Uccelli e uccellini – di Lucia Bettoni
foto di Lucia Bettoni
In questo tempo complicato, rumoroso e tagliente avevo dimenticato di guardare gli uccelli.
Qualche giorno fa ho visto un uccellino bussare alla mia finestra.
Era come se mi chiedesse: “Apri, vorrei entrare!”.
E’ stato un flash, un colpo secco ed improvviso che mi ha riportata in un tempo remoto.
Il tempo quando ancora c’era la neve, quando gli inverni erano inverni ed il freddo era potente e presente.
Il tempo dei pettirossi, dei merli, dei tordi, delle capinere e dei fringuelli.
Abitavano lo spazio intorno a me ed io potevo vederli e sentirli come parte di quel tutto che era il meraviglioso mondo naturale nel quale sono nata e cresciuta.
C’era un piccolo capanno dietro la mia casa, una piccola casetta fatta di assi di legno e di scope.
L’aveva costruita il nonno ed era diventata la casa dei miei giochi.
Aveva una piccola finestra dalla quale potevo vedere una maestosa pianta di alloro.
Quando nevicava, perché allora nevicava sempre, gli uccellini andavano a beccare le bacche nere dell’alloro.
Passavo ore a guardarli, felici di poter mangiare qualcosa in quello che era diventato un deserto bianco e freddo.
Il silenzio era assoluto, il mondo era immobile.
Erano i giorni della quiete, non c’era spazio per la stanchezza, tutto era calmo, bianco, pulito, ovattato e morbido.
Quest’universo immacolato era interrotto solo dalle tracce di piccole zampette, piccoli segni sulla neve che seguivo con gli occhi immaginando direzioni e percorsi.
Erano le tracce degli uccelli, unici tagli sul manto bianco.
Non erano tagli di coltelli affilati, erano segni leggeri di presenze amiche.
Guardavo i pettirossi con il loro petti gonfiotti, li amavo tanto, nessun altro uccellino aveva le piume rosse.
E poi gli scriccioli, che meraviglia gli scriccioli! Piccoli piccoli e veloci come il vento. E i merli! Amavo il nero lucido delle piume dei maschi e il loro becco giallo.
Dove siete finiti.
Dove siete andati amici miei.
Ho nostalgia di voi.
Una nostalgia vera.
Un pezzo di cuore in volo.
E poi c’era il tempo dei fagiani, dei conigli selvatici e delle lepri.
Presenze vive, parte di un tutto armonico che era semplicemente vita.
Al calare della sera nei campi ai margini del bosco si rinnovava un rito di straordinaria bellezza.
Mi piacerebbe riuscire a trasmettere anche un solo minuzzolo di quello che ancora indelebilmente è impresso nei miei occhi.
Prima dell’imbrunire e soprattutto dopo la pioggia i campi si riempivano di fagiani. Era bello quel verde smeraldo che avvolgeva i loro colli facendo risaltare il rosso intorno agli occhi, e le loro code dalle lunghe penne, preziosi cimeli quando ne trovavo qualcuna per terra.
Le femmine invece erano quasi invisibili mimetizzate tra le zolle, praticamente dello stesso colore della terra.
Erano decine e decine, si spostavano tra l’erba con i movimenti lenti di una danza che non aveva bisogno di musica.
Pura magia per me che mi nutrivo di queste meraviglie.
A passi lenti e silenziosi scendevo per il viottolo sapendo che si sarebbe rinnovato l’incanto con il quale concludere il giorno, respirando il profumo di un sogno che vivevo in solitudine e che mi avrebbe dato al forza per attraversare la notte.
In fondo al viottolo passavo per un campo di meli e mangiavo sempre una mela quando la stagione lo permetteva.
Poi cercavo di diventare sempre più piccola, giocavo a nascondino con l’erba strisciando a terra come una volpe.
Cercavo un posto in prima fila per godermi lo spettacolo.
Era il mio teatro ed ogni giorno, se lo desideravo, si replicava per me.
Era acqua per dissetare il mio bisogno di sognare.
Arrivavo in un campo grande, senza alberi e un po’ in discesa.
Un vero anfiteatro che mi permetteva di osservarne tutte le creature, tranquille comparse in un immenso palcoscenico, ed io unica spettatrice.
Quando la luce diventava più radente la scena si arricchiva di altri personaggi: le lepri.
Più rare e sospettose dei fagiani ma spesso anche loro molto numerose.
Tutti insieme a cibarsi da un unico grande piatto, il piatto della terra.
Ricordo bene anche le rondini e i passerotti sopra e sotto il tetto.
La mia casa era stata costruita su un terreno scosceso, in cima alla collina.
Anteriormente le mura erano alte, ma dietro dove c’era il fienile bastava prendere una scala ed il gioco era fatto, anzi il gioco poteva cominciare.
Salivo sul tetto raggiungendo anche il punto più alto.
Una sensazione di struggente libertà mi invadeva mentre volgevo lo sguardo a quello spazio infinito che roteava intorno a me in ogni direzione.
Quando era il tempo delle cove, cominciavo a cercare sollevando i coppi di terracotta facendo attenzione a riposizionarli correttamente.
Cercavo i nidi dei passerotti per vedere le loro uova o i piccoli appena nati.
Il tetto ne era pieno, una grande nursery sopra la mia casa.
Le rondini invece costruivano i loro nidi sotto la falda del tetto attaccandoli ai travicelli di legno. Nidi singoli o piccoli condomini di due o tre nidi insieme, preferendo il lato del tetto sopra l’ingresso di casa. Chissà perché le rondini sceglievano quel lato, qualcosa le doveva rendere più sicure ma non ho mai capito cosa fosse.
Sicuramente sceglievano numerose il tetto della mia casa perché vicino c’era un lago e potevano bagnare i loro petti mischiando l’acqua con la terra per le loro costruzioni tondeggianti.
Passavo il tempo seduta sul muretto vicino alla legnaia ad osservare tutto quel movimento vitale appeso proprio sopra le finestre.
I piccoli si affacciavano dal buchino del nido reclamando cibo con il becco spalancato. Le madri andavano e venivano in un ininterrotto andirivieni per soddisfare le richieste urgenti dei loro piccoli.
Per terra lungo il bordo della casa i loro escrementi bianchi e neri.
Mi ha sempre fatto sorridere che gli escrementi avessero i loro stessi colori.
Avevo un mondo da osservare.
Un modo di cielo e di terra.
Eravamo bambini, uomini, uccelli.
Tutti uguali sopra e sotto il tetto.