad allora. Il fumo rilasciato dalle ciminiere con i suoi colori rossicci faceva apparire quelle costruzioni come le bocche di un drago.

Tutto era come sempre, con l’abituale voglia di frequentarsi, niente sembrava intaccare la loro voglia di stare insieme, quando si accorsero che Qualcuno mancava. Furono tutti sorpresi e ognuno accusò l’altro di non aver invitato proprio la persona che mancava. Invece qualcuno lo aveva visto muoversi lì intorno. Infatti c’era, ma si era allontanato verso la macchia e dall’alto era rimasto a guardarli mentre si confondevano via via con il paesaggio e fino a ché sparirono nell’aria come il fumo delle ciminiere.

Con il gioco di parole il nuovo racconto di Luca

Macchia – lacerare – frequentarsi

Il convento di clausura

L’inglese e le suore – di Luca Miraglia

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Non saprei dire come mai, o per quale strana scelta dei miei genitori, invece di essere a giocare con i miei amici di strada mi ritrovavo in quell’aula a studiare i rudimenti della lingua inglese.

Era un luogo tra il cupo e il fatiscente, a cui si accedeva dal chiostro di un convento di suore di clausura. Una enorme macchia d’umido sovrastava la porticina d’ingresso di una stanzetta apparecchiata ad aula con pochi banchi in legno, una cattedra sbrindellata, un alfabetiere illustrato alle pareti.

Ricordo bene il sorriso gentile della maestrina che accoglieva noi rampolli un po’ sgarrupati di borghesia emergente anni ’60.

Ricordo bene anche le sverze dei banchi che regolarmente laceravano le ginocchia già un po’ sdrucite dai giochi lasciati da poco per strada.

“Hello!” “Good afternoon!” appena entravo.

“Bye bye” le due paroline magiche che subito avevo capito voler dire “Ciao, ciao!” e che soprattutto significavano la fine di quell’ora di noia mortale.

Bye bye e si schizzava fuori a ricercare la luce, il sole, i giochi, il frequentarsi con il gusto della libertà bambina.

Poco importava se la suorona portinaia ci redarguiva ogni volta che ci mettevamo a correre verso l’uscita. A volte tentava anche di blandirci con qualche caramellina d’orzo autoprodotta, o con i ritagli delle ostie che le suore preparavano per le messe. Noi via, via, via…….

Il gioco con le parole di Carmela

Macchia, frequentarsi, lacerare

Un convento di clausura

Frequentarsi – di Carmela De Pilla

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Arrivò in silenzio, senza far rumore e lei l’accolse con sollievo, già da tempo provava uno strano tumulto, la paura di non farcela la immobilizzava, sentiva  che quella macchia nascosta stava lacerando  un dentro malmesso e capì che doveva riconciliarsi con la propria storia.

Era sempre stata irrequieta e un po’ assente, aveva preferito lasciarsi vivere che vivere, ma ora basta! Doveva riconciliarsi con la sua storia per ritrovarsi e fu così che quella mattina di buon’ora senza pensarci troppo decise di partire, la sera precedente aveva fatto una breve ricerca su internet, “ Convento di clausura Santa Chiara”, doveva andare da lei.

Quando lo seppe non si dava pace, non capiva, era accaduto tutto così in fretta che non ebbe nemmeno il tempo di adattarsi a quella nuova storia, stavano sempre insieme loro eppure non si era accorta che uno tsunami  stava cambiando la vita della sua più cara amica, era la più corteggiata Anna, i suoi capelli lunghi e neri incorniciavano un volto dolce e sorridente e i suoi occhi grandi guardavano la vita con curiosità e passione, ricordava bene quando  le raccontò del suo grande amore, erano appena entrate in una vita più complicata, ma straordinaria, da adolescenti si sa, appare tutto moltiplicato per cento e quel giorno lo capì dai suoi occhi bagnati che era innamorata.

Poi arrivò il tempo dell’università e le loro strade si divisero, ma continuavano a frequentarsi, ogni settimana una lettera e ognuna continuava a vivere nella vita dell’altra e quel giorno quando lesse la notizia ne rimase tramortita “ Ho deciso, Maria, mi faccio suora, entro nel convento di clausura Santa Chiara, mi dispiace non avertene parlato, ma io stessa sono stata travolta da una tempesta improvvisa, voglio pregare per l’umanità e pregherò anche per te” e quella mattina una forte spinta la condusse al convento.

-Vorrei parlare con Suor Anna- disse alla monaca che stava dietro la grata della piccola finestra.

-Ma lei lo sa che questo è un convento di clausura? E poi qui non c’è nessuna suora che si chiami Anna!-

-Lo so per certo, è entrata in convento un mese fa.-

-Ah, vorrà dire suor Chiara! Comunque sia non posso chiamare nessuna suora, siamo in clausura signora cara!-

-Bene, allora vorrà dire che aspetterò qui e ci dormirò anche, se necessario!-

Il caso volle che proprio in quel momento arrivasse Suor Chiara per dare il cambio in portineria e quando i loro occhi s’incontrarono i  cuori incominciarono a battere forte in un unico ritmo, non poterono abbracciarsi per l’impedimento della grata, ma le loro mani s’incontrarono in un tenero abbraccio.

Non ci volle molto perché ognuna si aprisse all’altra, si raccontarono le cose più intime e nascoste, si donarono il piacere di incontrarsi ancora, di frequentarsi come quando erano bambine, di visitare ogni angolo dell’anima, non si accorsero del tempo che scorreva troppo velocemente, ma furono grate a quel tempo che aveva permesso il loro incontro.

-Non sarà facile, Maria, ci vorrà del tempo, dovrai ripercorrere la tua vita per riconciliarti con essa, devi ritornare un po’ bambina e lasciarti attraversare dagli eventi con più leggerezza e capirai tante cose che finora ti erano oscure, dai luce alla tua vita e tutto ti sembrerà più bello e ricordati che io sono felice qui.-

Abbracciarono ancora più intensamente le loro mani -Ritorna quando vuoi- disse Suor Chiara col sorriso di quella ragazzina di un tempo lontano.

Gioco con parole di Simone

Macchia – lacerare – frequentarsi

Sul ponte di una nave

PONTE DELLA  NAVE – di Simone Bellini

S’incontrarono a metà ponte,

 sguardi che non avevano un passato s’incatenarono,

 voltandosi si seguirono.

Il cuore si connetté.

La pelle vibrò fino ai capelli,

il cervello si lacerò,

le gambe cedettero.

 Dov’eri, dov’ero,

dove il tempo ci incontrò fermandosi.

Un attimo, non di più, bastò per sconvolgerci,

riprendendo la nostra strada

con lo sguardo sul domani.

Era inutile presentarsi,

tutto era in quello sguardo,

ero io, era lei, eravamo noi,

 non c’era altro da sapere.

Il passato, una macchia che non esisteva più,

Oggi è pieno di speranza,

certi che i nostri sguardi s’incontreranno ancora.

Il futuro è lì su quella nave.

La storia con gioco di parole di Lucia

Macchia – frequentarsi – lacerare

Ambiente : Eremo di Camaldoli

Moto e libertà – di Lucia Bettoni

foto di Lucia Bettoni

Per più di mezzo secolo sono stata una motociclista, una motociclista sul sellino posteriore.

Per cinque chilometri su quello anteriore.

Si, per cinque chilometri ho guidato io la moto, una BMW GS 750, ma questa è un’altra storia…

Con Luca ho percorso in lungo e in largo quasi tutta l’Italia, isole comprese e anche prima di lui già di chilometri in sella ne avevo fatti molti, perché gli uomini della mia vita hanno avuto una cosa in comune: la moto.

Fra tante, quella che ho amato davvero è stata solo una: la Moto Guzzi California. Era splendida, Luca la teneva sempre pulita, una moto senza macchia, senza polvere, nera e argento, accogliente come una mamma chioccia, veloce per le strade asfaltate, un po’ meno per quelle sterrate di campagna.

Ma quante strade sconnesse abbiamo percorso!

Sentieri lacerati dall’acqua su colline e montagne.

Ricordo bene Campo Imperatore. Che avventura indimenticabile!

Campo Imperatore è uno dei luoghi che dell’Italia io amo di più. Arrivammo lì in estate, un paesaggio lunare ci accolse.

I paesaggi brulli sono quelli che toccano particolarmente il mio cuore.

Emozionata guardavo girando la testa in ogni direzione con i capelli al vento.

Poi per una stradina sassosa poco adatta ad una moto di grossa cilindrata, al cui inizio un cartello ammoniva “Percorrete questa strada a vostro rischio e pericolo”, scendemmo verso Santo Stefano di Sessanio.

Lo scenario che apparve ai nostri occhi è rimasto nella memoria per sempre.

Una torre circolare svettava in cima al piccolo paese di pietra, appese ai suoi merli sventolavano strette e lunghe bandiere colorate,

Per un attimo pensai di essere stata catapultata nel medioevo.

Poco più in là Rocca Calascio, set cinematografico de “Il nome della rosa”.

Paesaggi e luoghi indimenticabili di un pezzo d’Italia che poi non saranno risparmiati da un pesante terremoto.

Quello era anche il periodo in cui vivevamo nella nostra casa sulla collina.

Le giornate cominciavano aprendo le finestre e salutando la montagna: Vallombrosa e Saltino erano di fronte a noi.

Quando nel fine settimana le giornate erano soleggiate o senza pioggia, spesso montavamo in sella e via…

Raggiungevamo le nostre montagne in poco tempo e poi scendevamo verso il Casentino per risalire spesso in direzione Camaldoli.

Raggiungere l’Eremo era una delle nostre mete abituali e preferite.

Viaggiare in moto attraverso la natura è un’esperienza che non ha prezzo.

Per me, per noi, la moto non era sinonimo di velocità ma di libertà, libertà di andare verso luoghi poco frequentati, isolati, a volte quasi deserti, dove la natura fosse la protagonista assoluta.

Viaggiando in moto si stabilisce un contatto e un dialogo privo di parole, che si nutre di energia, di emozioni e sensazioni che passano da pelle a pelle. Un linguaggio di mani, di corpi che vivono all’unisono, che si può veramente definire qui ed ora.

Bisogna stabilire un equilibrio perfetto perché tutto sia fluido leggero e possibile.

Il passeggero deve potersi affidare completamente al conducente, e nello stesso modo il conducente deve poter contare sulla “morbidezza” del passeggero.

Rigidità e paura non sono consentite a chi viaggia su due ruote.

La storia con le parole di Gabriella

Parole: macchia, lacerare, frequentarsi

Ambiente: pranzo di compleanno

Pranzo di non compleanno – di Gabriella Crisafulli

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Via della Bombarda: la casa torre aveva le scale in pietra ripide e strette. Per raggiungere l’appartamento c’erano da fare tre piani e arrivarono al pianerottolo con il fiatone. Non erano più ragazzine. Silene, come al solito, era splendida con quel suo fare soave che l’aveva sempre contraddistinta e che la recente, grande sofferenza aveva distillato. Dall’ultima volta che si erano incontrate stava meglio: non era più così profondamente lacerata anche se il dolore era ancora palpabile.

In casa solo qualche cambiamento: in soggiorno si era aggiunto il mobilino antico che veniva dalla casa dei genitori, nello studio l’armadio della nonna. Come sempre i quadri facevano bella mostra di sé e donavano macchie di colore alle sfumature brune prevalenti nell’ambiente. Dalla finestrina che si affacciava sul cortile interno entrava un fascio di sole mentre dall’apertura che era dalla parte della facciata facevano capolino le voci della strada avvolte dalla tiepida aria primaverile.

Il profumo in casa era da acquolina in bocca.

Lei l’aveva detto: voglio fare un pranzo speciale tutto per noi. Non era un pranzo di compleanno anche se tre di loro lo festeggiavano in quei giorni, no, era la festa della loro storia.

Si erano conosciute e frequentate laggiù in quell’edificio affacciato sul Borro delle Argille che si allungava sulle colline da Ovest ad Est. Per andare da un capo all’altro ci sarebbero voluti i pattini a rotelle e spesso chi si trovava ad un estremo non sapeva nulla di ciò che succedeva all’altro.

Per un verso o per un altro, da una parte o dall’altra, loro sei erano state insieme per molti anni. Forse nessuna di loro avrebbe scelto una delle altre per lavorarci insieme, ma la sorte le aveva accomunate e non si erano davvero risparmiate.

All’arrivo a casa di Silene c’era stato il momento dei baci e degli abbracci, poi era toccato al guardare le foto: quelle dei matrimoni, dei momenti felici. C’era anche lo scatto delle nozze di Mafalda con l’acconciatura anni cinquanta e il bel vestito di sartoria cucito dalle sorelle.

A tavola mentre si susseguono le pietanze e scorre il vino è un discorrere continuo. Per anni avevano spartito tanto, avevano spartito quasi tutto tra registri, alunni, libri, collegi, riunioni, aggiornamenti, sindacato, relazioni, invidie, conflitti, carte geografiche, orto, cartelloni per supportare, linee dei numeri per terra, pitture alle pareti, pennelli da lavare, barattoli da ripulire, mele da sbucciare, computer, incastri orari, uscite sul territorio, spettacoli, …

Avevano coinvolto anche le rispettive famiglie.

Era venuto il babbo per aiutare a fare l’orto e Giovanni per dare una mano quando era stata la volta di Cipì.

Nel tempo avevano condiviso amori, separazioni, figli, nipoti, malattie, sindacato, conflitti, competizioni, … e tanta, tanta fatica e tanto, tanto stress per essere il più possibile all’altezza della situazione.

È tutto un parlare:

“Ti ricordi quando nacque Elena?”

“E l’allagamento di Lilliano? Che anno era? Io tenevo le classi in auditorium, tu e il Preside spazzavate acqua dai pavimenti. Io ho perduto l’automobile.”

“Hanno chiuso la sede di Tegolaia: adesso l’Infanzia è a Lilliano.”

“Stanno costruendo un nuovo edificio per la scuola dell’Infanzia davanti alla Biblioteca Comunale.”

“Sai non sono più separati e adesso hanno un altro bambino.”

“Mirco fa il volontario alla Misericordia.”

“Sapete nulla di Francesco?”

“Io incontro spesso la Susanna.”

“Marzia è andata in pensione.”

“Luciana ha da aspettare ancora un anno.”

“Mio nipote è nella classe di Elisa.”

“Io mi sono trovata in biblioteca con Lucia.”

“Non ci sono più quattro classi per ogni grado, ma solo due.”

“A Lilliano nel piazzale, davanti alle aule a pianterreno stanno costruendo un nuovo edificio come spazio mensa.”

“Dove andate in vacanza questa estate?”

“Chiara ha vinto il concorso e da tre giorni è stata assunta a tempo indeterminato.”

“Devo scegliere il vestito per il matrimonio di Ettore. Deve essere un colore pastello. Non sopporto i colori pastello.”

Squilla il telefono di Viviana: sono i nipoti. Chiamano da lontano, da molto lontano. Con la nonna parlano italiano. Lei fa girare il telefono e ci presenta: “Sono le mie amiche, dice.” I bambini ci salutano. Sono belli, biondi: sembrano dei cherubini.

“Tre chitarre?”

“Sì, Valerio suonava e cantava. Gli piaceva molto.”

Passano cinque ore.

Il tempo per loro sei si è fermato.

Sono nello spazio decantato della sincerità.  

Tra un discorso e un altro sono arrivati in tavola dopo gli antipasti i tortelli mugellani, fatti a regola d’arte, conditi con il sugo secondo le indicazioni di Mafalda. E poi il coniglio ripieno, l’insalata con l’aceto balsamico stagionato trent’anni, le patate arrosto, le fragole con panna e, dulcis in fundo, le peschine ripiene di chantilly e crema al cioccolato.

Deliziose.

Peccato solo che l’Alchermes non sia più così rosso come una volta.

Il rosso non va più di moda.

Il gioco con le parole di Anna

MACCHIA  LACERARE FREQUENTARSI

IL MERCATO DI SANT’AMBROGIO

Al mercato – di Anna Meli

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            Oggi è una bellissima giornata, limpida e piena di sole ed io mi sono alzata molto presto per venire a Sant’Ambrogio: un mercato molto ben fornito dove ho la possibilità di scegliere veramente di tutto. C’è una parte interna per gli alimentari in genere ed una esterna dove trovi dai banchi di frutta e verdura a quelli di mercerie, abiti confezionati e chincaglierie varie. Colori, voci, odori, rumori improvvisi che a volte non ti aspetti e ti fanno sussultare. Tutto si fonde in un unica cosa che è vita. Mi sento a mio agio mescolandomi a tutta quella gente che osserva, chiede e spesso spinge per passare.

            Stamani sono qui per acquistare delle pesche cotogne che mi serviranno per fare, come ogni anno, la marmellata per tutta la famiglia e che dovrà bastare fino al prossimo anno. Mi muovo lentamente fra i banchi degli ortolani e allungo il collo per guardare al di sopra delle altre persone se vedo qualcosa di buono adatto alle mie esigenze. Individuo un banco che penso faccia al mio caso, mi appiattisco per passare senza spingere troppo mentre quel mio vestitino estivo leggero come ali di farfalla, si impiglia in un minuscolo chiodo e mi trattiene. L’ortolano con cortesia un po’ becera osserva” La stia attenta se non vole lacerare quel bel vestitino! Macchiare l’ha già macchiato così siamo al completo!”

            Lo fulmino con lo sguardo mentre un’altra signora interviene ”La mi voleva passare avanti, ma la un ce l’ha fatta!” Mi giustifico dicendo che  veramente non era così e con un po’ di vergogna vado oltre. Poco distante avvisto un banco con una distesa di bellissima frutta: susine, pere, uva e anche quelle pesche che cerco io, non hanno proprio un bell’aspetto, ma il profumo è inconfondibile!

            Mentre la signora me le pesa e prepara, mi guardo intorno; si è fatto tardi, il mercato si è animato in modo straordinario, fra la folla una macchia blu sembra venirmi incontro. Strizzo gli occhi per vedere in controluce e riconosco: è la mia amica Lilia. Era da tanto che non ci si vedeva: baci e abbracci, racconti che si accavallano, grande felicità per un’amicizia ritrovata. Non sappiamo spiegare come abbiamo smesso di frequentarci, ma per questo c’è rimedio! Intanto le dico” Aiutami a portare alla macchina le pesche che poi prendiamo accordi per ritrovarsi  e non perdersi più!”

Il gioco con le parole di Daniele

Parole: macchia – lacerare – frequentarsi.

Ambiente: pranzo di compleanno

I soliti in gita – di Daniele Violi

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Sussi e Biribissi si accordarono per le ore 6 del mattino successivo. Dovevano trovarsi ad un appuntamento alle 6 e trenta con i loro amici, il Gatto e la Volpe, alla Croce del Vento in Pinnole. Pensavano di arrivare in ritardo, considerando che il sentiero da prendere, poteva essere stato tralasciato nella cura da Oloferne e Giuditta, manutentori di turno, estratti a dadi, sapendo che spesso gli stessi amoreggiavano, visto che fine tragica avrebbe fatto Lui. Per questo motivo dedicavano poco tempo alla pulizia della macchia, che costeggiava il sentiero.

Il giorno dopo puntuali si ritrovarono; la loro meta, con il Gatto e la Volpe, era un pranzo di compleanno che si sarebbe svolto nei pressi di una conca scavata dal fiume Perdeacqua, nel cortile dell’Eremo Tanti e Forti, dove l’unico frate rimasto, a causa di necessità finanziaria, dava in concessione per cerimonie con due palanche.

Trovarono comunque il modo di arrivare all’appuntamento con il Gatto e la Volpe, cercando di non appiccicarsi con i loro vestiti ai rovi e sopratutto evitare di lacerare i loro zaini di panno di lana, pieni di regali e di mentine, ciringomma e panini con la finocchiona e formaggio di capra.

Sapevano i due, Sussi e Biribissi, che poteva capitare che chiacchierando con il Gatto e la Volpe, potevano perdere il sentiero. Camminando insieme difatti, la conversazione fra tutti e quattro, arrivava a distogliere la concentrazione, e perdere il filo del sentiero; era già capitato altre volte. Talvolta questo stato di cose, frutto del buonumore durante una passeggiata si trasformava poi in una tiritera di accuse reciproche, perché si accorgevano che non ritrovavano piu la strada, minacciando poi di non frequentarsi mai più.

Il gioco con le parole di Carla

Parole: Macchia, lacerare, frequentarsi

Ambiente: Pranzo di compleanno.

La festa – di Carla Faggi

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Pier Ferdinando Luca Emanuele ed un cognome altisonante, un fricchettone di trenta anni pieno di soldi, festeggia il suo compleanno.

Io sono tra gli ospiti.

Tanti regali, alcuni belli, altri no, alcuni originali, altri banali, li avessero regalati a me non avrei saputo che farmene.

Quando arrivò il mio turno mi presentai e dissi:

“Sono una cartomante, ed il mio dono è la lettura della tua mano, ma non per predire il tuo futuro ma per capirti e raccontarti”.

Perplessità nel suo sguardo ma tanta curiosità tra i suoi ospiti che dovette accettare il mio regalo.

Presi la sua mano, la guardai a lungo e iniziai:

“La piccola macchia del palmo superiore mi dice che sei generoso nei sentimenti, che hai un cuore buono e forse molti si approfittano di te.”

“Si! Si!” disse Pier, “ è cosi! Certo che è così!”

“La tua mano è molto interessante, denota un carattere sensibile, un’intelligenza acuta, a volte non sei capito ma sono gli altri che non sempre sono alla tua altezza.”

“Eh! Già…” gongolava soddisfatto Pier Ferdinando.

“Saresti capace di dare tanto amore, il tuo cuore ne è colmo, ma non tutti lo meritano, sappi che chi non ti vuole è perché non ne è capace”.

Gli occhi di Pier Ferdinando Luca lacerarono di colpo quegli della biondina là in fondo che abbassò subito gli occhi a terra in imbarazzo.

Io continuai: “Ognuno avrà la vita che merita, e tu avrai una vita lunga e felice, piena di amore”.

Pier Ferdinando Luca Emanuele mi guardò con gratitudine, entusiasmo e riconoscenza. Decise che quello era stato il più bel regalo ricevuto.

Io, consapevole che il mio pacchetto di scemenze e banalità andavano sempre bene a chiunque, distribuii ai presenti il mio biglietto da visita.

Racconto con giochi di parole di Stefania

Parole: macchia, lacerare, frequentarsi

Ambiente: pranzo di compleanno

Il mio compleanno – di Stefania Bonanni

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Non aveva voglia di grandi cose, ma di essere coccolata non vedeva l’ ora. Per questo li aveva invitati a pranzo a casa sua. Era il suo compleanno ed avrebbe dovuto cucinare, ma li voleva lì. Voleva un’ occasione per stare tutti insieme da soli, che sembra un ossimoro.

I bambini erano in forma smagliante, la figlia arrivo’ in ritardo, come sempre, ma con un sorriso che l’ avrebbe fatta perdonare anche di ore di attesa. Il suo “bambino” l’ avvolse in un abbraccio di barba e baci e lei ancora una volta si sorprese a pensare come questo fosse tutto quello che voleva davvero.

Non c’era bisogno di occasioni per frequentarci, ma la frequentazione faceva diventare avvenimenti le occasioni. Poi, naturalmente, c’era il marito, che era specializzato nell’ intraprendere ogni anno, all’ avvicinarsi del compleanno di lei, discussioni che continuavano e finivano per creare una brutta atmosfera, da spengere sul nascere i festeggiamenti. Davvero non ricordava un compleanno sereno, nel quale si fosse ricordato  o addirittura avesse pensato ad un regalo. Non lo aveva scusato, aveva pero’ preso atto del comportamento, magari era imbarazzo. Comunque non gli avrebbe permesso di rovinare la festa, quest’ anno. Aveva invitato a pranzo figli e nipoti, e lui facesse quello che credeva.

Poi, durante il pranzo, i bambini ridevano, mangiavano e mandavano lampi con quegli occhi di stelle, aspettando il momento di mostrare il loro regalo, e tutti eravamo allegri e molto felici. Proprio felici. Uno di quei momenti perfetti, capace di lacerare veli, ci fossero, riparare strappi, cucire tele e ricamarle anche di fiori colorati. Come quelli che ora ci sono, in giardino. Come quelli che si arrampicano sulla macchia d’edera. Ma cosa è successo a quella macchia? Mi sembra diversa, vedo uno strano diradamento, che non c’ era. Ridono tutti. Guardo meglio. Hanno infilato qualcosa tra l’ edera. Non so cosa aspettarmi. Boom: è la panchina che voglio da sempre, per guardare il tramonto .

La storia di Rossella G.

Macchia…lacerarsi, frequentarsi ed un piccolo accenno ad un mercato….

Ti ricordo stamani – di Rossella Gallori

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Metà anni 60, poco prima dell’alluvione, durante la semimiseria, con in gola la solitudine e la speranza sempre incerta che per noi ci sarebbe stato un futuro bello bello, di vestiti,  di cose, di rose senza spine, di maschi senza macchia né paura, con le spalle larghe e gli occhi dolci.

Ero lì, io, in quel negozio così grande da perderci il capo, da un paio di mesi, timida e sfacciata al tempo stesso, sola, se pur sempre con qualcuno, capelli fino al culo ed una gonna che quasi non c’era…

Avevo già decretato, che non era il posto adatto a me ed era inutile che il conto di casa Gallori, fosse più che in rosso, io li non ci sarei rimasta.

Poi arrivò lei: Anna, carina sorridente, precisa nel parlare, nella pettinatura che vantava una ordinata coda di cavallo con tanto di fiocco di raso nero, la sottana al punto giusto, la camicina bianca….accompagnata dalla mamma!

Così diverse e così simili, senza babbo, con qualche fratello. Ci bastò poco per decidere di frequentarsi, anche fuori! Quindici anni, ci chiamavano le “bambine” le nostre colleghe vecchie di trent’anni nemmeno.

Quello era il tempo delle cantine, delle feste in casa: si va Anna?

Certo Rosy!

Ė le domeniche volavano, mentre lei fumava di nascosto ed io per farmi notare.

Casa mia, finchè ci fu era la sua, la sua, la mia.

Lei: via Ginori, tre piani che facevamo senza fermarsi, un corridoio lungo e stretto …se faceva freddo, si accendeva il forno, se era caldo si stava in mutande sul letto a finestre spalancate. Se c’erano i soldi si comprava la Fiesta grande, più zucchero che cacao, ed anche i ravioli della Campbell, più alluminio  che sugo. Se il contante languiva c’era il piano A: andare da mio zio in via Roma e farsi portar da Bruzzichelli, il piano B prevedeva la fuga da San Lorenzo a Sant’Ambrogio, che a noi sembrava New York forse lo era, lì poi giocavamo fuori casa ma qualche bischero che pagava un panino si trovava, anche uno in due, eravamo affamate di vita, non di cibo…bastava promettere, per non mantenere, far credere…poi!

Andammo avanti 7 forse 8 anni, tra amori, i  miei che non piacevano a lei…ed i suoi: ma come fa?? E glielo dicevo….

Poi, poi lei trovò quello dall’ apparenza perfetta: capello biondo, occhio azzurro, “orologio bono” macchina giusta…scelse i soldi.

Io preferii uno che sarebbe rimasto, che avrebbe aspettato il mio ritorno, rispettato il mio zig zag emotivo, uno che mi insegnasse a camminare dritta, io che tanto diritta non ero nata…..

Si sposò,  non mi invitò, disse pochi intimi e ci crederti, le facemmo un bel regalo, accettandolo disse che si sarebbe licenziata.

Mi sposai io, la invitai, li invitammo, venne vestita” da soldi” non si trattenne, lui l’ aspettava fuori con una macchina “lunga”

Poi, qualche telefonata ed il quasi nulla, la sua prima figlia…e sempre più distante. Vacanze belle, la casa bella.

Riappare una sera in negozio, quei sabati interminabili, con le gambe gonfie che non avevo solo io, lei ingioiellata, le scarpe di Raspini, mi sfiorò la guancia mentre mi diceva: io Rosy questa vita di merda non la potevo fare….

Andai in bagno a vomitare, ci misi anche poco, tornai a salutarla con un sorriso così grande da lacerare gli angoli della bocca.

Seppi di te qualcosa, ma non più da te, anni senza sentirsi, il tuo lui in galera, dissero, case sparite…ricercavi lavoro, non ci volevo credere. Erano voci, non le nostre, quelle di un tempo.

Anna, Anna……

Ieri ha squillato il telefono, un ex collega, anche lui sparito, vive all’ estero, parliamo ci raccontiamo, poi un attimo di silenzio e: Sapevi di Anna, è morta

Ne sei certo?

Si!

Riattacco promettendo di richiamarlo.

Ho provato un dolore immenso, ho salato una ferita che sembrava chiusa, tanto, troppo male.

E sono tornata indietro di 50 anni, sono tornata da lei, in via Ginori, ho fatto le scale senza fatica, poi insieme siamo andate in via Guasti  da me, in quella casa che non c’ è più….abbiamo mangiato la Fiesta grande, siamo andate ad un festa piccola, San Lorenzo era: il Bolshoi, sant’Ambrogio:  la vie Lumière ….

Ciao Anna ti volevo bene, molto bene, troppo bene..

Ma com’ era poi la storia della vita di merda?

Vivo in una casa piccola, con un giardino piccolo, ho accanto un uomo semplice…forse solo oggi ho capito che ci sto quasi bene….

Ma non ti dimentico.

Gioco con le parole di Vittorio

Parole: macchie, lacerare, frequentarsi

Cena di compleanno sul mare

Terrazza sul mare – di Vittorio Zappelli

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Terrazza sul mare d’estate: sera ventosa sotto la tenda

Si aspettano invitati avvezzi da tempo a frequentarsi .

Dopo un po’ la conversazione non langue; anzi si parte con toni serrati ma bassi e si scalda con opinioni contrappunte: è la politica l’oggetto della discussione .

Due signore amiche in particolare si arroccano nelle loro posizioni e  lanciano parole come sassi una verso l’altra.

Sarà il vento che rende elettrica l’aria che si respira in terrazza .

L’amicizia tra loro sembra sul punto di lacerarsi.

Un inciampo e la caraffa del vino passata con mano incerta si rovescia sui vestiti bianchi delle signore; un grido e i vestiti diventano bianchi a macchie  rosse .L’espressione delle madame passa in un attimo dal sostenuto alla meraviglia e poi si scioglie in una bella risata .Tutto finisce con le risa della tavolata .

Anche la luna piena ferma nel cielo pare sorridere. 

La storia di Patrizia

Il ponte di una nave

Macchia, lacerare, frequentarsi

Sul ponte di una nave – di Patrizia Fusi

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E’ la prima volta che faccio un viaggio in nave, mi sento piccola piccola e tutto è grande, seguo il gruppo con timore, un giovane marinaio mi aiuta alle scale mobili a portare i bagagli, arrivo in salone dove il gruppo è  insieme, ci consegnano le chiavi della cabina.

Dalle vetrate si vede il porto, mi piace quello che mi circonda, mi sento timorosa, insicura.

 Mi sposto verso la cabina che mi hanno assegnato, sto molto attenta alle indicazioni nel prendere l’ascensore e  scendere al piano giusto, controllare i numeri delle cabine alla parete all’inizio dei corridoi,  arrivo alla mia con un po’ di difficoltà.

L’ambiente è piccolo e senza oblò, lascio il bagaglio, vado subito fuori ho voglia di vedere questa grande nave, salgo al piano dove c’è il bar mi aggrego al mio gruppo, c’è chi gioca a carte, c’è chi fa conversazione, c’è chi fa uno spuntino, altri gruppi fanno le stesse cose, alcuni passeggeri si distendono sui divani laterali e cercano di dormire.

 Dalle grandi vetrate vedo la scia di schiuma bianca che il movimento della nave produce.

Mi sposto al lato opposto della nave ho voglia di vedere, nel corridoio negozi di vario genere, abbigliamento, specialità gastronomiche regionali, un’edicola di giornali con un po’ di tutto da giocattoli, ninnoli di ogni genere e tanto altro, alla fine del corridoio uno spazio dedicato ai bambini piccoli , con vari giochi gonfiabili, dove tre bambini giocano spensierati saltellando da un gioco all’altro sotto lo sguardo vigile di una figura maschile.

Entro in un’altra grande sala dove ci sono tanti divanetti azzurri damascati e poltrone di colore blu ticchettate di celeste, tavolini tondi di metallo e vetro formano tante piccole isole, in una parete il bar, con dei sedili alti, io non ci riesco a stare, su alcuni il simbolo di non sedersi.

Un  ronzio di sottofondo ci accompagna da quando siamo partiti, leggero chiacchiericcio, un bambino si fa sentire con insistenza, ad un tratto si quieta, la mamma l’ha accontentato.

Il suono di un macinino, i gridolini felici di un piccolo mentre cammina traballante davanti al suo babbo, allietano i miei orecchi.

 Anche in questo salone persone che leggono, mangiano, giocano, guardano la televisione, o dormono.

Le nostre fisionomie sono nascoste dalle mascherine, siamo vestiti in maniera diversa, da chi è in pantaloni corti a chi indossa un piumino leggero, vite sospese su questo mostro galleggiante, mi guardo intorno mi immagino  tante vite diverse, penso come è cambiato il mondo in cinquant’anni, in questo grade salotto penso alla massa di disperati che attraversano lo stesso mare in condizioni molto diverse, lo stesso mare è una tomba liquida,  e una macchia nella coscienza di una parte dell’umanità?

Un sole lattiginoso riflette i propri raggi sull’immensità del mare, di color grigio celeste con in lontananza delle strisce di luce bianco argento, vedo tutto questo da una grande finestra, il cielo è pieno di morbide nuvole grigie che si fondono in lontananza con il mare, nel corridoio passano persone, ognuna con i propri rumori, voci o pesticcio di passi.

Tutto è calmo, il mare è una grande tavola leggermente increspata, non si vede nessun pesce scappano all’arrivo di questo mostro, anche lui può diventare fragile e con lui tutti noi.

Un carrettino con dentro una bambina mi passa accanto lei sillaba baba baba, vita che inizia.

Sono salita sul ponte alto della nave, un altro mondo, lettini pieni di varia umanità, signori attempati anche qui chi gioca chi fa altre cose.

Odore di toast che proviene dal bar situato sotto la poppa, al soffitto tanti faretti, persone sedute ai tavolini.

Una piccola piscina vuota, dove le persone si siedono ai bordi, dove anche io sono seduta, un leggero vento mi arruffa i capelli, il sole lattiginoso mi scalda la schiena.

Dei giovani si sono distesi per terra, si vedono piedi sporchi, ci sono diversi cani a passeggiare con i padroni, alcuni si rifugiano fra le loro gambe, ne sta passando uno con un musino appuntito ha un portamento eretto e un forse è un cucciolo, si gira a guardare la propria padrona come a chiedere se andava nella direzione giusta.

Brusio generale, rullio dei motori, dolci vicine di bambini, qualche capriccio.

La grande ciminiera a forma di piramide a spirale disperde nell’aria un ciuffo continuo di vapore bianco.

C’è un giovane che si fa la doccia.

Un angioletto biondo si diverte a saltare delle corde tenendo la mano della madre.

Tutto in torno a me è immenso, il cielo si fonde col mare, i raggi del sole accarezzano la superfice del mare e lo illumina, sembra una lastra di cristallo smerigliato.

Movimento continuo di persone, passaggio continuo di carrettini.

Una famiglia con due bambine, la più piccola in braccio alla madre, capelli corti maglina rossa gonna a fiori, l’altra di circa cinque anni capelli lunghi biondi maglietta rossa con fusò, ciascuna ha una bottiglietta d’acqua da cui bevono.

Un giovane con una grande barba scura sta fumando, in una mano ha una tabacchiera in ottone lucido che risplende al sole  dove depone la cenere è insieme a una bella ragazza.

Seduti per terra su un tappeto cinque giovani  stanno mangiando, il ragazzo con barba ha i capelli lunghi raccolti in un codino,  due ragazze hanno capelli lunghi di colore chiaro sciolti che si arruffano con l’aria l’altra li ha raccolti in una lunga treccia….bella la gioventù.

Il mare visto dall’alto è di colore blu scuro solo la striscia dell’acqua smossa dalla nave è di colore turchese.

Un piccolo canino bianco è in braccio e si fa coccolare dalla sua padrona, un altro, uno spinone marrone, si è disteso per terra, il vento gli arruffa il pelo, ha lo sguardo assente come si fosse rassegnato a questo strano frequentarsi.

Una ragazza, come lo spinone, è distesa per terra, sta dormendo ha intorno a sé attrezzature da campeggio, lo zaino ha una lacerazione dal latro sinistro dove si intravede il contenuto.

Noi persone nelle nostre diversità siamo un mondo da scoprire.

 Dopo aver familiarizzato con la grande nave mi sono sentita un po’ meno piccola.

La storia di Sandra

Mercato di Sant’Ambrogio

Macchia – lacerare – frequentarsi

Il mio mercato – di Sandra Conticini

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Ho lavorato per tanti anni vicino al mercato di Sant’Ambrogio e tutte le mattine, prima di entrare lo frequentavo per fare un giretto, vedere i banchi ed il venerdì facevo la spesa.

Passavo sempre di corsa tra le file, sembravo uno tsunami, il tempo era contato, mi conoscevano tutti, il pesciaiolo, il civaiolo, il trippaio, anche se non compravo niente, mi salutavano con il sorriso sulle labbra e io ricambiavo.

Era l’occasione per passare dal mio amico macellaio a fare due battute ricordando  la nostra gioventù.  Per un periodo eravamo un bel gruppo, siamo andati a sciare, al mare, a fare girate domenicali ed abbiamo trascorso dei bei momenti. Poi ci siamo persi di vista e ritrovarlo al mercato è stata una bella sorpresa.

Conoscevo il formaggiaio, dove andavo soprattutto in estate per prendere quelle favolose mozzarelle fresche che venivano dalla  Campania.

Con i forni mi sbizzarrivo, erano diversi, da uno compravo la schiacciata croccante, da un altro il pane all’olio, da un altro il filone cotto a legna, secondo la voglia che avevo in quel momento. 

Dopo uscivo e andavo dagli ortolani e dai fruttivendoli. Iniziavo a prendere mele, arance, fragole, pesche, susine, secondo la stagione ma i kiwi non mancavano mai. Era il banco che mi piaceva di più, perchè in tutte le stagioni aveva tanti colori che messi insieme davano una macchia di colore unica e tutto quel ben di Dio in estate con quel caldo torrido mi faceva venire l’acquolina in bocca..

Ho assistito anche a diverse litigate fra venditori per motivi più svariati dalla politica, allo sport, alla luce che non funzionava, la merce più o meno buona e  era sempre un bello spettacolo. Mi sembrava di tornare indietro nel tempo quando tutto era più semplice. Il giorno dopo i litiganti erano insieme a ridere scherzare e prendere un caffè.

Mi avviavo per andare a lavorare e, se ero in macchina tutto bene, ma se ero in bicicletta era dura! Quando arrivavo ero già stanca e sudata, ma in perfetto orario. I colleghi si meravigliavano che avessi già fatto la spesa e io  rispondevo che dovevo passare dal mercato perchè  aiutavo a montare il banco e guai se non ci andavo.

Ricordo quella volta che ero in bicicletta con tutta la spesa e, mentre pedalavo, mi si impigliò la gonna preferita ai raggi della ruota lacerandola, provai un gran dispiacere perchè  stare tutto il giorno con lo strappo non mi faceva sentire a mio agio.

Ancora oggi quando devo fare una spesa “di fiducia” vado al mercato di Sant’Ambrogio, ma dei miei fornitori  ufficiali ne sono rimasti pochi. Il mercato sta cambiando, da anni è  in ristrutturazione,  prima dentro ora fuori, il parcheggio non è facile trovarlo. Anche li si vedono stranieri con le guide che fanno visite guidate e, per noi fiorentini, sta perdendo il suo fascino, ma io finchè posso, continuerò ad andarci, perchè lo sento un po’ mio.

La nuova storia di Rossella B.

MACCHIA LACERARE FREQUENTARSI

– Un Convento di Suore di clausura –

Clausura ciao ciao – di Rossella Bonechi

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A Varlungo c’era un Convento di Monache di clausura, trasformato ora in residenza universitaria, a cui gli abitanti del quartiere attribuiscono il Miracolo della Piena del ’66 visto che l’acqua d’Arno si fermò pochi metri prima della costruzione.

Io le conobbi nel 1982 quando d’estate, a scuola finita, ero di corvée nella rosticceria del babbo.  A chiusura, verso le 3, se qualcosa di preparato rimaneva intero nelle teglie, veniva portato alle suore e mi domandavo spesso come poteva avvenire visto che loro e il mondo fuori non potevano frequentarsi. Per non farmi lacerare da questo interrogativo, una volta mi offrii io di fare il servizio. 

Già si cominciava che invece del campanello si tirava una maniglia di ferro che all’interno faceva risuonare una campanella; poi la porta si apriva da sola comandata, penso, da un tira-corda. Con le mie due borse una in una mano e una nell’altra mi avviai in un androne poco illuminato pavimentato a scacchi bianchi e neri e come mi era stato indicato salii la prima rampa di scale in pietra serena (grigie…..). Mi ritrovai in una specie di disimpegno  davanti a un muro che aveva un’apertura incorniciata da un bel motivo in pietra in stile rinascimentale  con una grata bella spessa in ferro battuto. Ferma, lì in mezzo, sempre con le mie borse saldamente in mano, non sapevo proprio che fare ma una vocina tutta miele e zucchero si palesò: “Oh cara, vieni, vieni avanti. Ti manda Giuliano? Sei la sua figliola? Gli assomigli tanto !”. Avevo il terrore che mi chiedesse di entrare, io non volevo proprio spingermi oltre! Ma fortunatamente vidi che avrei potuto appoggiare la roba sulla balaustra di pietra del muro e svelta svelta la misi lì e rivolgendomi alla macchia scura indistinta dietro la grata masticai un “Arrivederci Madre!” e scesi di corsa le scale.

Era un modo di dire il mio “arrivederci” perché  non accadde mai più! 

Incontro del 3 aprile 2025 – Tracce per racconti con luoghi e parole

foto di Lucia Bettoni e Cecilia Trinci

Parole da usare:

Macchia – Lacerare – Frequentarsi

Ambienti tra cui scegliere:

Eremo di Camaldoli

Mercato di Sant’Ambrogio

Pranzo di compleanno

Cena estiva sotto le stelle

Rifugio sul Monte Bianco

Sul Ponte di una nave

Convento di suore di clausura

Ancora un esperimento riuscito: Il nuovo Racconto di Daniele

Stanca – coltello – complicato

Ritorno senza coltello – di Daniele Violi

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Ritornare al tramonto, dopo un sopralluogo e nel contempo un lavoro di riconoscimento di piante erbacee su un terreno vasto. Un prato che si estendeva a perdita d’occhio, in montagna, un grande pianoro sulla Maielletta, sorella minore della Maiella, la montagna più conosciuta. Si era fatto tardi e da subito avevo percepito a chi affidarsi, se più alle gambe o al cervello. Avevo capito che sarebbe stato più semplice e meno complicato, anziché ritornare indietro per il tragitto che avevamo percorso fin dall’inizio,  riuscire a tagliare, come una ipotenusa, un percorso figurato, ed evitare così di percorrere i due cateti: sarebbe stato senza dubbio, più logico e conveniente. La matematica o l’algebra sono state per me sempre un riferimento migliore della geografia.

Quindi propongo alla mia collega esperta in  riconoscimento di piante erbacee più di me, di seguire questa formula matematica, per risparmiare tempo ed energia. Si dibatte, vedo e sento che l’osso è duro. Io ad un certo punto dico….bene. Ognuno vada per la sua strada, ci ritroviamo al punto di sosta dell’auto lasciata al mattino, che ci aspettava. Era stato duro il lavoro, tutto il giorno a riconoscere e determinare centinaia di piante, che avevano colonizzato il terreno da studiare. Una contabilità area per area di terreno interessato da questa indagine e ricerca botanica. Lei mi risponde che era stanca e voleva arrivare presto alla meta. Le dico che non vi è ragione più consona, che prendere per questo un itinerario più corto a mo’ di ipotenusa, attraversando un bosco. Poi aggiunge, ……”ma nel bosco  possiamo incontrare qualche animale, qualche fiera, che ci può assalire e quindi sarei propensa a passare, ritornando per il tragitto di andata; non ho neanche un coltello per difendermi”. Le rispondo subito con leggerezza, che potevo essere io il suo coltello. Queste parole cariche di ironia contribuirono a far scattare in Lei ancora incertezza.

Io sono partito…..Lei mi ha raggiunto dopo tanti tentennamenti. Dopo il tramonto, al crepuscolo avevamo raggiunto il punto d’arrivo. Un grande silenzio si sentì dentro, all’interno dell’auto protettrice. Un silenzio che parlava e rideva e voleva schiamazzare.

Il Gioco delle parole di Patrizia

Stanca – Complicato-Coltello

Siamo in pericolo – di Patrizia Fusi

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Nella giornata deve fermarmi alcune volte il mio fisico richiede riposo, mi sento stanca anche mentalmente, per la situazione politica che c’è nel mondo attualmente, sta sparendo lo stato di diritto, i potenti di turno vogliono  decidere a loro favore con le leggi.

Siamo ad una nuova spartizione del mondo a favore di un pensiero di destra, nel potere non c’è più etica, solo egoismo per interessi propri e tanta gente è incantata da questo pensiero e li segue, non esiste più umanità.

Sento il pericolo nella tecnologia spaziale in mano di un privato cittadino, mi rendo conto di come l’ Europa sia  dietro a questo.

Mi pesa la sofferenza che le guerre producono sulle persone in tutto il mondo, quelle vicine quelle lontane e quelle dimenticate, mi pesa che ci siano interessi in tutto questo, tutti noi siamo pedine in mano a persone senza scrupoli, ( non voglio diventare tifosa vorrei continuare a ragionare).

Da questa realtà mi devo staccare mentalmente perché è come sentissi un coltello che gira dentro di me.

In questo mio fermarmi mi è tornato alla mente di come era il vivere sessanta anni fa di come tutto è cambiato delle volte in meglio ma alcune volte anche in  modo più complicato.

Lavoravo a Firenze in via della Mattonaia in una succursale di una grande lavanderia, il mio orario di lavoro era dalle otto e trenta (con due ore di pausa pranzo)   alle diciannove e trenta, andavo a prendere l’autobus sul lungarno, nel percorso vetrine da vedere, incertezze  e imbarazzo per gli apprezzamenti fatti da altri giovani.

Arrivavo al paese circa alle venti e trenta, per arrivare a casa mi ci volevano altri trenta minuti, era una strada quasi tutta al buio nel percorso c’erano solo due lampioni per arrivare al primo gruppo di case, macchine ne passavano rarissimamente o quasi mai, io avevo un po’ di paura di tutto quel buio, per vincerla mi ero inventata un gioco.

Ricordandomi un film o uno sceneggiato che avevo visti che mi era piaciuto, sceglievo un personaggio e rivivevo il racconto essendo io la protagonista, vivendo avventure, amori, vittorie, facendo rivivere tutta la storia a mio piacimento, cosi mi trovavo a casa vincendo la paura.

Ricordo paesaggi illuminati dalla luna piena, i piccoli frusci della campagna e i profumi che la frescura della tarda serata che il terreno della campagna sprigionano sempre in modo diverso  secondo le stagioni.

Oggi è tutta un’altra realtà i lampioni ci sono per tutto il percorso, le macchine circolano nelle stessa strada, ora si acquista tempo ,purtroppo perdendo altro. Chi guida chiuso dentro la macchina non vede niente di quello che lo circonda.