Monte Farella – di Gabriella Crisafulli

Nella casa sulla collina le porte erano state fatte dal maestro Monopoli, ebanista. Porte di massello, solide e leggere. Quando il vento soffiava su Monte Farella vibravano sui cardini.
Raccontavano storie.
Il passaggio dei partigiani che, posate sul tavolo le bombe a mano e le pistole, pranzavano con la famiglia.
La caduta dell’aereo nel terreno vicino all’aia: era stato uno scampato pericolo ma anche l’arrivo di molta materia prima per quei giorni magri. Tanta tanta stoffa da ricavare dai paracadute, munizioni, meccanismi, ferraglia, rottami, polvere da sparo.
I tre ragazzi chiusi nel trulletto per le bestie a fare fuochi d’artificio con i materiali ignifughi di risulta.
L’elettricità che crepitava sui fili scoperti all’interno dell’abitazione durante i temporali: Illuminava il buio con lampi e fulmini domestici. Bisognava stare seduti con i piedi sollevati da terra a guardare gli schiocchi sulle pareti in attesa che terminasse la burrasca.
Il rumore del motore che tirava su l’acqua dal pozzo per l’uso quotidiano.
L’operazione di difterite sul tavolo di marmo della cucina.
Le porte vibravano sui cardini anche nelle prime ore del mattino quando ci si crogiolava nel letto e i corpi si stringevano nell’abbraccio del buongiorno. Le nocche colpivano le ante che si scuotevano mentre la voce roca riportava all’ordine: “Giovanni, è l’ora di fare la spesa!”
Era stanca di ritornare nella casa sulla collina.
Era un capitolo chiuso e non aveva più voglia di ripensarci.
Era stato un paradiso, ora perduto.
L’aria lassù suonava.
Il silenzio della campagna era perfetto esaltato dalle voci degli animali: in quel silenzio l’aria suonava come negli abissi dell’universo profondo.
Era stato lo scricchiolio del vento nelle porte a ricondurla di nuovo da dove era fuggita.
Era stata di malumore per una settimana, complice un forte raffreddore.
Tutto il suo fisico faceva resistenza a riaprire quel capitolo: troppa pena.
Un coltello piantato nel cuore.
…
Da Monte Farella lo sguardo spaziava a 360 gradi.
Al di là della strada il terreno di Sosaverio dapprima spianava a perdita d’occhio e poi cominciava ad inerpicarsi sulle curve appena accennate delle Murge: punto di riferimento in quello spazio una enorme quercia che, anno dopo anno, allargava il suo areale.
A Ovest si affollavano fitte le roverelle che facevano il bosco in mezzo al quale, nelle prime ore del mattino, il padre con i due figli si addentravano a caccia di tordi. Portavano con loro lo “zipito” che ne simulava il verso e da cui gli uccelli venivano ingannati.
Per arrivare dalla casa alla strada c’era il terreno che scendeva a balzi, frenato dai muretti a secco, dove venivano coltivati olivi e mandorli ma c’era pure qualche albero di pere di cioccolato.
Nel cortile davanti al portone d’ingresso troneggiava un grande il ciliegio che faceva le “ferrovia”.
Dal ramo più grosso pendeva l’altalena.
Ai piedi della salita che portava all’abitazione, la masseria di Cendia dove si portavano le galline a partorire.
Dopo tanti anni era complicato integrare un passato tanto amato, un passato tanto sofferto, con un presente da costruire.
Era un’operazione di integrazione funzionale che l’aspettava.











