Eleganza, per me, è cercare di essere gradevoli per noi (e quindi esserne soddisfatti) e per gli altri (quindi essere graditi).
E questa è l’eleganza della forma, del contenitore, della maniera.
C’è poi, credo, l’elegantitudine cioè l’attitudine a cercare sempre di porgere noi stessi nel miglior modo che possiamo, lo sforzo di pensarci insieme, coltivando quello che siamo ma senza imporci.
Un quadro bianco Completamente bianco Gocce dorate delimitano lo spazio Gocce dorate aprono lo spazio Anima pura Alito di seta bianca copre la tela come un respiro Uccello del Paradiso trasparente e lucente Trasporta sulle sue ali tutte le mie inquietudini restituendo alla mia bocca sorrisi senza fine Sorrisi di vita amara bevuti a sorsi da un bicchiere di cristallo Acqua rosa dal soave profumo Mi inebrio di te Volteggio sulla strada in discesa Uno strascico di luce e scarpe con il tacco Sono le scarpe di Cenerentola o semplicemente le mie scarpe della festa che balla e che suona nelle mie viscere Un sorriso lungo dall’alba al tramonto
Foto di Lucia Bettoni, Rossella Gallori, Cecilia Trinci
Eleganza nello scrivere e nel vivere, gentilezza, accoglienza, rispetto, parole di velluto, sentirsi a pari livello dell’ interlocutore. Garbo, muoversi con sicurezza dolce nel mondo, capacità di indossare, di porgersi, la bellezza di un sorriso, di un gesto…..
Possiamo trovare ispirazione per il prossimo racconto?
da Manuel Vilas “In tutto c’è stata bellezza” pag. 19
Una vibrazione profonda, continua, aspra e disturbante ha invaso il mio spazio vitale, occupando mente e corpo senza soluzione di continuità.
So perfettamente quale ne è la causa e altrettanto perfettamente so che ho armi debolissime per difendermene.
Un suono che evoca sensazioni simili già sperimentate in tempi in cui la notte iniziava “dopo carosello”.
A volte accadeva che, appena posata la testa sul cuscino, un’onda ruvida e dal rombo sottile paresse salire dal mio ventre, rotolandomi dentro fino ad infrangersi dietro gli occhi serrati dal violento malessere.
E subito dopo un’altra e un’altra ancora….
L’unica difesa possibile era farsi gomitolo, appallottolarmi stretto stretto finché le onde non si placavano o il sonno acquietava i sensi.
Non ho mai saputo perché ciò accadesse o quale ne fosse la causa.
Ecco, oggi le sensazioni sono quasi le stesse, salvo che il raziocinio adulto sa porre in ordine cause ed effetti, senza peraltro avere a disposizione risposte più efficaci.
E così la mia notte “abbraccio vitale” sembra trasformata in una sorta di acufene molesto che combatto con altro suono per neutralizzarne le risonanze.
Buio e silenzio…
Frequentati da sempre con leggerezza e senza paura…
Oddio… da sempre forse è un po’ esagerato…
Notte di Santa Lucia.
Tradizione popolare della mia terra d’origine voleva che ogni notte del 12 dicembre i bambini aspettassero l’arrivo di Santa Lucia che portava loro regali a bordo di un asinello volante, tenendo in una mano gli occhi cavatigli nel supplizio subito. Andava anche sempre lasciato un piatto sul tavolo con del cibo con cui sia lei che l’asinello potessero ristorarsi.
In questa sera i bambini dovevano andare a letto presto per evitare di imbattersi nella Santa che, si diceva, accecava con la cenere quelli che trovava ancora svegli. La mattina dopo, in cambio, Lucia faceva trovare un piatto colmo di dolci e tanti regali.
Per rendere il mito ancor più verosimile i miei pensarono bene di far ciondolare alla finestra della mia cameretta nel cuore della notte una corda con una nappa in fondo che sembrasse la coda dell’asinello volante di passaggio…
Puro terrore, panico urlante di un bimbo che non voleva essere accecato e soprattutto non voleva vedere nessuno con gli occhi in mano…
Non ricordo dolcetti o regali che probabilmente ci saranno stati per consolarmi, ma sono quasi certo che quella sia stata la mia ultima notte di Santa Lucia.
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Tutti vogliamo la pace!
Alla fine delle Elementari, nell’ora della ricreazione, giocando con la mia compagna di banco ci ritrovammo a litigare per qualcosa di cui non ricordo ma che sarà stato per noi sicuramente molto importante. Io cattiva le dissi, sapendo che i suoi genitori votavano democrazia cristiana, che i comunisti come i miei genitori volevano la pace, invece i democristiani come i suoi volevano la guerra. La bimba piangendo lo disse alla maestra, la quale mi spiegò che non era vero,che nessuno voleva la guerra, ma tutti la pace.
Fu così che cominciarono i miei primi dubbi esistenziali.
Perché se tutti vogliono la pace il mondo è pieno di guerre?
Se tutti sono buoni e misericordiosi perchè c’è al mondo tanta povertà e miseria?
Se tutti sono giusti perché c’è tanta ingiustizia?
Mi venne d’aiuto nell’adolescenza, per districarmi meglio nelle mie mille domande il mio incontro con Luigi Pirandello.
Ho letto Pirandello!
“Ho letto Pirandello “! Cominciò cosi una mia lettera d’amore spedita ad un ragazzo che avevo conosciuto al mare.
Abitava a Pescia, paese che immaginavo lontanissimo dal mio alla periferia di Firenze. La percezione che avevamo dello spazio e dei luoghi era molto diversa da quella che hanno gli adolescenti di oggi. Mi parlava del suo pessimismo pirandelliano, della sua sofferenza identitaria, si sentiva uno, nessuno e centomila.
Io a bocca aperto lo ascoltavo entusiasta. Che ragazzo interessante…!…e Pirandello?
Lo lessi appena tornata dalle vacanze. Mi aveva conquistata prima di leggerlo e mi conquistò ancora di più dopo. Le sue plurime verità,le molteplici prospettive, l’essere non uno ma tanti individui diversi a seconda di chi ti guarda e le tante maschere che indossiamo a seconda delle situazioni.
Per una come me che respirava l’aria sessantottina con tutte le certezze e l’intransigenza delle verità, fu una scoperta.
Cercavo di guardare le situazioni da più prospettive e vi cercavo più verità.
Naturalmente con l’assolutismo dei principi dell’epoca.
Sempre in quel periodo ho vissuto i miei fatti eroici.
Pigrizia rivoluzionaria
Inverno 1968. Istituto d’Arte. Occupazione della scuola.
Comizi, discussioni,cartelli, manifestazioni.
All’istituto d’Arte di Sesto Fiorentino vivevamo intensamente l’atmosfera rivoluzionaria del 1968.
Eravamo una piccola scuola, ci conoscevamo tutti e ci contavamo sulle dita di poche mani.
Prendemmo la decisione che anche noi come quasi tutte le scuole avremmo occupato l’Istituto.
Telefono tutta eccitata a mia madre per dirle che non sarei rientrata perché occupavamo la scuola.
Mi aspettavo di risposta mille domande, mille perché, invece mi rispose solo “ si va bene, vuol dire che non butto la pasta!”. Fui orgogliosa di mia madre, aveva capito tutto, forse più di quanto avessi capito io. In tarda serata arrivò il preside, una brava persona, bonacciona, ci conosceva tutti uno per uno. Guardò noi, i nostri sacchi a pelo e ci disse “ragazzi, facciamo così, diciamo che avete occupato la scuola però andate a dormire a casa poi domattina tornate e sarà come se foste stati qui.
Non ce lo facemmo dire due volte, così occupammo la scuola comodamente da casa nostra.
Che dire, ripensandoci?
Che mia madre era sicuramente più rivoluzionaria di me oppure aveva già capito come andava a finire.
Una cosa è certa, i miei compagni ed io ci stavamo già preparando a diventare italiani adulti: opportunisti, millantatori, rivoluzionari all’acqua di rose.
Noi non abbiamo mai fatto la rivoluzione francese e nemmeno quella russa. Siamo colti, artisti, abbiamo fatto il rinascimento, ma di rivoluzioni nemmeno l’ombra! Pigrizia rivoluzionaria!
Eppure volevo salvare il mondo:
Volevo salvare il mondo
Metà degli anni sessanta, frequentavo ancora la scuola media inferiore.
Una sera d’estate sentendo “sbraitare” e “piangere” scesi in strada.
Un ubriacone dava in escandescenza.
“E’ uno che lavora alla Cementizia, uno del nord, la sera si ubriacano sempre!” dicevano gli adulti.
Un mio compagno di scuola ed io ci siamo avvicinati e tentavamo di parlargli, volevamo capire, aiutarlo. “Ci saranno delle cause che lo hanno portato a questo” ci chiedevamo. “va capito, aiutato, bisogna parlarci” concludevamo.
Ma lui non ci rispondeva, voleva solo bere ancora.
Andò a finire che il mio amico ed io eravamo impotenti e nulla potemmo fare.
Forse avevano ragione gli adulti, non c’era nulla da capire.
Ripensandoci oggi, quell’episodio che ricordo ancora con una lucidità impressionante è stato il primo di una serie di consapevolezze future di come sia difficile tentare di cambiare il mondo.
Difficile come tentare di cambiare idea.
Forse non sempre eravamo nel giusto
Sorrido quando penso ad un quesito che nei primi anni settanta ponemmo io e gli altri ad un compagno di scuola molto borghese e tradizionale.
“Se la tua ragazza ti tradisse” gli chiedemmo”cosa faresti?”
“Mi incazzerei e la mollerei!” disse.
“Eh no!”rispondemmo noi da saggi!” Dovresti invece chiederti dove hai sbagliato con lei per portarla al tradimento e chiederle scusa!”
Eravamo convinti fino in fondo di essere nel giusto e che il nostro amico fosse semplicemente un troglodita.
Poi capita che da grande scopri che non avevi sempre ragione e che non eri sempre nel giusto!
Principi di verità quando dici agli altri cosa fare, ma poi questi spesso ci sfuggono nella nostra quotidianità.
Come quando teorizzavo la coppia aperta e che il sesso doveva essere universale, ma quando il mio compagno di allora mise in pratica la teoria con la mia amica, mi incazzai di brutto e cominciai a perdermi in tutti quei principi alla moda.
Allora li prendi ad uno ad uno e cerchi di rimetterli a fuoco come a volerli capire meglio.
Il sospetto di averli acquisiti quasi per inerzia e con superficialità fa capolino.
Volerli capire di più ci porta quasi a non capirli, a rivederli, modificarli.
Quelli nuovi ci lasciano storditi, spaesati.
Qualcuno di noi rimane legato ai vecchi stereotipi: il sempre sessantottino ormai un po’ ridicolo e sicuramente fuori luogo.
Altri vanno totalmente oltre e diventano revisionisti e reazionari.
Tutto sempre con una rigidità e intolleranza eccessive, perché nessuno riesce così bene a essere intransigente come un ex sessantottino nella fase della decadenza.
Concludo rivolgendomi a quello che un tempo fu il mio partito:
Il mio partito
Insieme avevamo scoperto la condivisione, la solidarietà, l’aspettarsi per poi ripartire.
Inseguivamo un sogno, un’aspettativa, una speranza.
Eri il mio partito politico, il compagno di una vita.
In quegli anni abbiamo incontrato spesso i nostri limiti e provato a superarli. Non sempre ci siamo riusciti, ma intanto crescevo e non ero sola.
Abbiamo imparato a sentirci popolo e poi cittadini, mai gente.
Volevamo cambiare il mondo, renderlo migliore, e volevamo farlo attraverso la responsabilità e la leggerezza di guardare gli altri alla pari.
Non ci siamo riusciti, ma abbiamo provato, insieme!
Ora però mi sento da sola a guardare il mondo, eri il mio partito e non ti riconosco più.
Sento solo discorsi e alcuni non mi piacciono.
A volte sussurri ed io non sento. Parla più forte! Non capisco. Parla più chiaro!
La guerra? Non mi piace proprio quello che dici, e questo lo sento bene!
Chissà forse non sei più il mio partito, compagno di vita, dovrò cercare altrove?
Un partito amante? Ma non trovo niente di attraente, forse per ora non c’è!
Una curva sinuosa abbraccia il gruppo di casine. Un nastro lucido che incornicia case piccine, vecchie, con piccoli tetti e pareti che scompaiono nel panorama. Il nastro incornicia come quello di raso fa con i regali. Luccica al sole ed anche alla luna, si fa tutt’ uno con la pioggia, notte nella notte.
È la divinità , l’ entità che c’ è sempre stata, c’ è e ci sarà, forse, per sempre. Non c’era discorso che non ne parlasse, né sera a veglia che non lo vedesse protagonista di storie, leggende, magie. Non è mai stato fiume, generico, lettera minuscola. Sempre Arno, presenza viva e possente, lettera maiuscola .
C’ era chi da generazioni viveva con la sua rena, una sabbia meno sofisticata, più scura, di razza contadina. I renaioli conoscevano tutte le buche, tutte le trappole, tutti gli inganni delle correnti. Sapevano dove insegnare a nuotare ai bambini, in sicurezza. Tante volte ho sentito la nonna raccontare di quando Fortuna mise in acqua il mio piccolissimo babbo, nel fondo della Massa. Fortuna ed il fratello Nandino, i renaioli, erano loro stessi personaggi mitologici. Avevano pelle scurissima e quasi a scaglie, simile a quella dei pesci, ed un odore d’ Arno che era profumo di quell’ acqua e solo di quella . Un misto di odore d’ acqua, erba, fango, schiuma di pescaia, che non ho sentito né a Firenze, né a Pontassieve, era solo lì. Era il profumo del mio babbo.
Lui e l’ Arno erano una cosa sola. Fin da piccino era stato con i renaioli. Forse per attitudine, in ogni generazione avevano dei giovani a cui trasmettere il fiume. Uno fu di certo il mio babbo, uno Gigi, che da poco spero stia di nuovo pescando con il babbo. E loro trasmisero a Paolino. Erano sempre lì, piedi nell’ acqua e canna da pesca appoggiata al fianco. Il babbo andava tutti i giorni, dopo pranzo, un paio d’ ore. I pescatori si vedevano da lontano, silenziose sentinelle di acque dolci . I pesci, alla fine, non interessavano a nessuno. Il babbo portava a casa quelli bellissimi, e quelli che i vicini mangiavano volentieri I piu’ belli erano ricoperti di scaglie colorate. D’ oro sulla pancia, grigie, blu e verdi sul dorso . Li portava vivi e si andavano a liberare in processioni di bambini Vederli guizzare e sparire, tra lampi di sole, era un’ emozione grande. Avevano labbra umane, per il resto facevano capire l’ appartenenza ad un mondo altro, di cui erano padroni . Il babbo era rispettoso, li amava davvero. Del resto, lui quell’ acqua c’è l’ aveva nelle vene e lo attraversava, perlomeno fino a quando il posto dell’ acqua l’ ha preso il vino, e da allora in poi niente è piu’ stato lo stesso .
Paolo, fino da ragazzino aveva un sasso su cui sedere, in pescaia. Sempre il solito, un grigio sasso schiacciato sul quale si poteva stare anche in piedi, ed anche in due Ci si poteva scrivere, con i sassi rossi. Ci si trovava lì. Ci penso solo ora, nel mio amore un posto l ha avuto anche il sasso, l’ Arno di sicuro. Fin da bambino Paolo passava le giornate sul fiume e la sua mamma passava le ore sgolandosi a chiamarlo dalla finestra, inutilmente. Tornava solo al tramonto. Allora l’ unico pericolo era cadere in acqua, bastava stare attenti . Anche adesso, per noi le passeggiate finiscono sempre in pescaia, ed il tramonto che si moltiplica sull acqua ci emoziona come sempre.
Da un bel pezzo la zona è tutta recintata per grossi lavori di manutenzione. Quando sono cominciati sono stata malissimo, certa che nulla sarà piu’ come prima . Anche ieri Paolo mi ha detto che non si riconosce piu’ nulla. Il sasso non c’è più. Un gran dolore . Ogni volta che scompare qualcosa che ci vide ragazzi, che vide i miei genitori giovani, posti dove anche loro avevano camminato, riso, amato, mi sembra muoiano un altro po’.
Ho delle foto di loro lì . Non ho foto di loro da “grandi”, come se volesse dire qualcosa
Sono ritratti mentre si bagnano, mentre sono seduti sulla rena all’ ombra del muro, mentre lui mette in mostra tutte le costole spingendo la stanga della barca del renaiolo. Lei fa il bagno e non sapeva nuotare. Si fidava di lui e dell’ Arno . Erano bellissimi e molto felici. Una consolazione.
Forse qualche goccia di quelle che li hanno cullati potrebbe essere rimasta incastrata sotto i sassi, o tra le foglie tremuli di piante acquatiche.
Quelle acque scorrevano quando si sono amati loro, quando ci siamo amati noi, quando sono nata, il giorno che il babbo si voleva buttare. Scappò di corsa quando le mie manine gli sfuggirono ed invece di una capriola, feci una sonora caduta di testa. Lo rincorsero, lo chiamarono, urlarono che non era successo nulla. Da quando me lo raccontarono, ogni volta che mi rimproverava, dicevo che se ero grulla era perché mi aveva fatto picchiare la testa lui. Si rideva, mi accarezzava
Era bellissima anche la passeggiata per arrivarci, in quel punto dell’ Arno. Si attraversava un rigoglioso campo pieno di ogni specie di albero da frutto e poi, quando già si vedeva il fiume, si camminava sulla viottola attraverso un campo di grano che a primavera vibrava di verde e lasciava occhieggiare il rosso di migliaia di tulipani . Fiori di campi, gambi fini e petali fragili, bellezza gratuita che rimane negli occhi
Poi, la spiaggia di rena a ridosso del muro massiccio ad argine dell’ acqua e le acacie che ballavano al ritmo del vento, spargendo profumo e fiori bianchi a grappoli, nella stagione nella quale si vestivano con il bianco vestito buono.
Non c’è più il muro, non c’è piu’ la spiaggetta e nemmeno le acacie . Non ci sono più le vecchie pietre della pescaia. Tutto cemento, temo
C’ e’ l’ acqua. Quella che non è mai la stessa. Quella che porta via .
Poi, in un giorno grigio come la notte e carico di acqua che ha urgenza di atterrare, il pensiero viaggia su un filo esile, e riporta ad un’altra vita, dove le giornate erano lunghe e bianche di strade sterrate, di verde polveroso, di gole riarse e persone che si bagnavano in Arno, scendendo da un’altra pescaia, una più vicina al paese. Il posto dove, senza appuntamenti,si passavano i pomeriggi di vacanza. Non avendo mare, piscine, altro. Del resto, noi eravamo quello, ragazzi di campagna innamorati di quello che avevano, che sembrava poco ed era tutto.
Poi arrivo’ l’età delle scoperte e rivivo fisicamente quegli sguardi che mi si appiccicavano addosso e che improvvisamente non conoscevo piu’. Ci volle del tempo per capire, per imparare che abbracci e carezze avevano cambiato sentimento. Erano i gesti di sempre, ma gli attori all’improvviso avevano cambiato copione. Fu una specie di straniamento, come voglia di stare a vedere quello che sarebbe successo, dal di fuori. Come fosse possibile. Ci fu un’ estate nella quale cambiò il mondo intorno a me. Il mondo si accorse di me, mentre io aspettavo. Aspettavo di capire, di sentire, di diventare grande. (Aspetto ancora).
Ci fu un’estate nella quale quel solito due pezzi non andava piu’ bene. Scappava la pelle, da sotto la stoffa. Feci finta di nulla, per un po’, poi chiesi un costume piu’ adatto, e fu una specie di segnale, di semaforo. Alt, non potevo piu’ andare da sola. Sempre con mia sorella ed il cane. Si partiva in motorino in due, e la Titti la si infilava nella borsa laterale che aveva il Ciao, con la testa fuori e le orecchie marroni che sventolavano come bandierine. Del resto la distanza dalla pescaia era pochissima, ed il fiume era il panorama più prossimo alla vista dalle finestre di quella casa.
Ricordo anche un periodo nel quale covavo una specie di risentimento ed anche di invidia verso quelle che continuavano a non cambiare. Ero convinta fosse una specie di accento su di me, un accanimento della sorte. Mi sembrava che i soliti amici ora recitassero una parte. C’era chi non veniva piu’ a fare il bagno se c’era lui, chi se ne andava se non c’ero io, chi parlava di cose che avrei detto, fatto, guardato, e che non erano mai vere. Naturalmente pensavo fosse tutta colpa mia, ed attraversai un periodo solitario e pensieroso.
Comunque si faceva il bagno, nello specchio d’ acqua sopra la pescaia, e si nuotava fino al Girone, si attraversava. Siccome il fiume era casa di tantissime bisce, serpi acquaiole, innocue ma delle quali avevo ed ho ancora grande paura, nuotavo con le pinne, convinta che se me ne fosse venuta qualcuna vicina, sarei riuscita a scappare. A nessuno ho detto che comunque tenevo gli occhi chiusi, così non le avrei viste di sicuro
A fine pomeriggio arrivavano in pescaia anche altre persone del paese. Ricordo bene operai in tuta blu. Dopo che tutto il giorno la pescaia era stata abitata dagli scansafatiche, arrivavano gli operai. Uno in particolare arrivava proprio tutte le sere, ed eseguiva un rituale: tirava fuori dalla tasca un pezzo di sapone giallo, se lo passava sulle braccia, sulle gambe e sui capelli, e si buttava in acqua. Nuotava moltissimo, con uno stile perfetto, e ricompariva sempre dopo un’ oretta. Dicevano lo facesse tutti i giorni, anche in inverno. Sempre solo e senza mai parlare.
Mentre noi si bighellonava, ed il tempo passava, e l’acqua scorreva e portava via. Forse solo quello che si dimentica, non torna piu’.
“Volevo essere un duro”, sì , “campione mondiale di sputo” dice Lucio Corsi. Da parte mia invece volevo fare una raccolta di “fondi oro senesi” del 300 perdermi nella maestà di queste tavole, avere dentro di me la loro intensità. Non me lo potevo permettere allora decisi di fare la raccolta di un qualcosa altrettanto bello e mi orientai verso i vetri di Murano, che sono la rappresentazione forse più plastica della capacità artigianale italiana, sono oggetti di una bellezza a volte veramente intensa e soprattutto, come i fondi oro molto spesso pieni di colori preziosi, di forme e di aspetti molto particolari. Non è che avevo una grande esperienza di questi oggetti e a Firenze non è che c’era una grossa possibilità di raccolta. Entrai in un negozio di Archimede Seguso, uno dei dei più grandi maestri che all’epoca era ancora vivo e cominciai a innamorarmi davvero di questo mondo. Il negozio si riforniva di capolavori, posso chiamarli così e anche soprattutto dietro la guida esperta della signora che ci lavorava riuscii a capire quali erano gli aspetti che andavano privilegiati nell’acquisto di un vetro, la loro capacità di comunicare emozioni. Il periodo più bello sia di Archimede Seguso che degli altri maestri vetrai è stato quello dagli anni 30 40 fino agli anni 90 perché erano i momenti in cui era più presente all’interno del mondo italiano la capacità produttiva e artigianale E questo ho cercato di riproporre nella mia personale raccolta di vetri, alcuni anche di discreto valore commerciale. Successivamente ho ampliato il mio interesse verso altri autori sempre di Murano, oppure di altre nazionalità fra cui ho un vetro di Louis Comfort Tiffany acquistata a un’asta di Firenze. Tiffany è quello del negozio del film omonimo e che ha tutta una storia particolare. Tutto questo in qualche maniera mi ha dato piacere anche nel momento in cui poi la vista ha cominciato a calare e non sono riuscito più a scegliere e a vedere altre forme di questa arte. Mi è rimasto tutto impresso negli occhi e questa luce che emanano, questa forza che ti che danno, la vedo e la sento ancora perché la ricordo molto bene. Ma non solo: posso continuare ad andare per i mercatini insieme alla Cecilia e fare acquisti in cui lei ha sostituito veramente il mio sguardo con esiti ancora forse più belli perché anche guidati da una sensibilità femminile che si è unita alla mia.
Un ricordo bello e dolce è l’impatto che hanno avuto i nipoti nella mia vita.
Derek è arrivato dalle Filippine all’età di otto anni.
Ricordo che era tardo pomeriggio, rimasero tutti a cena da noi, eravamo proprio tutti, solo Alberto non c’era già più. Eravamo emozionati, questo piccolo bambino fra quelle persone che eravamo diventate i suoi familiari, non sapeva la lingua e anche gli altri due nipoti, Siria e Mirko, erano in difficoltà, eravamo estranei per lui.
Per cena avevo preparato diverse cose e anche del riso, quando l’ho mangiato era di un sapore orribile, ero davanti a lui, l’ho guardato mentre lo mangiava… la creatura lo mangiò senza dire niente, mi sono chiesta come si sarà sentito.
Un altro ricordo di un altro giorno, eravamo seduti sul divano io ammisi di essere vecchia, lui mi rispose che “essere vecchi” voleva dire essere rispettati, questo mi colpì, il suo era il pensiero della cultura filippina.
Le mie figlie portavano Siria e Mirco a casa mia ogni mattina alle sette, alle otto li accompagnavo al pulmino, il pomeriggio dopo la scuola li avevo tutti e tre fino al rientro dal lavoro delle mie figlie.
Alle otto portavo al pulmino Siria, che era una bambina dolce, lungo il tragitto lei raccontava la nostra vita famigliare alla accompagnatrice.
Un altro ricordo di lei è quando, Alberto per giocare gli diceva che io ero bassa in paragone a lui, lei rimase pensierosa quasi indispettita, però gli rispose decisa: “si, ma lei sa fare tante cose”, questa risposta ci fece piacere e sorridere.
Il secondo a partire per l’asilo era Mirko, in inverno voleva indossare sempre il solito piumino leggero, questo mi metteva in imbarazzo perché sembrava che non ne avesse uno più pesante, quando era tanto freddo mi diceva “nonna scalducciami” e si faceva abbracciare e avvolgere nel mio cappotto.
Già allora io avevo problemi alla schiena e non dovevo sollevare i pesi, spesso però quando rientrava, prima di scendere dal pulmino mi buttava le braccia per venirmi in collo, e io lo accoglievo, un dolce peso.
Tanti, tanti ricordi di merende con loro e i loro amici, giochi, suddivisione di spazi che diventavano case, tavole che erano mercati, giochi sotto i piloti e nel prato, vacanze al campeggio.
Mi hanno riempito la vita e mi hanno fatto superare la morte del loro nonno con più facilità, avevo loro da accudire e pensavo meno al mio dolore.
2008 Mirko
La paura che ho provato un pomeriggio, ero seduta sotto il piloti della mia abitazione per controllare mio nipote.
Per passare il tempo, facevo l’orlo a dei pantaloni , ogni tanto davo un’occhiata al gruppo di bambini che giocavano nel prato, fra questi c’era Mirko, ad un certo punto non lo vedo più , mi alzo e inizio a chiamarlo e a cercarlo nessuno risponde, giro intorno al fabbricato, niente, vado alle cantine ancora niente, la paura mi prende alle gambe, mi fermo, eccolo, fa capolino dal dietro muro, mentre io lo cercavo lui si spostava per non farsi trovare.
La paura era stata tanta, ma anche la felicità nel vederlo, lo brontolai e lo abbracciai con tanta gioia.
In quel periodo era sparita una bambina in Italia
2008 Siria
Stiamo andando al mercato Alberto io e Siria è una giornata luminosa piena di sole.
Camminiamo fra le persone, Siria è per mano di Alberto, sta parlando con lui ad un certo punto strambotta una parola: nonno voglio la pela! Non capiamo quello che dice, cerchiamo di indovinare, le proponiamo alcune cose, lei dice sempre no, si ferma e un po’ arrabbiata perché noi non capiamo, in maniera decisa ci dice: Pela, come quella rossa di Biancaneve, indicando delle belle mele rosse in mostra sul banco dell’ortolano.
Mirko /2009
Sono al campeggio con Mirko e Siria.
Io le mie figlie abbiamo deciso di rispettare la volontà di Alberto, aveva prenotato lui la vacanza, ma non ce l’ha fatta a godersela, la malattia se l’è portato via prima.
Io e Mirko e Siria siamo fissi al campeggio, Sonia e Stefania con i mariti vengono il fine settimana. Vicino alla nostra piazzola c’è la famiglia di mia cognata questo mi ha aiutata.
E’ domenica stiamo pranzando tutti sotto il gazebo, si parla di tante cose anche se siamo un po’ sfasati, ci manca Alberto.
Ad un tratto si sente la vocina di Mirko che dice, mi fa freddo alle dambine (gambine)
Siria – Derek – Mirko 2010
Sono in bicicletta sto facendo il percorso che porta al mare, la pineta mi avvolge con il suo profumo, Stefania con i bambini e già in spiaggia .
Lascio la bici, l’allucchetto alla recinzione.
Passata l’ultima duna, davanti ai miei occhi si stende un mare placido con dei colori stupendi dal celeste chiaro al blu intenso, i raggi del sole sulla superficie dell’acqua brillano.
Vado alla mia sinistra, vedo già i bambini, stanno giocando.
Quando arrivo da loro, Derek ha fatto una buca abbastanza profonda e c’è dentro, inizia a farmi delle smorfie con la bocca e a strabuzzare gli occhi , io mi prendo paura, lui ride soddisfatto.
Mirko e Siria prendono l’acqua con i secchielli per riempire la buca, mi metto a giocare con loro. Propongo di fare una macchinina a quattro posti, tutti e tre acconsentono, iniziamo il lavoro, è riuscita una bella macchinina, ci hanno giocato un bel po’ di tempo.
La macchinina l’abbiamo fatta altre volte, visto il successo dell’idea.
2012 Derek
E’ domenica pomeriggio , l’aria è tiepida, sto andando al campo sportivo c’è il torneo di calcio dei ragazzini del paese, Derek gioca nella prima partita, Mirko nella seconda.
Sono nella tribuna, inizia la partita, i miei occhi non si staccano da Derek, sta giocando bene, è veloce sul campo, ha dei contrasti con altri giocatori, se la cava sempre bene, più che seguo la partita più dentro mi sento crescere la tensione, per la competizione fra le due squadre, contribuisce a questo mio malessere, la rabbia di alcune persone che assistono alla partita e incitano i loro giocatori, con frasi denigranti nei confronti dei ragazzi dell’altra squadra, e frasi violente e cattive come rompigli le gambe. Non ce la faccio più ha sentire questo tifo sguaiato, la tensione la sento forte dentro lo stomaco, decido di andare via, non vedo la fine della partita di Derek , né la partita che aveva da giocare Mirko, appena mi allontano dal campo di gioco mi sento subito meglio.
Stanno crescendo velocemente. Vorrei fermare il tempo, almeno per un po’.
Rivederla aveva rinnovato in me emozioni così forti che mi appoggiai al vecchio eucalipto ancora rigoglioso e rassicurante.
La grande casa mi aveva accolta bambina e nonostante il tempo avesse cancellato l’antica armonia apparve ai miei occhi ancora pregna di sorrisi e affetto, non sentivo le risate dei bambini che rincorrevano le galline e neppure i canti notturni, ora se ne stava solitaria e abbandonata a se stessa ricordando con un po’ di nostalgia un tempo ormai lontano.
In quella pianura avvolta dall’aria salmastra del mare poco distante erano state costruite molti poderi con la riforma fondiaria che assegnava ai contadini più bisognosi qualche ettaro di terra e l’abitazione, erano tutte uguali queste case con grandi spazi atti ad accogliere famiglie numerose.
Tutto sembrava come allora, il pozzo era sempre lì e rivederlo così piccolo e spaventato mi fece sorridere perchè da bambina mi sembrava gigantesco e quando tiravo su l’acqua avevo una gran paura di caderci dentro! L’intonaco scortecciato, le finestre sbarrate e il grande silenzio che l’avvolgeva mi fecero capire che fosse abbandonata da molto tempo, rividi i miei zii indaffarati a tramestare nell’aia e i miei cugini più grandi di me che ci facevano giocare con quello che si trovava in giro, legnetti, pietre, sassolini e facendosi spazio tra i ricordi per un attimo ritornò a vivere.
Il grande arco che portava a una veranda chiusa era intatto, nel mezzo c’era ancora il tavolo, la panca e qualche sedia e appoggiato alla parete c’era il mettitutto avorio profilato di azzurro, mancava solo la stufa a legna dove la zia con poco faceva mangiare tutti.
Ci andavamo d’estate quando la scuola chiudeva, l’attesa dei miei genitori diventava insopportabile e lei materna e accogliente ci riparava dalla tristezza, lì sentivo l’amore di cui ero privata.
Tante case sparse in qua e in là e tante vite abbandonate a se stesse, in balìa di un destino che se ne fotteva dei loro dolori nascosti con pudore e dignità, ma quella gente non si abbatteva, sapevano che le battaglie vanno combattute con coraggio, senza troppi lamenti e ogni giorno sfidavano quel destino cieco e sordo e inventavano momenti di allegria per dare un po’ di tregua ai loro poveri cuori.
Nelle sere d’estate quando la frescura rasserenava gli animi uomini, donne e bambini si trascinavano lungo l’unica strada bianca che collegava le case e spesso si fermavano nell’aia della zia che accoglieva tutti sotto il grande eucalipto mentre lo zio, pronto a raccontare aneddoti divertenti e a intonare canzoni popolari portava allegria e spensieratezza, i più piccoli andavano a giocare sotto il grande fico dove un’altalena li aspettava felice di riprendere il volo.
Attraversai la stalla confinante con la veranda e per un attimo sentii l’odore della paglia mista al letame e lo scalpitio di Stellina, la giovane cavalla tanto temuta, forzai la vecchia porta sgangherata e mi trovai sul retro della casa, il forno trasformato dallo zio in una conigliera era sempre lì e la recinzione del pollaio dove io e mio fratello andavamo a prendere le uova era ancora intatta.
I ricordi si accavallavano e mi rividi con mio fratello mentre portavamo a pascolare i tacchini di cui io avevo grande paura e quando aprivano la coda a raggiera e sentivo quel verso buffo e assordante “gluh gluh gluh” mi stringevo a lui che come un bravo pastore mi proteggeva.
-Se volete mangiare dovete faticare!- Diceva scherzosamente lo zio, ma noi lo prendevamo sul serio e senza fiatare andavamo sotto il sole cocente nei campi appena mietuti cosparsi di chicchi di grano. E poi arrivava il tempo della vendemmia che avveniva prima del nuovo anno scolastico e la pigiatura dell’uva, un rito che si ripeteva ogni anno si trasformava in un vero e proprio momento di gioia, entravano nel grande tino prima i miei cugini e quando l’uva era già schiacciata facevano salire anche noi che cantando le canzoncine imparate a scuola ci divertivamo a saltare e ballare senza preoccuparci troppo di sporcarci assaggiando il dolce succo d’uva che ci imbrattava il viso trasformandolo in una maschera, si comprava così una giornata di divertimento senza spendere nulla.
Osservavo ogni cosa con meticolosità come se fossi andata lì per vedre se tutto era a posto poi ritornai sotto l’eucalipto e mi sedetti sulla terra dura) più piccoli per terra, dopo la calura del giorno i vicini si erano ritrovati come spesso accadeva dai miei zii e seduti in un grande cerchio raccontavano gli ultimi fatti, gli uomini si accanivano contro la siccità o il governo che pagava poco, le donne parlavano sottovoce degli affanni quotidiani e i bambini giocavano ai “ cinque sassolini “, io ero diventata esperta e nelle gare vincevo quasi sempre, era questione di abilità e di allenamento e quando nell’ultimo passaggio buttavo in aria i cinque sassi riprendendoli tutti in una sola volta ero la bambina più felice del mondo.
Era buio da qualche ora e s’incominciava a sentire il freddo della notte così gli uomini fecero un grande falò nel mezzo del cerchio e qualcuno intonò timidamente una canzone poi se ne unirono altri e altri ancora e nell’aria oltre alle scintille e alle fiamme che si rincorrevano si spandeva un’unica voce che saliva con slancio, quasi con violenza fino all’alto dei cieli come a voler dire”Ascoltate, ci siamo anche noi.”
La luna li guardava in silenzio e, generosa come sempre, li strinse in un abbraccio con i suoi fili di luce, il buio aveva nascosto i pensieri pesanti e tutti si sentivano liberi e più forti. I più piccoli aggrappati al seno della madre e cullati dal suo respiro dormivano e via via che il fuoco si tramutava in cenere le voci diventavano sempre più sussurrate e le persone come lucciole sparivano nel buio della notte.
Le luci del giorno appena nato ridavano vita alla casa, la prima ad alzarsi era sempre zia Lucia che già dalla mattina si dava un gran daffare affinchè tutti vivessero al meglio la giornata, con la sua andatura lenta e pacata camminava senza far rumore intenta a preparare la colazione per tutti, nel suo vestito nero mi sembrava già vecchia la zia, ma il viso tondo e paffuto, gli occhietti buoni e il sorriso gentile le davano un’aria da ragazzina, via via come fantasmi uscivano dalle camere lo zio Nicola e i quattro figli e noi che dormivamo in una brandina messa per l’occasione nella grande sala da pranzo ci alzavamo attratti dal profumo del latte appena bollito e mangiavamo con gusto il pane spalmato con la panna , ultime erano le due nipotine di sei e quattro anni che correndo sulla punta dei piedi come piccoli anatroccoli cercavano le braccia della mamma.
Nel ricordo sentivo ancora le voci che si rincorrevano, litigavano o scherzavano mescolati agli odori che nel tempo non sono scomparsi, ricordo con un po’ di nostalgia il profumo del latte appena munto o quello delle “frittelle povere” che faceva la zia con tanto pane raffermo, le uova e poco formaggio.
Tante immagini e tanti volti scorrevano davanti ai miei occhi , stavo guardando una parte della mia storia che mi sembrava ancora più bella di quella che avevo vissuto tanti anni prima.
Camminavo lungo la rete del pollaio e con la coda dell’occhio vidi in un angolo della rimessa dei motori lo “zanzino” di zi Ncò, era il motorino dello zio chiamato così perchè proprio come una zanzara saltava da una casa all’altra in cerca di qualcuno con cui chiacchierare e fare quattro risate.
Era un tipo da spiaggia zì Ncò, attaccava bottone con tutti e siccome aveva la risata nel sangue tutti lo cercavano e lui passava più tempo davanti a un bicchiere di vino e a un mazzo di carte che nei campi, motivo ricorrente nei litigi con la zia.
Quella mattina eravamo andati nel campo a cavare le barbabietole e mentre gli uomini zappavano per estrarle dalla terra noi ne facevamo grandi mucchi, per noi bambini, inconsapevoli di dare un valido aiuto, era un gioco divertente, ma per la zia che si era alzata più presto del solito per preparare il pranzo non lo era affatto e con la schiena chinata e il fazzoletto legato in testa a riparare dalla polvere i capelli raccolti in un “tuppo” mi sembrava ancora più vecchia. Era la sorella maggiore di mia madre, tra le due c’era un profondo legame che le univa in una vita diversa , ma ugualmente difficile e per me è sempre stata la zia buona e saggia a cui ho voluto tanto bene.
Eravamo quasi a fine del lavoro e quando le forze incominciarono a mancare, come formichine affaticate ci avviammo in fila verso casa, zì Ncò prese lo zanzino e volò via e in un attimo sparì senza dare il tempo alla zia di dirgli “ Ncò u pancott è già pronto, non fare tardi!”
Arrivati a casa ognuno si dava da fare, noi piccoli prendevamo le sedie sparse un po’ dappertutto, la zia e le cugine misero il paiolo con la verdura e le patate sul fuoco,) aggiunsero il pane raffermo e versavano il tutto nel grande piatto di creta, di quei piatti tipici pugliesi decorati con i fiorellini blu.
Era pronto, il lavoro e l’aria salmastra del mare ci aveva scatenato una gran fame così seduti intorno al tavolo e con la forchetta in mano aspettavamo il via della zia che invece se ne stava zitta perchè se mancava il “capofamiglia” non si mangiava e il capofamiglia non arrivava e la zia sempre più nervosa camminava nell’aia nella speranza di vederlo arrivare.
-Sempre così! Chissà da chi sarà andato ora! Lui fa il suo comodo e noi qui ad aspettarlo! Vincè prendi Stellina e vai a cercarlo prima che perda del tutto la pazienza!-
Vincenzo era il figlio più piccolo, appena sedicenne cavalcava la giovane amica come un vichingo, il mare si specchiava nei suoi grandi occhi azzurri e i capelli biondo grano diventavano dorati sotto i raggi del sole, io ero affascinata da questo cugino sempre sorridente e bellissimo e ancora oggi mi piace ricordarlo fiero e orgoglioso in groppa alla sua Stellina. Lo trovò da compare Lunard con il bicchiere di vino in mano che se la spassava, appena vide il figlio sbiancò in viso e solo in quel momento si rese conto di quanto tempo fosse passato. Zia Lucia era furibonda e lo accolse con improperi.
-Sei sempre il solito! Ma ti sembra normale presentarti a quest’ora? – Heeee, ma come la fai lunga, sempre la solita esagerata!- Per lui la vita era un grande spettacolo la cui sceneggiatura veniva improvvisata di giorno in giorno.
Via via che continuavo la visita i ricordi mi ritornavano alla mente con una tale chiarezza e lucidità che sentii vivo e profondo l’affetto per i miei zii e provai una gran tenerezza per quella bambina di dieci anni troppo timida e impaurita.
Ritornai fuori per prendere una boccata d’aria e mettere in ordine quelle dolci emozioni che mi avevano portato indietro di sessant’anni, mi ritrovai nella grande aia dove veniva fatta la battitura del grano, mi sembrava di vederlo lo zio che guidava Stellina facendola trottare in cerchio per battere le spighe e le donne, imbacuccate nei grandi fazzoletti per ripararsi dalla polvere urticante, con i forconi lanciavano in aria paglia e spighe per ventilare il tutto e liberare i chicchi che poi venivano raccolti in sacchi di iuta.
Il ricordo più divertente era la cattura degli uccellini, oggi la vivrei come una crudeltà, ma allora era diverso, per noi bambini era un gioco e per gli adulti era una strategia per arricchire la tavola di buon cibo. In un certo periodo dell’estate c’era il passo degli uccelli e lo zio con i miei cugini installavano nell’aia una lunga reta da pescatore fissata a due robusti pali e verso il tramonto decine di uccelli s’imbattevano in essa rimanendovi impigliati con grande festa di tutti.
Il cielo stava indossando i vestiti del tramonto e in lontananza sulla lingua azzurra si riflettevano sfumature di rosso, arancio e rosa e capii che era giunto il tempo di andare. Un ultimo sguardo per fissare le immagini, un altro ricordo si era aggiunto alla lista e un po’ nostalgica mi avviai verso la macchina.
Nel ripercorrere quella strada rividi i poderi appoggiati sul terreno come guardiani di antichi ricordi e sogni e immersa nei miei pensieri inchiodai davanti alla casetta di Marietta, rimasta vedova ancora giovane trascorreva con i due figli gran parte dell’anno in quel luogo di pace e quando lei non c’era ci andavo con mio fratello che saltando dal fico al tetto cercava i nidi degli uccellini nati in primavera che se ne stavano appollaiati in attesa della prima lezione di volo.
Come le mollichine di pane di Pollicino i ricordi ci cullano in un tenero abbraccio e ci fanno ritrovare la strada per ritornare a casa
Ricordo una strada in salita, delimitata da un alto muro che la separava dal giardino di un’antica villa. Biforcandosi dava origine ad una scalinata sconnessa, dove erbe spontanee e minuscoli fiorellini azzurri (i non ti scordar di me) nascevano in libertà. In cima c’era la chiesa del paese abbracciata da scale proprie e da un ampio spazio; a destra la canonica e vecchie costruzioni fra cui la scuola.
Sulla sinistra ci si poteva affacciare al muro che sorreggeva questa altura e osservare al di sotto poche case, alcune attaccate insieme a formare una insolita costruzione irregolare e la strada che continuava per Vallina da una parte e per Villamagna dall’altra.
Si poteva notare un Bar che faceva anche da forno ed alimentari, luogo d’incontro per la popolazione e altri che, passando si potevano fermare per un caffè o un goloso panino, magari consumato sulla grande terrazza accanto, dalla quale si ammirava uno splendido panorama della città di Firenze.
Dalla parte opposta quasi scavata nella roccia della rupe ecco l’Ufficio Postale: due stanze non troppo grandi e un corridoio. Nella stanza d’ingresso pochi mobili: una bilancia pesa-pacchi, uno scrivi-in piedi, una panca per l’attesa. Alla seconda stanza si accedeva da una porticina a due ante che funzionava tipo saloon del far-west e in quella si notava una scrivania abbastanza grande con accanto un tavolino per la ricevente, alcune sedie e, vicino al muro, uno schedario con tante cassettine.
Le due stanze consecutive erano divise da una parete per quasi la metà a vetro, per i servizi al pubblico. Non era proprio quello che sognavo come primo impiego, ma tutto sommato ero vicina a casa, avevo la macchina ed era solo l’inizio.
Era la fine di giugno ed ero dovuta rientrare dalle vacanze al mare per quella improvvisa chiamata. Alle 8,00 del mattino, lasciata la macchina prima del paese, mi ero arrampicata per quella salita respirando l’aria fresca piena di profumi della campagna e di pane appena sfornato, guardandomi intorno alla ricerca dell’ufficio postale, del quale non avevo mai saputo l’esistenza e lo trovai abbastanza facilmente.
Entrando nella stanza d’ingresso abbastanza impacciata, vidi al di là del vetro, un signore non tanto giovane, con gli occhiali sul naso che mi guardava incuriosito.
“Desidera signorina?”
Tirai fuori la voce e…”Buon giorno, sarei la nuova impiegata, mi hanno comunicato di venire qui e…” Quest’uomo, che poi era il direttore, balzò sulla sedia e si precipitò ad accogliermi con grande gioia. Gentilmente, mi introdusse nella sua stanza. Entrando notai lateralmente uno stanzino senza finestra dove, alla luce fioca di una lampadina polverosa, due vecchietti, così mi sembrarono a prima vista, toglievano dai sacchi la corrispondenza che poi dividevano inserendola in un casellario. Anche loro mi guardarono al di sopra degli occhiali e mi sorrisero in segno di benvenuto. Il direttore poi mi spiegò poi che nessuno aveva voluto rimanere in quell’ufficio oltre il tempo obbligato perché troppo lontano dalla città e privo di mezzi. Lui era molto felice del mio arrivo, e visto che avevo il mezzo, ed ero di Bagno a Ripoli si augurava che rimanessi.” Vedrà che si troverà bene” mi disse” l’ufficio non è granchè ma cercheremo insieme di migliorarlo, e poi siamo fra brava gente!”. Fu così che vi rimasi per 17 anni. Ed aveva ragione perché conoscendo le persone mi sentii come in famiglia.
I primi giorni furono abbastanza impegnativi, data la totale ignoranza della materia, ma poi col passare del tempo tutto divenne più facile. In un paese così piccolo, nel quale si conoscevano tutti, divenni la novità di cui parlare e, a turno, per qualsiasi sciocchezza entravano spesso solo per curiosare. Soltanto per determinate scadenze l’ufficio si riempiva, negli altri giorni chi veniva si intratteneva volentieri a parlare del più e del meno. E fu così che feci la conoscenza non proprio di tutti, ma di molti.
Volti, fatti, ricordi si susseguono a non finire; alcuni più presenti di altri. C’era un anziano signore che ogni mese veniva a pagare dei bollettini per beneficenza ed entrando mi salutava così” Buongiorno e quattr’ova!”. Non ho mai saputo a cosa si riferisse, ma non potevo trattenermi dal ridere e lui rideva insieme a me. Aveva occhi chiari, calmi e dolci e se ne andava dicendo” A poi”.
Spesso, il rumore scoppiettante di un’ape annunciava l’arrivo del “canterino”, un personaggio alquanto strano e particolare: era piccolo e ossuto vestito con abiti logori, ma abbastanza puliti per il lavoro che faceva (raccoglieva ferri vecchi nelle discariche), aveva occhi vispi e canzonatori e due guancette rosse che sembravano dipinte. Non disdegnava qualche bicchiere, ma non l’ho mai visto alticcio. Era bravo a improvvisare rime. Sul dietro dell’Ape scritto – Se vuoi campar cent’anni e un pochinino rispetta l’acqua e bevi sempre vino! – Quella mattina, come di solito, aveva fatto capolino alla porta dell’ufficio e, dopo un breve saluto, aveva tirato fuori dalla tasca alcuni fogli e me li aveva dati dicendo ”Questa eh la scrissi dopo l’alluvione, gliela regalo, mi faccia sapere se la gli piace”. E se ne era andato ricomparendo la mattina seguente con una serie di monete trovate chi sa dove che mi regalò. Il minimo era offrirgli la colazione che gradì molto. Mi ero fatta un amico.
Venivano anche a riscuotere lo stipendio alcune insegnanti fra le quali in particolar modo ricordo Tina sempre sorridente, dolce e gentile e, dentro di me pensavo alla fortuna che avevano avuto i bambini ai quali accudiva. Veniva anche una suora, timida e dimessa alla quale consegnavo una busta con l’importo esatto che doveva consegnare a Madre Superiore.
Anche la nobiltà passava spesso a ritirare la posta dalla propria casella: un conte elegante, sostenuto ed altero, un pediatra famoso, un giudice e anche uno scrittore che mi regalò un suo libro con tanto di dedica.
Nei periodi di minor lavoro mi annoiavo un po’, ma aprendo la finestra, nella bella stagione potevo sempre godere alla vista di quella terrazza prospiciente al bar sulla quale si ritrovavano spesso vecchi, giovani e ragazzi. Fra questi rivedo Stefania, Paolo così giovani ed altri loro compagni: alcuni fra i più vecchi improvvisavano su strumenti propri vecchie canzoni; ed era tutto un ciarlare, un ridere, uno star bene in compagnia che mi coinvolgeva anche se non ero lì con loro.
Nel frattempo il vecchio direttore era andato in pensione lasciando il posto ad uno più giovane simpatico e sempre pronto a far battute e raccontar barzellette intrattenendosi a volte con gli utenti che gradivano quel fare scherzoso e fuori del comune.
L’ufficio non era più lo stesso, il lavoro era cresciuto molto e erano arrivate altre due impiegate; lo spazio era veramente minimo. Intanto a Bagno a Ripoli era in costruzione un nuovo ufficio più moderno e funzionale, Candeli era destinato alla chiusura e il nuovo direttore pensò bene di andare in pensione. Io mi trasferii a Bagno a Ripoli e incominciai un’altra storia.
DA CANDELI A BAGNO A RIPOLI
Ricordo che l’ultimo giorno a Candeli fu molto triste. I colleghi quasi mi ignorarono non capendo perché avevo chiesto il trasferimento sei mesi prima della chiusura definitiva di quell’ufficio. Avevo le mie buone ragioni, la più importante delle quali era mia madre che, dopo una serie di malanni, richiedeva una presenza continua. A Bagno a Ripoli potevo usufruire del doppio turno così da potermi organizzare mattina o sera. Anche la gente di Candeli non la prese molto bene e all’inizio sembrò loro quasi un tradimento.
Il giorno in cui mi presentai nel nuovo ufficio fu tranquillo; conoscevo già tutti sia impiegati sia portalettere e fui accolta con calorosi abbracci. Mi sedetti nella postazione dei servizi vari e incominciai il mio nuovo giorno di lavoro: pagamenti e riscossioni.
Non ero abituata a lunghe code e cercai di andare avanti a capo basso finché qualcuno, mi riconobbe e mi salutò chiamandomi per nome, felice che fossi lì. Altri, avendo seguito la scena, si incuriosirono e, fra chi mi conosceva fin da bambina e chi era lì di passaggio venendo da Candeli, mi trovai a lavorare in modo abbastanza piacevole. Scoprii più tardi che le cose non erano sempre così e la maggior parte ti considerava con estrema freddezza. Fortuna che ogni tanto qualcuno interrompeva la serie e si mostrava gentile!
Intanto proseguiva speditamente la costruzione del nuovo ufficio. Quando insieme ai colleghi andammo a visitarlo, pochi giorni prima dell’apertura, ci sembrò molto bello e funzionale: grandi spazi, pavimenti lucidi a specchio, banconi azzurri dotati di moderni computer, grandi vetrate che si affacciavano sul cantiere della nuova Coop, anch’essa in costruzione. Niente a che vedere con quello dal quale provenivo e dove avevo lasciato un pezzetto del mio cuore.
Di lì a pochi giorni si tenne l’inaugurazione alla quale, oltre al personale al completo, presero parte il Sindaco del Comune e altri responsabili delle Poste. Ricordo che mentre ero là ascoltando lodi e discorsi vari, sentii qualcuno avvicinarsi quasi di corsa, che mi si infilò sotto braccio abbracciandomi: era Lorenzino, un ragazzo che era stato compagno di classe di mia figlia ed ora lavorava in Comune. Col viso rosso e un po’ vergognoso mi sorrise e io fui felice che mi avesse riconosciuto. Mi ero fatta un amico che da allora in poi giornalmente mi consegnò la borsa con la posta del Comune.
Ricordo anche che alcune mattine, quando era il mio turno di apertura della porta dell’ufficio, insieme alla gente che aspettava di entrare, c’erano diverse persone anziane per lo più uomini che venivano a vedere dal balcone come andavano avanti i lavori della Coop e con loro scherzavo “L’avete fatto il biglietto? Per domani c’è qualcuno che si incarica per la vendita?” Ridevano e facevano e qualche battuta allegra. Era un modo piacevole per iniziare la giornata.
Tanti sono i ricordi e molto è il tempo che è trascorso. Sembra ieri, eppure sono 20 anni che sono pensionata, incontro ancora qualcuno di allora che mi saluta e mi abbraccia e di questo sono felice.
Sono salita al pollaio per portare gli scarti di casa e il pastone alle galline, che mi aspettavano impazienti zampettando avanti e indietro davanti al recinto.
Come prigionieri in attesa della libertà, mi inteneriscono sempre e apro il cancelletto per farle uscire, sapendo bene che troverò i vialetti arruffati e pieni di terriccio che loro per natura spargono gioiosamente alla ricerca di vermi, larve e pietruzze.
Si precipitano subito fuori le due pollastrelle nere e marroni, belle e eleganti che non ho capito se hanno iniziato a deporre le uova oppure non ancora.
Loro, mangeranno con calma dopo gli altri, iniziano la caccia con battaglia, se negli scarti trovano pezzi di formaggio oppure parti di carni.
Si rincorrono per rubarsi il pezzo conquistato e cercano angoli protetti per divorarlo in santa pace. Mi diverto a seguire le battaglie e i comportamenti diversi di ognuno.
Gli spiriti liberi che dormono invece sul tetto del pollaio in tutte le stagioni e che non sono riuscita a domare, gallo David, Bianchina e la Rossa, sono scesi da un pezzo e razzolano liberamente senza controllo. Le ho provate tutte ma non sono riuscita a trovare una soluzione che mi tranquillizzi.
Temo sempre che qualche predatore si faccia una bella scorpacciate beffandosi del loro desiderio di libertà. Bianchina semina uova dovunque, obbligandomi a fare ricerche e controlli ogni giorno: ho trovato dodici uova sotto un muro pochi giorni fa.
Sarà perché gallo David è nato da una covata casalinga che ha mantenuto intatti i caratteri istintivi e ha contagiato le due compagne galline ma, ogni strategia ha fallito e devo rischiare ogni giorno.
Ieri, la suddetta compagnia , trovando la porta di casa aperta, si è tranquillamente introdotta nell’ingresso, so ben io cosa cercavano. Mi chiamavano per ricevere coccole e quel che rimaneva nel sacchetto di semi per le mie insalate che a loro piacciono tanto.
Si fanno ogni volta più audaci, sanno che non resisto e mi intenerisco sempre più e così banchettano con semi di girasole, papavero, semi di zucca sgusciati e qualche crosticina di formaggio. Sarà che David mi è molto riconoscente da quando l’ho liberato dagli attacchi di gallo Maciste che lo aveva attaccato a sangue ripetute volte, fatto stà che adesso mi viene a trovare ogni giorno, accompagnato o da solo.
I miei 25 anni ringraziarono il 1973 con il suo divieto di circolazione imposto alle automobili, tutte le domeniche, per fronteggiare la prima emergenza energetica in Italia.
Fu così che arrivò la bicicletta, dopo diciotto anni dall’ultima che avevo inforcato.
Ero ruzzolata lungo lo scalone della caserma Garibaldi a Varese. Dopodiché venni portata di corsa all’ospedale.
Andavo in una bici senza freni con i pattini ai piedi.
Dopo l’accaduto la bicicletta sparì.
Non venne rimpiazzata.
Persi un’amica: negli anni successivi non mi resi conto di quanto mi mancava.
Per un avvenimento fortuito, legato all’amore, la ritrovai: era verde.
Il mio “biciclettaio personale” si occupava della sua manutenzione: adesso non correvo più rischi.
Poggiavo su spalle forti.
Per lui era un tornare al periodo dell’adolescenza quando percorreva le Murge in bicicletta per andare da Bari a Putignano e viceversa perché il biglietto del treno costava troppo.
Erano quaranta chilometri di dossi con la sola ricarica di una banana. Erano quaranta chilometri di forature, catene saltate, freni da registrare, … che lo avevano reso un meccanico pronto ad ogni imprevisto.
Per lui era un tornare indietro ma con l’entusiasmo della nuova vita. Per me era una piacevole avventura. C’era da scoprire un mondo nuovo di cui acquisire la consapevolezza dei luoghi e delle persone. Era tutto da guardare, mettendo a fuoco ciò che capitava, per sentirsi parte di una città che si concedeva con estrema parsimonia. Gli occhi diventavano esploratori al rallentatore della realtà che ci ospitava da quattro anni.
Era possibile andare a zonzo all’ombra del cupolone con la scusa di fare la spesa. Le soste erano Calderai in via Calimala che sciorinava sul bancone un tripudio di golosità o Pegna in via dello Studio dal quale era possibile scovare tante diverse specialità regionali introvabili altrove come ad esempio l’uvetta passolina, piccola, di colore prugno-nerastra, da usare insieme ai pinoli per cucinare la pasta con le sarde o gli involtini di pesce spada.
In quei giri non mancava mai la sosta sulla panchina all’angolo di via dell’Oche per mangiare il panino con la mortadella acquistato da Pegna.
In bici ci si poteva muovere agevolmente in centro anche di notte per andare alla Pergola o al Comunale ma pure a qualche spettacolo underground spesso rappresentato in spazi non convenzionali dove venivano eseguite performance con linguaggi innovativi. È stato possibile vedere tra gli altri il mimo francese Yves Lebreton che univa espressione corporea e vocale con l’humor clownesco e con il gusto dell’assurdo: ma anche Carmelo Bene e Tadeusz Kantor. Quest’ultimo teneva il pubblico assolutamente ipnotizzato per più di due ore mentre lui e la sua compagnia recitavano in lingua polacca, scandita dal ritmo e dalla musica.
Era forte la sensazione di stordimento provocata da queste esibizioni. Esploravano memoria, trauma, dimensione onirica, potere, ingiustizie, tabù, distruzione … attraverso lo straniamento e colpivano a fondo. Ho ancora negli occhi e nelle orecchie “Lorenzaccio” al Teatrino di Palazzo Pitti dove Carmelo Bene frantumava vetri e fingeva di ingerirli in un rumore allucinatorio.
A fine spettacolo la bicicletta si dimostrava il mezzo ideale perché il pedalare scaricava la tensione accumulata, consentiva di pensare, di riflettere e di riprendere contatto con la realtà.
La prima meta era l’aperitivo.
Non c’è nulla di meglio di un Margarita, di un Martini o di un Gin fizz per riorganizzare le idee dopo che qualcuno ha picchiato giù duro.
Poi toccava al mangiare.
C’era un locale vicino a Ponte Vecchio, all’inizio di Borgo San Jacopo, dove un tipo istrionico, Ghigo, improvvisava piatti stravaganti per i suoi avventori appollaiati su sgabelli vertiginosi. Da lui si mangiava il cous cous più strepitoso di tutta Firenze.
Un altro si trovava in via del Porcellana, “I tredici gobbi”, dove un amico aveva in serbo sempre qualcosa di speciale e comunque si poteva contare sul suo prosciutto di Praga davvero impareggiabile.
Talvolta tra un andare in su e in giù capitavano dei siparietti inaspettati come trovarsi in un gruppo che ballava danze popolari in Piazza del Duomo o anche piroettare in Piazza della Repubblica con uno sconosciuto albanese decisamente allegro che voleva godersi la musica proveniente da Paszkowski.
D’inverno qualche bicchiere di vino in corpo proteggeva dal freddo durante il percorso di rientro a casa. Pedalata dopo pedalata era bello tornare al proprio mondo dopo essersene allontanati. Era bello svuotare la mente per far entrare la pace e il silenzio della notte che aveva continuamente in serbo qualcosa di magico: le luci dei lampioni sui lungarni riflesse nel fiume, la luna sempre bella nelle sue diverse facce e posizioni, il cielo nelle varie forme, il mosaico di San Miniato che veniva fuori dal buio, scintillante d’oro, dominando la piana ai suoi piedi. Via via entrava anche lo stupore di tutto come se ad ogni angolo ci si trovasse davanti a un miracolo.
D’estate in città di solito imperversava un caldo spietato ma dal tramonto in poi la situazione gradatamente migliorava. Era bello vagare lungo i viali deserti magari alla ricerca di qualche arena dove vedere un film. Era eccitante sentirsi così padroni del mondo da attraversare gli incroci anche con il rosso, se non c’era nessuno in vista. Ma una volta i vigili mi hanno seguita, fermata e fatto una bella ramanzina mentre mio marito li sollecitava a fare la contravvenzione. “Fatele la multa – diceva – così se la smette di fare la spiritosa!”
Capitava che l’automobile era dal meccanico, allora la bicicletta serviva anche per andare al lavoro. Nel periodo in cui si poteva usufruire della chiatta che univa le due sponde dell’Arno in corrispondenza della Nave a Rovezzano il tragitto casa scuola risultava più breve. Era divertente condividere il viaggio con ortolani, artigiani, muratori che parlavano fra loro in vernacolo: volavano battute in libertà che spalancavano mondi diversi da quelli che conoscevo.
Intorno al 1978 iniziò il periodo delle vacanze in Maremma in un furgone trasformato a camper parcheggiato sopra un poggio in un podere in prossimità del mare.
La bicicletta era il mezzo per arrivare in spiaggia. In quegli anni erano davvero in pochi a farne uso. Addirittura capitò che qualcuno sorpassando gridasse dall’automobile “A fanatici!”
Pedalavo e sapevo solo che mi aspettava il mare, il suo odore, il suo rumore, la pineta, le dune.
Era tutto mio.
Non pesava lo zaino né il traino con sdraio e ombrellone; non bruciava il sole a picco.
Sfilavano al mio fianco scenari in continuo movimento: piante, animali, vecchi macchinari, capanne, recinti.
A poco a poco avevo imparato a mettere a fuoco tutto ciò che capitava sott’occhio o a tiro d’orecchio.
A poco a poco avevo imparato a riconoscere gli animali che si mimetizzavano nel terreno o fra gli alberi, a poco a poco distinguevo i differenti versi che facevano.
L’arrivo in spiaggia era il meritato premio: dopo aver creato zone d’ombra con teli e ombrelloni mi abbandonavo a quello che ho sempre considerato il mio paradiso.
A quel tempo la famiglia era al completo. Le bambine non stavano ferme un attimo. Tra un bagno e un altro c’erano le incursioni in pineta dove fare provviste di rami, bacche, pigne che arredavano le capanne improvvisate oppure riempivano i coccini che portavano nella grotta di Collelungo.
Tornati al camper, le bambine rimanevano volentieri sull’aia di Vacchereccia per giocare con gli altri bambini e per stare dietro ad Elena, Emilia e Gemma che avevano sempre un gran da fare nei recinti degli animali fra galline, pulcini, conigli, faraone, oche, tacchini. Quello era il momento di partire per scorribande fra i poderi alla ricerca delle pere più succose, del pecorino più saporito, dei gelsi più golosi, di qualche pezzo di cinghiale.
A Spergolaia Romilda, tipica donna veneta, snella, con gli occhi azzurri e l’accento dolce che coronava il suo garbo nel porgersi, metteva a disposizione uova, frutta e verdura. C’era da ringraziare i suoi maiali per quel che faceva trovare in abbondanza perché alcuni prodotti come fichi e susine Scosciamonache non glieli poteva dare sennò avrebbero avuto “gli scioglimenti”.
Elia, altro veneto magro, biondo e con gli occhi azzurri, aveva una stalla di cento bovini dietro ai quali lui e suo fratello erano davvero sempre indaffarati. Vendeva dell’ottimo vino bianco che faceva gustare in cantina in dosi generose.
È anche capitato qualcuno che ha rifilato il bidone tipo un pollo che non riusciva a cuocersi in nessun modo ma in genere le persone erano corrette.
Ogni mattina a Vacchereccia un gran suonare di clacson fin dai piedi del poggio annunciava l’arrivo dei prodotti da forno: era il panaio, un gran bel ragazzo veneto, biondo e con gli occhi azzurri che, giunto sull’aia, apriva gli sportelli del furgoncino e cominciava la vendita. Le massaie si affollavano intorno a lui e fra una battuta e una chiacchiera venivano distribuiti pagnotte, panini, schiacce, focacce, pizze, bomboloni mentre i bambini facevano le loro richieste ad alta voce e i cani giravano intorno. Il più pestifero di tutti era Briciolo un bastardino con i tratti prevalenti di un pinscher che abbaiava senza sosta con voce strozzata facendo la pipì in qua e in là per l’agitazione.
Il latte arrivava dal Nocchi che aveva il podere ai piedi del poggio: ogni giorno riempiva il grande recipiente d’alluminio con il latte appena munto.
Il panaio non era il solo ambulante che saliva: c’era anche il merciaio, il mesticatore, il dolciaio. Tutta la mercanzia veniva esposta in furgoni che al loro arrivo si aprivano, si allungavano, si abbassavano per mettere in mostra tutti gli articoli e le massaie si radunavano intorno a guardare, toccare, contrattare mentre venivano scambiate tutte le informazioni del contado lì intorno.
Dopo qualche anno, con le nuove regole del Parco dell’Uccellina non fu più possibile parcheggiare il camper a Vacchereccia e cominciò il periodo di soggiorno in paese.
Il rituale però rimaneva il solito. Dopo colazione, preparati i panini, c’era la partenza per la spiaggia percorrendo la pista ciclabile: solo qualche chilometro in più rispetto a prima.
Sembrava che quella consuetudine bicicletta-spiaggia-bicicletta non sarebbe finita mai.
Invece sono successe tante cose.
La mia vita ha smarrito le ruote.
Ero sola e mi sono persa tra dolore, mistero, trasformazione, passato, presente…
La magia di quella routine che si ripeteva anno dopo anno si è interrotta e dopo una brutta caduta con tutte le conseguenze del caso la bicicletta finisce in garage.
Incomincia la trafila degli appuntamenti per la riabilitazione.
Prendo il vizio di stare in casa.
Mi rincoglionisco davanti alla televisione.
Non cammino più: le gambe non funzionano.
A lungo andare la spina dorsale è tutta sconnessa.
La mattina mi alzo come una bestia: sono un animale in gabbia sempre più avvilita.
Il torpore mi pervade.
Ma le parole di Tina resuscitano la voglia di vivere.
“Perché no?” mi domando.
Penso: “No, non mi lascio andare”.
Dentro mi sento la stessa anche se il fuori invecchia inesorabile.
La vita scivola come un destino rotto: ma il sole sorge ancora e il tempo batte per me.
Una curva sinuosa abbraccia il gruppo di casine. Un nastro lucido che incornicia case piccine, vecchie, con piccoli tetti e pareti che scompaiono nel panorama. Il nastro incornicia come quello di raso fa con i regali. Luccica al sole ed anche alla luna, si fa tutt’ uno con la pioggia, notte nella notte.
È la divinità , l’ entità che c’ è sempre stata, c’ è e ci sarà, forse, per sempre. Non c’era discorso che non ne parlasse, né sera a veglia che non lo vedesse protagonista di storie, leggende, magie. Non è mai stato fiume, generico, lettera minuscola. Sempre Arno, presenza viva e possente, lettera maiuscola .
C’era chi da generazioni viveva con la sua rena, una sabbia meno sofisticata, più scura, di razza contadina. I renaioli conoscevano tutte le buche, tutte le trappole, tutti gli inganni delle correnti. Sapevano dove insegnare a nuotare ai bambini, in sicurezza. Tante volte ho sentito la nonna raccontare di quando Fortuna mise in acqua il mio piccolissimo babbo, nel fondo della Massa. Fortuna ed il fratello Nandino, i renaioli, erano loro stessi personaggi mitologici. Avevano pelle scurissima e quasi a scaglie, simile a quella dei pesci, ed un odore d’ Arno che era profumo di quell’ acqua e solo di quella . Un misto di odore d’ acqua, erba, fango, schiuma di pescaia, che non ho sentito né a Firenze, né a Pontassieve, era solo lì. Era il profumo del mio babbo.
Lui e l’ Arno erano una cosa sola. Fin da piccino era stato con i renaioli. Forse per attitudine, in ogni generazione avevano dei giovani a cui trasmettere il fiume. Uno fu di certo il mio babbo, uno Gigi, che da poco spero stia di nuovo pescando con il babbo. E loro trasmisero a Paolino. Erano sempre lì, piedi nell’ acqua e canna da pesca appoggiata al fianco. Il babbo andava tutti i giorni, dopo pranzo, un paio d’ ore. I pescatori si vedevano da lontano, silenziose sentinelle di acque dolci . I pesci, alla fine, non interessavano a nessuno. Il babbo portava a casa quelli bellissimi, e quelli che i vicini mangiavano volentieri I piu’ belli erano ricoperti di scaglie colorate. D’ oro sulla pancia, grigie, blu e verdi sul dorso . Li portava vivi e si andavano a liberare in processioni di bambini Vederli guizzare e sparire, tra lampi di sole, era un’ emozione grande. Avevano labbra umane, per il resto facevano capire l’ appartenenza ad un mondo altro, di cui erano padroni . Il babbo era rispettoso, li amava davvero. Del resto, lui quell’ acqua c’è l’ aveva nelle vene e lo attraversava, perlomeno fino a quando il posto dell’ acqua l’ ha preso il vino, e da allora in poi niente è piu’ stato lo stesso .
Paolo, fino da ragazzino aveva un sasso su cui sedere, in pescaia. Sempre il solito, un grigio sasso schiacciato sul quale si poteva stare anche in piedi, ed anche in due Ci si poteva scrivere, con i sassi rossi. Ci si trovava lì. Ci penso solo ora, nel mio amore un posto l ha avuto anche il sasso, l’ Arno di sicuro. Fin da bambino Paolo passava le giornate sul fiume e la sua mamma passava le ore sgolandosi a chiamarlo dalla finestra, inutilmente. Tornava solo al tramonto. Allora l’ unico pericolo era cadere in acqua, bastava stare attenti . Anche adesso, per noi le passeggiate finiscono sempre in pescaia, ed il tramonto che si moltiplica sull acqua ci emoziona come sempre.
Da un bel pezzo la zona è tutta recintata per grossi lavori di manutenzione. Quando sono cominciati sono stata malissimo, certa che nulla sarà piu’ come prima . Anche ieri Paolo mi ha detto che non si riconosce piu’ nulla. Il sasso non c’è più. Un gran dolore . Ogni volta che scompare qualcosa che ci vide ragazzi, che vide i miei genitori giovani, posti dove anche loro avevano camminato, riso, amato, mi sembra muoiano un altro po’.
Ho delle foto di loro lì . Non ho foto di loro da “grandi”, come se volesse dire qualcosa
Sono ritratti mentre si bagnano, mentre sono seduti sulla rena all’ ombra del muro, mentre lui mette in mostra tutte le costole spingendo la stanga della barca del renaiolo. Lei fa il bagno e non sapeva nuotare. Si fidava di lui e dell’ Arno . Erano bellissimi e molto felici. Una consolazione.
Forse qualche goccia di quelle che li hanno cullati potrebbe essere rimasta incastrata sotto i sassi, o tra le foglie tremuli di piante acquatiche.
Quelle acque scorrevano quando si sono amati loro, quando ci siamo amati noi, quando sono nata, il giorno che il babbo si voleva buttare. Scappò di corsa quando le mie manine gli sfuggirono ed invece di una capriola, feci una sonora caduta di testa. Lo rincorsero, lo chiamarono, urlarono che non era successo nulla. Da quando me lo raccontarono, ogni volta che mi rimproverava, dicevo che se ero grulla era perché mi aveva fatto picchiare la testa lui. Si rideva, mi accarezzava
Era bellissima anche la passeggiata per arrivarci, in quel punto dell’ Arno. Si attraversava un rigoglioso campo pieno di ogni specie di albero da frutto e poi, quando già si vedeva il fiume, si camminava sulla viottola attraverso un campo di grano che a primavera vibrava di verde e lasciava occhieggiare il rosso di migliaia di tulipani . Fiori di campi, gambi fini e petali fragili, bellezza gratuita che rimane negli occhi
Poi, la spiaggia di rena a ridosso del muro massiccio ad argine dell’ acqua e le acacie che ballavano al ritmo del vento, spargendo profumo e fiori bianchi a grappoli, nella stagione nella quale si vestivano con il bianco vestito buono.
Non c’è più il muro, non c’è piu’ la spiaggetta e nemmeno le acacie . Non ci sono più le vecchie pietre della pescaia. Tutto cemento, temo
C’è l’ acqua. Quella che non è mai la stessa. Quella che porta via .
Il piccolo agglomerato di case apparve all’improvviso dietro alla collina all’uomo che stava camminando nella campagna solitaria.
Lui si avvicino ’ affrettando i passi. incuriosito. anche perché sulla carta che aveva con se’ non trovava traccia di quelle costruzioni. Arrivato si accorse che le case. alcune piccole ed altre piu’ grandi costituivano quasi un anello intorno ad una piazza lastricata . La piazza era deserta e silenziosa . Si mise a sedere su un muricciolo e, come con un periscopio guardo’ la cortina di facciate ad anello notando che c’erano solo due aperture per accedere alla piazza; da una era entrato lui e l’altra opposta diametralmente, piu’ piccola, dava sulla campagna dietro che proseguiva; ad un tratto avverti’ un rumore di passi che si avvicinava dalla parte del secondo varco; cosi’ dopo poco apparve un vecchio (non che lui fosse giovane peraltro ma quello era piu’ anziano di lui) che, vistolo, lo saluto’ con un cenno del capo e apri’ l’uscio della casa piu’ modesta . Entro’ e lo senti’ mormorare “finalmente a casa “. Poi fu di nuovo silenzio …. e l’uomo continuo’, seduto, ad ispezionare quelle case che gli parevano avere un’impronta familiare. Piano piano, appoggiato ad una pietra che gli faceva da schienale, in quella piazza si lascio’ afferrare dal sonno e con il sonno arrivo’ un sogno strano che aveva come sfondo sfuocato il luogo dove era e davanti allo sfondo passavano scene della sua vita reale, gli pareva, ma che veniva ripercorsa ed alimentata dalla piazza . … cosi’ vide se stesso aprire la porta della prima casa e si accorse che dentro ancora non c’era lui . . era nel grembo di sua madre …
1. Quel febbraio del 48 a Firenze faceva freddo e c’era la neve; sua madre era venuta dal paese nel pistoiese, per sicurezza, a stare in casa da una parente in città in attesa del parto. Sicurezza sì ma occorre anche fortuna; sì perché appena qualche giorno prima del parto era stata fissata in casa una visita di controllo di un professore medico . Appuntamento fissato, come ritrovo angolo di una piazza vicina alla casa; suo babbo con la Topolino ando’ a prelevarlo al posto stabilito mentre nevicava . ” E’ lei il professore?” aprendo lo sportello “si sono Io”; salito dentro l’auto il tempo di arrivare quasi a casa due parole del babbo sulla visita medica “medica? mai non sono un medico sono professore di lettere!”; un po’ di panico. Il letterato rilasciato sul luogo dell’ appuntamento e preso il professore vero. Dopo pochi giorni, finito il tempo, la nascita era andata bene a parte la “pera”, per dire il gonfiore della testa su un lato a causa del forcipe che aveva troppo premuto sulla testa, formando quel gonfiore spropositato asimmetrico …; per fortuna come tutta la frutta dopo un po’ la pera maturo’ e si sgonfio’ !
Quindi quella casa fu abitata credo al massimo un mese. Ma non dimenticata. Quando l’uomo passa ancora oggi da quella piazza di Firenze guarda spesso la finestra della casa; l’effetto che prova è come risalire alla sorgente di un fiume che scorre sempre.
… per quello strano sovrapporsi dei due fondali nel sogno l’uomo si vide aprire nella piazza un’altra porta della casa piu’ grande di tutte; vi era entrato infante di un mese circa …ne sarebbe uscito dopo 16 anni.
Entro’ ed un insieme di sensazioni, odori richiamarono alla sua mente ricordi.
2. In una stanza al piano primo c’era un signore in camice alto ed autoritario nei modi ed una assistente in camice armeggiava con qualcosa in una vaschetta di metallo; a cinque anni gli fecero aprire la bocca, fu tenuto fermo a sedere e con uno strumento strapparono le 2 tonsille . . si ricordo’ dell’urlo strozzato di dolore. del sapore del sangue e poi dopo nel letto a mangiare un gelato dietro l’altro ! la medicina era molto piu’ piacevole della operazione.
Al piano terra, sopra una porta vide una scritta conosciuta bene allora: “Farmacia” entro’ e riconobbe l’odore caratteristico un misto di medicinali, di aromi speziati, di caramelle che era inconfondibile. Farmacia unica del paese, dentro la casa. Era cosi’. Si rivide nelle corse a rubare caramelle d’orzo e di menta (le valda) dai vasi nelle vetrine. Nella stanza dei preparati a curiosare scoprendo che esistevano delle supposte enormi nere che venivano fatte proprio lì dal pratico di farmacia e le domande, senza risposta, a chi potevano servire? (erano supposte vaginali !). E i vasi con le sanguisughe che venivano applicate sulla pelle ed altri medicinali fatti in casa o meglio in farmacia di casa.
Nel retrofarmacia vide una poltrona occupata dal pratico di farmacia e 3 bambini (lui e 2 cuginette) arrampicati sopra che dicevano un numero di novella sempre diverso. E il signore pelato tirava fuori storie incredibili, corrispondenti al numero chiesto. Le storie duravano anche un’ora e portavano in giro in mondi meravigliosi a cavallo della fantasia.
Un suono di campanello prolungato . . ecco era di ora pranzo e tutti arrivano a quel tavolo molto grande: due famiglie: i nonni, il personale della farmacia (la zia farmacista e anche i pratici talvolta). Ridarella dei bambini: lui e le due cugine coetanee che scalciavano sotto il tavolo rimproverati dallo zio burbero. Ecco un’altra stanza ripostiglio con le pareti annerite . . sì i ragazzi riuscirono con una candela a dare fuoco alla stanza; bello il fuoco,…. poi urla, acqua a secchi, scivolone di una signora e rottura di una gamba, scappellotti che volavano e altre divieti per punizione per diversi giorni .
A piano terra ritrova la vecchia porta con i paletti di sicurezza che conduce al giardino da una parte e la scala che va alle cantine; la apre verso il giardino ed all’improvviso si fa notte. Notte calda d’estate con un grande tavolo di pietra rotondo, illuminato da una sola lampada con grandi e piccini a mangiare asparagi, tanti asparagi tutte le sere ( verdura a produzione continua dell’orto di casa) e cocomero fresco tirato su con il cestino dal pozzo. Tavolo illuminato e tutto intorno lucciole nel buio. Tavola completa di racconti del giorno; anche il cane tra i piedi in convalescenza della grande craniata presa a correte sotto l’altalena .
L’uomo affronta il buio del giardino e intravede il viale dove di giorno giocava a palla con un amico (poi divenuto prete e sempre amico ) ed il muro che serviva da compagno di pallone per lunghe partite in solitario. Dopo mezz’ora di queste partite. anche dopo mangiato, si doveva fermare e rimangiare qualcosa per non svenire.
Ancora su nelle stanze le camere di tutti compresa la nonna da parte di madre che prima della buonanotte quasi tutte le sere distribuiva da un vaso sotto chiave le chicche per i bambini che erano stati buoni…
La piazza nel frattempo si era animata come piazza di paese. Lui usci e ritrovo’ il gelataio che con 10 lire vendeva un biscotto con il gelato dentro: il pasticciere che che per 50 lire sfornava bignè alla crema enormi. Il suono dell’arrotino che passava e quello del venditore dei cenci, il lattaio in bicicletta con la misura del latte, gli amici per giocare a palline di vetro e a correre con i carretti di legno……
Dopo poco tempo, nel sogno, la casa che pulsava di vita ed era da essa illuminata . perse suoni e colori . .
La farmacia trasferita per una nuova nel centro del paese, le due famiglie divise, i nonni partiti. Anche la piazza pareva assopita; quando rientrava in casa le stanze vuote risuonavano dei passi, il tavolo grande silenzioso e solitario, nessun suono di campanello. Il tutto pareva grande ma ormai inutile .
Era il momento di chiudere la porta per sempre e passando sulla piazza di aprire altre porte ora che ormai era giovane fatto . Aprì la porta della terza casa
3. Subito nell’ingresso si capiva che l’aria era diversa; una villetta su 2 piani alla fine della città delle terme sempre nel pistoiese, con di fronte campi coltivati . Per l’uomo erano i tempi del liceo: veniva da un paese, passando ad una cittadina termale fiorita e curata; tante nuove attrattive: cinema, locali, corse dei cavalli …ed un modo di vivere la piazza meno paesano, con necessità di farsi nuovi amici. Erano gli anni del liceo e la famiglia ora era ridotta a 4 persone, con sua sorella che cresceva e diventava ragazza con cui discutere come fratello maggiore. Discussioni ed un po’ di contestazione fraterna e di conseguenza anche con il babbo. Poi per il genitore un periodo di sofferenza fisica per una operazione dolorosa con esito per fortuna buono . . Quel genitore che si vedeva in quella casa era diverso per la prima volta; passando da persona energica a fragile e sofferente. Nel letto della casa di cura all’uomo, ancora ragazzo, pareva di dover raccogliere il testimone di capofamiglia . Per fortuna, per diversi anni a venire, non fu cosi’.
L’uomo si chiuse la porta alle spalle ed usci . Si guardo’ intorno nella piazza e trovò quello che cercava: la casa piu’ alta di tutte. Apri’ la porta e subito sentì sul volto uno spiffero
4. Eccola la casa ventosa: al quinto e ultimo piano di un palazzo recente. La nuova casa aveva una terrazza che girava tutto intorno dalla quale si vedeva il panorama della stessa città termale . Nel soggiorno grandi vetrate lasciano passare nelle giornate di vento filetti di aria tipo la grotte del vento sulle Apuane; stessa città termale, stesse amicizie del liceo classico. Nuova invece la passione per la moto arancione ducati scrambler 250 cc. e non molto tempo dopo la conoscenza con altra ragazza che avrebbe poi fatto parte della sua permanenza futura nella piazza. Esperienza vissuta in solitaria la notte memorabile osservata dal Messico: Italia Germania 4-3 nel giugno del 70 con claxon finali, caroselli e bandiere per l’Italia in festa. Da questa casa la partenza estiva per la Sardegna e la conoscenza conseguente della ragazza di cui sopra. La casa ha visto l’impegno finale per la tesi con la camera piccola resa quasi impraticabile dal tecnigrafo giallo a contrappeso . E’ durata non tanto qui la permanenza. Comunque l’uomo entrato qui studente è uscito laureato e da ultimo anche militare in licenza .
5. Per completare il mezzo giro della piazza gli restava l’ultima casa che a prima vista sembrava simile alle altre già visitate ma c’era qualcosa che non gli tornava Comunque si decise ed apri’ la porta; allora comprese. Il muro sulla piazza era solo una facciata. Entrato riconobbe la casa piazzata dietro un cancello in salita con vialetto: casa proporzionata, non enorme, ma completa di giardino e di cane lupo . Casa nuova fatta fare dal babbo ed abitata da loro 2 con la sorella fuori regione per gli studi . Qui l’uomo porto’ per la prima volta la sua ragazza a conoscere i genitori . da qui una mattina di giugno fece lavare la macchina ed ritorno’ a Firenze a sposarsi in una serata bella d’estate dove festeggiarono con le lucciole sulla citta’ e dove la sposa a fine serata sporco’ un poco il bel giardino con conati di vomito per il fresco o l’emozione .
In questa casa la piazza, cioè la vita, ha portato come al solito cose belle e meno belle … la venuta del primo nipote beniamino del nonno e la malattia dello stesso che presto, ancora abbastanza giovane, ha lasciato la famiglia ; in un cassetto della camera ha fatto trovare uno scritto . . poche parole . . aveva capito tutto del suo male e ha indicato su carta le cose alle quali, secondo lui, era necessario dare priorità per rendere la vita degna di essere vissuta . Ha anche lasciato all’uomo per sempre il rimorso di non essergli stato vicino come avrebbe dovuto . Sperando che la storia non continui …
Completato il mezzo giro della piazza e saltata quella piccola dove era entrato il vecchio, restavano le altre 3 case.
6. Entrato nella prima di questo lato capi’ dove si trovava: non era casa dell’uomo ma si direbbe oggi per lui un bed e brekfast gratuito dato dalla abitazione dei suoi suoceri; subito si senti’ a suo agio in queste stanze anche se piene di confusione, di persone anche giovani (figli ed amici) che gravitavano intorno come famiglia della sua ragazza e poi sposa.; la sua suocera ospito’ per quasi un anno durante le settimane di lavoro a Firenze l’uomo con l’attenzione e l’affetto che avrebbe avuto per un figlio; lì si respirava l’aria di gente operosa di un paese nella cintura di Firenze, pragmatico, terragno e pieno di iniziativa; il paese dei telai nelle case e della pecora a tavola a (per la verità quasi mai mangiata). Tutti lavoravano lì, chi studiava, chi insegnava, la suocera ostetrica, il suocero uomo geniale in pensione. La sera anche in quella casa belle tavolate a gustare la cucina romagnola e toscana . Venendo dalla città termale turistica ed elegante il passaggio con il paesone alle porte di Firenze era notevole; l’uomo comunque si adatto’ molto bene a questa mentalità, forse a lui piu’ consona .
L’uomo varco’ l’uscita del muro di cortina e si ritrovo’ nella piazza affollata di persone diverse come diverse erano state le ultime conoscenze di quella casa
In particolare uno zio adulto che ebbe il coraggio di venire con lui e la famiglia (2 auto) in un viaggio di 11000 Km in auto fino a Capo Nord e ritorno a Campi Bisenzio in 21 giorni .
Restavano da aprire altre 2 porte di altrettante case
7. La prima che riguardava una piccola costruzione lo fece entrare direttamente in uno stretto corridoio; era a Firenze e subito odore di chiuso e freddo; sì la casa del freddo . Entrati in due presto diventati in 3 con l’arrivo del primo figlio . Tutto bene a parte la temperatura di 3 inverni senza riscaldamento a causa di ripicche dei padroni di casa che per avere chiesto l’ adeguamento all’equo canone come dovuto chiusero il riscaldamento: il freddo, girando per le tre stanze, assali’ l’uomo e rivide le mattine con i ghiaccioli in cucina e con i fornelli accesi in aiuto alla stufa catalitica; il bimbo con bronchite e asma. Nonostante tutto bella la vita da freschi sposi che tessevano la tela della conoscenza reciproca; in 2 insieme ma ognuno da solo a fare anche altro.
Nuova uscita in piazza nella quale si aggiungevano altre persone. Ultima entrata in una casa
8. Quella aveva da fuori un aspetto famigliare. All’interno immagini e prospettive definite e nitide . . era ed è la casa attuale, casa a piano terra; le mura hanno visto una vita vissuta prima in 3 poi in 4 ed poi ora in 2, con i figli fuori casa di cui una lontana in Francia; da qualche anno per qualche giorno a settimana la casa si anima con 2- 3 nipoti, linfa giovane che fa ringiovanire. . pero’ lo specchio passando la mattina ed anche durante il giorno rimanda immagini improvvise di 2 anziani che si aggirano per casa.
L’uomo veleggia con passo certo nelle stanze e dalle finestre non vede piu’ la piazza ma la prospettiva del giardino; una sola cosa non gli torna: nel ripostiglio senza finestre vede una porta in piu’ sul fondo, alla quale, non sa perché, non riesce ad avvicinarsi mentre una sensazione di pericolo e di malessere lo blocca .
Decide quindi di uscire dalla entrata ed ecco riappare la piazza che gli infonde sicurezza ….
Una volta fuori un attimo e vede avvicinarsi il vecchio che lo aveva salutato all’inizio “ ha fatto buoni pensieri signore ?“ gli domanda il vecchio
“ strani “ risponde l’uomo “strani e farciti di ricordi del passato “
“credo che abbia avuto paura nella ultima casa per quella porta. Non abbia paura. anzi meglio: un po’ di paura è normale averla ma non terrore; quando sarà il momento cerchi di aprirla onestamente come spero abbia vissuto e la apra anche se non si sa cosa si trova fuori . . ”
E si allontano’ di buon passo come era arrivato .
L’uomo subito dopo si sveglio’ disorientato; si guardo’ intorno e non vide piu’ nulla ne’ le case, ne’ la piazza, solo campagna a perdita d’occhio. Allora ritrovata la carta, cerco’ la direzione per tornare verso casa e s’incammino’. Mentre tornava un pensiero: arrivato a casa, senza farsi notare, avrebbe cercato nel ripostiglio se c’era la seconda porta . Non si sa mai cosa ci riservano le case .
Ho voglia di salire ancora una volta sul treno e pensare a una mia storia che è quasi un segreto Mi piace ricordare i momenti in cui ho avuto coraggio I momenti in cui ho detto “me ne vado” devo realizzare un desiderio, non un sogno, un desiderio All’età di sedici anni stavo con un ragazzo biondo, occhi azzurri Non era bellissimo Era straordinariamente simpatico Credo di non essere mai stata innamorata di lui ma sicuramente è il ragazzo che mi ha fatto più ridere In quel periodo era la cosa di cui avevo più bisogno Era leggero e gentile, positivo e sorridente Con lui mi sono lasciata andare a mille scoperte del mio e del suo corpo Era facile, era semplice, mi sentivo al riparo da ogni giudizio Forse anche lui non era veramente innamorato di me, io sicuramente non lo ero Era bellissimo stare con lui Non abbiamo mai fatto l’amore Aveva un motorino azzurro cielo con il quale veniva a prendermi all’uscita da scuola Un battito d’ali, un volo e via Tutti i giardini di Firenze ci hanno visti insieme Così passo’ quasi un anno …poi “Ciao Lucia, devo andare, la mia famiglia si trasferisce, tornerò a prenderti con una due cavalli a fiori” Passarono gli anni e nuovi incontri ma non vidi mai una due cavalli fiorita Fu così che decisi Un treno mi portò da lui attraversando più di mezza Italia Non ricordo parole ma solo una stanza bianca e vuota al centro della città vecchia Non avevamo bisogno di altro Ripartii dopo poche ore ripercorrendo da sud a nord l’Italia L’incompiuto era compiuto Lui è mio amico da più di mezzo secolo.
Un amico me lo presentò un giorno d’autunno
Capelli lisci fino alle spalle
Un volto particolare
Non assomigliava a nessuno
A Firenze dalla Svizzera con la sua moto nera un po’ vintage
Era qui di passaggio
Il tempo per una silenziosa passeggiata
Camminammo nei campi tra le viti e gli olivi
Gli mostrai il mio mondo, la mia vita, il mio spazio
Senza parole gli dissi chi ero e da dove venivo
Sentivo che le parole non avevano senso e che ben altri modi di comunicare ci univano
Un gennaio qualunque, un po’ pioveva, un po’ no, ventate gelide cercavano di infilarsi tra vetro e legno, infissi sconnessi, in quella casa….ero nata lì, vivevo lì, da un innumerevole tempo di giorni.
Il riscaldamento, spento o quasi, freddo sì avevo freddo, nascondevo le mani nella manica sbrendolate di un golf informe, la tazza di caffelatte sul tavolo mi confortava, pur non risolvendo. Dopo il mio “ piccolo incidente” il medico mi aveva dato solo tre giorni di malattia, vigliacco lui, stupida io.
La vecchia poltrona Frau, mi proteggeva accogliendomi, eravamo simili, lei ed io, sbucciate, graffiate! Leggevo, un qualcosa che non ricordo… troppo ieri per la mia mente di oggi, la radio gracchiava canzoni, ripensandoci meglio, vedo l’immagine di una me che poco ricordo, o non voglio ricordare so per certo che non sempre mi piacevo, altalenante come ero, tra esserci e sparire mi sentivo poco intelligente, poco intraprendente….poco di poco, vivevo nel passato/babbo, mal sopportando un presente/mamma.
Lui così “me” da farmi credere morta con lui…lei così: sempre forte, sempre sorridente, sempre tragicamente da un’ altra parte, gareggiavamo a farcela, guerra dura, mai vinto una battaglia… io…lei era piena di medaglie al valore. ..
Generale sopra la collina….
Nessuno suonò, ma nel silenzio avvertii un graffiare, la porta di casa sembrava preda, vecchio portone, di carezze forti, piccoli colpi, struscìo di mani…forse solo il vento, oppure il nulla. Immaginazione, allucinazione?
Tutto questo vi sembrerà uno strano cappello, forse un basco pesante, è, invece, un colbacco , per proteggermi dal freddo dalla lunga descrizione del nulla o quasi, ma come non “ fotografare” il luogo, lo stato d’ animo di un attimo lungo, di un sogno, di una realtà apparente, di una verità ingigantita dall’ amore per chi tragicamente mi ha lasciata, un giorno, senza un perché…..spiegarmi allora che certe malattie sono inesorabili, era stato impossibile.
Più mi avvicinavo, più il rumore si faceva insistente, accompagnato da un leggero ansimare, un respirare forte.
Diffidente, spiai, dalla finestrella del ripostiglio che dava sulle scale: guardare senza esser visti, già…
Quanti strani nascondigli aveva quella casa, quanti metri di corridoio dividevano la solitudine, dallo stare insieme, il fischio del treno, dal silenzio del giardino….
Cercai di aggiustarmi fuori, dentro avevo il cuore al posto dello stomaco, i polmoni non avevano più ragione di essere tali… dopo l’ospedale era arrivato il premio.!!! Sapendolo ci avrei provato prima.
Il babbo, il mio babbo, era tornato da un posto sconosciuto che forse non c’ è , era tornato da me, solo per me.
Aprii:
era alto, era bello, forse un po’ più magro, meno abbronzato, il sole aveva ceduto il passo alla luna, era stato, credo troppo al buio, i capelli cenere più bianchi sulle tempie lo identificavano come una me di oggi.
Ci prendemmo per mano…riconoscendoci dall’odore, dal sapore dello sguardo, dai profumi conosciuti per sempre in anni migliori, diversi, unici irripetibili
Smise di piovere e forse non aveva mai piovuto…e lo avevo dimenticato, un sole bianco ci accompagnò lungo l’ andito…eravamo magicamente insieme.
La poltrona ci accolse stretti: sentivo forte l’ odore di Turmac, mescolato al suo profumo di sempre, mi scoprii così felice, ubriaca di un amore, che così non l’ho vissuto mai.
Facemmo il gioco delle parole, mi sentivo bimba ..ed io, bimba non lo ero più da un pezzo. Continuammo un gioco interrotto anni prima, era bastato uno sguardo per iniziare la nostra buffa cantilena, la morte non ci aveva separati, anzi uniti ancora di più, fusi… per sempre…e…
Rosso
Sole
Luna
Cammino con la testa in su
Cadi!
Mi riprendi?
Acqua
Pesce piccolo
Balena blu
Nuvole…cerise
Non ci stancavamo mai del nostro strano dialogo, lo facevamo in macchina, tu guidavi cantando, io una voce così non l’ ho sentita più, era la tua voce per me, sapeva di : io ci sono.
Anche adesso che son molto grande, direi vecchia, nei momenti di rabbia, cerco una voce maschile, senza strappi come la tua, per lenire una ferita mai guarita, metto cerotti che al primo urto, si staccano, il sangue esce, sempre meno rosso, sempre più copioso.
Non ebbi il coraggio di chiederti da dove eri venuto, perché tu fossi riapparso , ero così felice, sicura che non fossi morto, la mamma aveva mentito, donna bugìosa, lui era magicamente con me! Quindi??
Volevo mettere alla prova la nostra memoria, corsi in cucina afferrai la grassa fetta di pane, avresti ricordato? Erano passati, 8…9 anni?
Sorrise, non rideva molto lui, sorridevamo insieme e solo di noi, di cose che gli altri non capivano parlavamo un’altra lingua. La nostra.
Prese il pane, separò la mollica dalla crosta e fu “incanto” come sempre: l’ isola morbida per me, la parte più dura per lui. Crosta e mollica: noi
Era tutto come sempre, le pesche gialle nel vino….le ricordammo ancora una volta. Detestavo il vino ma amavo te.
Strano non parlasti, tanto quel giorno, mi accarezzavi il capo, lentamente, quasi a voler fermare il tempo tra le dita, cercavi una treccia, che non c’era più…eppure io non l ‘ho tagliata mai.
Ma quante volte mi hai pettinata? Trecce fatte bene, le tue, mica quelle della mamma…
È quando mi accompagnasti a scuola e quella bamberucola scema mi domandò se eri il mio nonno…
L’ ho odiata, l’ odio ancora, ma forse è morta…e da tempo.
Preparai il caffè, una tazzina sola in due, macchiato freddo, vero babbo? Senza zucchero, sempre. Bevevo dove tu avevi bevuto, bocche poco pronunciate le nostre, il labbro superiore, poco evidente, uguali.
“Mi spiace non ho i nostri biscotti, quei wafer rotti che compravi a peso, con un sacchettino piccolo solo per me, da non dividere con gli altri”
Ma c’ erano gli altri, babbo?
Pensò ripenso, ho vissuto 10 anni solo con te, ti ho perso ed ora ritrovato, sei qui.
Sentivo il tempo che volava, un tempo breve, lo capivo, quel salotto chippendale mi avrebbe ritrovata sola…ferma il tempo, babbo, fermalo, fa qualcosa. Ti prego
Ma ti ricordi quando facevo finta di leggere, di scrivere? Tu ascoltavi decifrando i miei punti, le linee storte, che per me erano lettere. Sapevi leggere quello che non avevo scritto poi leggevo io ed anche quando ho imparato a farlo, l’ ho fatto male ma poco importava. Il mio con te era tempo bello, il tuo per me tempo poco.
A scuola, io, poco, conoscevo colori, piccoli bar, canzoni belle, chilometri di strada, campionari tavolozza
Quante ore in quel lettone magico, in quella stanza immensa, piena di non ordine, quel comodino pesante di medicine, quell’ odore perenne di tabacco buono, di schiuma da barba, di caffè, di te e di me, forse noi vivevamo li?
Il tuo stare male era intervallato dal nostro girovagare: Toscana un po’ nascosta di artigiani attenti, gente che cuciva, maestri di ago e filo, forbici d’oro.
Bemberg si bemberg …ridevo a quella parola, ridevano insieme, fodera seduttiva al tatto, mi abbagliava. BEMBERG , lo adoravo, ero affascinata dal bleu cangiante.
Per riportare tutto ad oggi, ripenso al silenzio, in quel freddo giorno di gennaio, nonostante il mio fiume in piena, di cose, parole, ricordi semplici, mai lacrime, solo quello stringersi di mani, che a tratti erano marmo, forti, a volte schiuma, più spesso miele….dolce da annusare.
Eri babbo, il mio.
Marito bello per lei!
Figlio premuroso per una donna cattiva
Padre sportivo per i miei fratelli!
Traduttore utile in una guerra lunga e cattiva, che non ho conosciuto, ma vissuta anche troppo.
Tornavo sempre più indietro con la memoria, in quel pomeriggio uggioso:
ed i sandalini pieni di sabbia? E la giardinetta un po’ marroncina? prima della 1100 grigia, in una Sorrento lontana , dimenticata forse, ma risento il rumore del mare, rivedo il secchiello, la paletta, le formine, tu con il costume nero, io rosso…di lana come gli anni 50 imponevano.
Se ti dovessi dare un colore, sarebbe il blu, dalle mille sfumature, dall’azzurro pallido, al cobalto, al manganese….blu le tue cravatte, azzurre le tue camicie, oro e bleu i tuoi gemelli, bleu notte le tue giacche di panno, bleu Prussia quella estiva, che in macchina toglievi perché si ciancicava, un’ altra delle parole che ci faceva ridere….cercavamo sinonimi…attenti piú alle risate, che alla parola.
..e quel segno dell’ orologio al polso sinistro, quando lo toglievi, mimavo io l’ora, con le braccia, tu capivi ed eri l’ unico…unico..
Ed ora? Ora ti vedo alzare lentamente dalla poltrona/cuccia rifugio, di un gennaio quasi inutile.!
Con una voce morbida e calda mi dici che devi, che devi rientrare, stupidamente mi domando dove…rendendoti la caramella di menta ciucciata, perché tu possa finirla, la chiamavamo la “mementa” succhiandola fino alla fine, un po’ io un po’ te, ci piaceva farlo davanti agli altri, per cercare di far capire che noi non eravamo due ma uno….
Ti allontani, non ti tolgo gli occhi di dosso, cerco di afferrarti, ma non ti raggiungo, in quel corridoio troppo largo troppo lungo! la porta è chiusa eppure sento passi scendere gradini, quei gradini di pietra serena grigio cenere che facevamo, due a due, in un’altra vita, corro alla finestra, nessuno per strada…
Forse ho sognato, forse ho sperato, forse sei tornato solo per poco, per farmi coraggio, con un’ ultima carezza che ti hanno impedito di darmi. Grazie per essere tornato a portarmela.
Ed anche oggi che è un febbraio qualunque…che fa un po’ freddo ed un po’ no, un po’ piove un po’ si, io ti aspetto, ti riconoscerò…..mi riconoscerai, tu sei me…. io te.
La casa della mia infanzia è stata quella dove ho vissuto fino a 15 anni, ma per la mamma era quella “del cuore” perchè lì aveva vissuto la “ sua gioventù”. Era stata costruita dal suo babbo e dal fratello , che purtroppo morì giovanissimo. In casa ne parlavano spesso di questo bel ragazzo con bei riccioli neri, sempre allegro e giocoso. Sembra che una volta in centro avesse trovato una zingara che gli avesse letto la mano, gli predisse che all’età di ventuno anni sarebbe morto. Con il suo modo scherzoso lo raccontò alla nonna, e naturalmente nessuno prese sul serio questa previsione…. ed invece fu proprio così. Per questo quando vedo gli zingari li evito e da sempre mi fanno paura. Era una villettina a tre piani, in tempo di guerra il nonno l’aveva circondata con sacchi di terra e, tutte le volte che gli aerei sganciavano le bombe, si rifugiavano nel sottosuolo sperando di sopravvivere. Quando poi tornava la calma momentanea, uscivano in giardino a vedere…. la casa anche quella volta per fortuna era rimasta in piedi.
Arrivò il momento che la mamma e la zia si dovevano sposare, fu divisa in tre appartamenti, è li che ho trascorso la mia infanzia.
Un’infanzia spensierata, nessuno ci portava ai giardini, macchine ne passavano poche e così in estate noi ragazzi si giocava fuori a nascondino, a campana a color color, giochi semplici ma l’importante era stare insieme. Il gioco preferito mattutino era dare noia al postino. Appena lo vedevo in lontananza andavo a chiedergli se aveva posta per me e, se non aveva niente, lo seguivo finchè non si allontanava troppo. Anche a scuola iniziai presto ad andare da sola perchè non era troppo lontano, anche se c’erano da attraversare due strade.
Gli inverni erano freddi, il riscaldamento non c’era, qualche stufa elettrica ma faceva poco. La sera ne approfittavo per andare nel lettone con il babbo, si mettevano i piedi sullo scaldino, lui mi diceva che ero la sua “stufina”. Spesso mi divertivo a fargli qualche dispettuccio, mi brontolava, ma si capiva che sotto sotto gli faceva piacere.
Un’estate arrivò anche una bella bicicletta rossa, e quella mi fece sentire l’odore della libertà. Nonostante le raccomandazioni di non allontanarsi da casa, in estate andavamo sull’Arno ai massi e facevamo le traversate da sponda a sponda e spesso succedeva che si cascava dentro e tornare a casa tutti bagnati voleva dire guadagnarsi una bella punizione.
All’età di quindici anni circa andai ad abitare in una casa con tutti i confort riscaldamento, acqua calda dal rubinetto, camerina tutta per me, ma il mio cuore era sempre nell’altra casa. Lì avevo lasciato le mie amicizie e ricordo ancora quando, tornando da scuola, trovai la casa vuota, andai in terrazza ed iniziarono a cadere le lacrime e non riuscivo a fermarle, mi vergognavo della mia fragilità.
Quello per me fu uno dei primi dispiaceri. Con il passare del tempo trovai nuove amicizie, ma non ho mai abbandonato le altre, ho continuato ad andarci per molti anni.
E’ stata una casa di passaggio, ma non per questo meno importante, perchè lì ho lasciato i miei genitori quando ho avuto la mia casa e lì hanno finito i loro giorni.
Nella mia casa ci sono i ricordi della mia famiglia. E’ un appartamento luminoso, comodo e spazioso, arredata come ci piaceva e ci siamo stati bene, purtroppo per poco tempo. Ricordo il giorno che tornammo a casa dall’ospedale con quel fagottino, con tanti dubbi e paure di non essere all’altezza di fare i genitori. Tutte le sere prima di metterla a letto si inventava qualche gioco ed era bello sentire la sua vocina, le sue risate e si dimenticava anche la stanchezza di tutta la giornata. Tutti i traguardi di crescita li ha fatti qui. Le belle serate trascorse in compagnia di amici con musica, cibo, vino e tanta allegria. Poi qualcosa si è rotto ed è arrivato il buio completo, la disperazione, la paura. . Mi sentivo abbandonata e sola, ma non potevo mollare tutto e tutti, quindi mi sono fatta coraggio e a tentoni sono andata avanti. Non è stato facile non potersi confrontare con qualcuno che aveva le mie stesse priorità, ed anche le cose positive di questi anni non sono state vissute come dovevano perché quando manca qualcuno di importante ogni evento rimane sottotono.
Neva, Iolanda, Candida, Dilia, Manola, sembrano i nomi delle protagoniste di Liala e invece sono alcune mie zie che mi tenevano il pomeriggio a turno perché la mamma era sempre in quella benedetta bottega. Io stavo con loro buona buona, un po’ per non “dare noia” un po’ per non far fare brutta figura alla mamma. Già…i doveri…fin da allora cominciavo a metterli nelle tasche come sassolini che nel tempo hanno finito per pesare parecchio. Ma allora non lo sapevo, semplicemente li respiravo. Zitta zitta giocavo da sola con fili e bottoni dalla zia Marcella, sarta da uomo in casa, o vestivo da principessa una bambolina dalla zia Marisa, camiciaia, che mi regalava scampolini di scarti. Dalla zia Ernestina invece intrecciavo fili da ricamo di tanti colori mentre lei si finiva gli occhi su camicie e corredi altrui. Forse viene da quei pomeriggi la mia propensione ad ascoltare anziché a parlare, quel cercare di sparire che troppe volte mi ha resa incolore. E intanto le zie mi parlavano, quasi tra sé e sé, ma io ricordo solo delle frasi, spezzoni di discorsi: “studia, mi raccomando studia, così nessuno ti potrà infruscolare la testa”, “innamorati, ma mai di una divisa perché l’uomo che c’è dentro lo scopri dopo”, “viaggia piccina, vai a vedere le cose belle che dentro quattro mura non ci possono stare”. Inconsapevolmente mi raccontavate i vostri desideri frustrati, le aspettative deluse, le speranze disattese: mi volevate mettere in guardia e se non ci siete riuscite del tutto è perché nessuno può farlo ma a volte le vostre aspirazioni schiacciate e poi dimenticate mi hanno dato una spinta propulsiva. Poi sono cresciuta, non avevo più bisogno, anzi le superiori gli amici il motorino mi spingevano via a mordere la vita, verso il futuro. Care zie, avrei dovuto scrivere di me e invece ho un po’ raccontato di voi, ma è inevitabile perché gli strati di cui sono fatta hanno anche i vostri colori e se non mi riesce bene definirmi è perché tutte le mie sfaccettature riflettono anche le vostre luci. Vi penso con tenerezza e credo che sia grazie a voi che ho un’alta opinione delle donne, tutte, per questo mi arrabbio tanto quando siamo in competizione fra noi anziché essere solidali. Ziette care, forse un giorno proverò a scrivere la vostra storia, di ognuna la sua, perché non trovo altro mezzo per dirvi grazie che raccontarvi.
Genova per noi, uno spicchio di luna adagiato sul mare.
Genova per noi, la fine di un viaggio che, quando ero bambina, durava una intera giornata. L’autostrada finiva alle Bocche di Magra e allora su, curva dopo curva, costretti ad inerpicarci fino al Passo del Bracco. Curve a esse, strette e insidiose che non ci abbandonavano nemmeno nella discesa verso Sestri Levante. Con un camion davanti, il viaggio diventava una vera Odissea!
Genova la assaporavi prima di arrivarci, passando lungo il mare. Finalmente, lassu’ il Righi e i Forti e te la ritrovavi davanti, attorno, sopra, sotto, dietro. Ovunque, stretta fra monti dai pendii scoscesi e il mare azzurro. Una visione.
Ci resto ancora male quando qualcuno la bolla con un lapidario “è brutta”. Ma posso capire, bisogna entrarci nelle pieghe di una città così.
Non fermarsi alla prima impressione. Occorre viverla anche per pochi giorni girando nei luoghi che le hanno valso l’appellativo di Superba. Miseria e nobiltà la attraversano e la segnano, ma il suo “Superba” lo veste con orgoglio da secoli. Superba ma non scontrosa se sai toccare i tasti che valgono e scoprire gli angoli giusti. O se hai avuto la fortuna di poterla osservare seguendo le leggi del cuore e degli affetti, nello scorrere del tempo che ha accompagnato il mio viaggio fino a quella che sono adesso.
Genova per me, le vacanze lunghe passate a casa dei parenti, cibi e profumi diversi da quelli che abitualmente la nonna cucinava a casa, a Firenze a segnare quella linea fra unita’ e diversita’ che attraversa questo paese bello, ricco e un po’ dannato!
Genova per me quella del Porto Vecchio da cui partivano i “Vapori” prima delle immense navi da crociera di oggi, quella delle piccole trattorie e delle mescite di vino verso cui si affrettavano i marinai, quella dei vicoli “I Caruggi”, delle puttane cantate da De André che potevi vedere lungo tutta via Pré anche di pomeriggio.
Una sequenza di donne truccatissime e scollacciate. eccessivamente ammiccanti, con spacchi fin troppo generosi da cui talvolta si intravedevano calze smagliate. In piedi vicino
a porte scortecciate palese invito ad una lussuria stracciona e frettolosa, da pochi sghei. Stavano lì, in attesa spesso di chi non sarebbe venuto. I papponi erano riconoscibili per come le tenevano d’occhio dai bar poco distanti. La Genova dei grandi cantautori, in una stagione di parole bellissime che sapevano di poesia, ha saputo raccontare anche loro. Con grande umanità e senza censure bigotte.
Bocca di Rosa una vera opera d’arte per musica e versi. e una bandiera contro le ipocrisie di bacchettoni e benpensanti.
Genova dalle belle colline e dai palazzi abitati dai ricchi storici, quelli che la città la guardavano da sopra in giù, ritirati in strade secondarie, pressoché private per non subire l’aggressività e i rumori del traffico che passava lontano quanto basta per non disturbarli.
La zia di mia mamma, Rosetta, faceva la portinaia in uno di questi palazzoni ottocenteschi. Nomi illustri sui campanelli. Ma io, bambina, ero attratta solo dalla targhetta dorata col nome Dufour inciso sopra. Non tanto per loro che non ho visto mai, ma per le loro caramelle, gommose e non. Guardando la targhetta al portone, mi sembrava di sentire lo sfrigolio di quelle cartine lucide e colorate miste al profumo di caramella. Il pensiero andava a quel loro cuore molle e dolcissimo e l’acquolina in bocca era assicurata.
Quei palazzi li ho potuti osservare da sotto in su. Non sono mai salita ai piani alti, quelli degli appartamenti con vista mare sempre inondati di sole e di gran luce anche nelle giornate grige.
Nella casa degli zii la luce era quella delle lampade accese tutto il giorno . Il sole non ce la faceva a scendere i 6 piani per arrivare fino a lì.
Genova e la sua Lanterna, i suoi Forti a protezione costruiti su arditi pendii, i suoi abitanti, i suoi lavoratori.
La Genova dei miei ricordi è la storia della sua operosità. le grandi fabbriche come la San Giorgio che produceva elettrodomestici, l’Italsider, e i loro operai combattivi. Come lo erano i “Camalli” del porto. ,
Di poche parole ma di gran coraggio, maestria e capacità, la classe operaia genovese.
Uno degli zii, di mia mamma, lavorava come falegname sulle navi da crociera. Artista del legno si dedicava agli arredi interni. Non ha mai fatto una crociera in vita sua, ma cabine e tanto altro erano il prodotto della sua maestria. Era uso raccontare con gli occhi più che con le parole il bello che aveva prodotto col suo ingegno e con le sue mani.
Genova della Resistenza, quella che prese di sorpresa i tedeschi anticipando di due giorni al 23 aprile 1945, l’insurrezione e la battaglia finale contro l’oppressione nazifascista.
Genova Medaglia d’oro al valor militare che vide un generale come Meinhold costretto a firmare la resa e a consegnarla nelle mani di un operaio empolese, Remo Scappini, a capo del CLN a Genova.
Genova dei ragazzi con le magliette a righe del luglio del 1960 che tennero sottoscacco per giorni le forze di polizia. Non solo contro la possibilita’ di far tenere il congresso del Movimento sociale, ma per rompere il clima che si era creato e il tentativo di far rientrare in gioco a sostegno del governo il partito neofascista.
Genova della difesa della democrazia nel buio degli anni di piombo, quando con l’assassinio di Guido Rossa fu chiaro a tutti che chi sparava non erano “compagni che sbagliavano”, erano assassini che andavano fermati e messi in condizione di non nuocere. Genova composta, in un giorno cupo di pioggia e di lacrime, con la forza della ragione fu un punto di svolta. Non passeranno, grido’ muta allora. E non sono passati.
Genova del boom economico tradotto in edilizia sconsiderata. Case lavatrici, colline sventrate, occupazione esagerata del pochissimo suolo disponibile, gli alvei di fiumi, inesistenti per lo più, coperti per farci strade e giardini. Strisce di asfalto sotto e sopra le case e la citta’, l’intreccio delle autostrade a contorno che la segnano, la oltraggiano osando violare in molti punti l’intimità stessa delle abitazioni. Quasi ci si può vedere dentro :scorci di salotti, di camere da letto, di soffitti mentre corri verso Milano o Torino, o più in là verso la Francia .
Genova delle ville dei nuovi ricchi spesso cresciuti con lo sbrego urbanistico della città e lo sfascio delle colline.
Il quartiere di Albaro ne è pieno con i loro parchi, i loro giardini, i muri che ne celano la vista a chi passa per il lungo mare di Corso Italia. Al tempo della mia Genova da adolescente, era già, da quelle parti il tempo dei festini da rampolli della Genova bene spesso conditi da fumo, alcol e pure qualcosa di più, ma di qualità. Loro se lo potevano permettere.
In un assolato 21 luglio 2001 Genova fu quella del G 8, delle manifestazioni colorate e festose e delle provocazioni della polizia . Genova dell’assassinio di Carlo Giuliani, ragazzo. Genova della scuola Diaz e delle torture di Bolzaneto che costrinsero Amnesty a definire quelle giornate come “la più grave violazione della democrazia in un paese democratico”.
Per me che c’ero una ferita che c’è voluto tempo a rimarginare. Anche perché all’inizio la copertura mediatica aveva creato una distorsione dei fatti tali che chi era presente non veniva ascoltato come portatore di verità. Ci volle una lunga settimana prima che ciò che si era voluto nascondere venisse doverosamente a galla.
La mia Genova è un insieme di tessere di mosaico che sono scampoli di vita, di sentimenti, di grande amore.
L’ultimo ad affiorare in ordine di tempo, il ricordo della Genova delle Ville circondate dai grandi parchi aperti al pubblico. Villa Imperiale mi ha visto bambina. Ricca di fiori dai colori sgargianti e di una vegetazione rigogliosa in ogni stagione, con piante che spesso avevano fatto il giro del mondo per arrivare fin lì da paesi lontanissimi.
C’è voluta Istanbul e un angolo di vero paradiso come Ilahmur Kasri palazzotto neoclassico ricco di fregi e ornamenti. Di fronte un piccolo lago, con i suoi cigni e pavoni, erba verde e tulipani per far riaffiorare Villa Imperiale nei miei ricordi. In un attimo anche lo sguardo protettivo della zia Elena era su di me, me lo sentivo addosso.
Credo non sia un caso vista la storia che ha unito Istanbul a Genova, fatta non solo di commerci e di attracchi per le navi di allora cariche di spezie e di merci esotiche.
La sorte dell’esangue Impero Romano d’Oriente vide protagonista il Protettore genovese di stanza a Galata e Pera sulla collina, di fronte al palazzo del Sultano. Fu l’alleanza dei genovesi con gli ottomani a segnarne la fine.
Una porzione di storia surclassata dall’epopea colombiana e dalla scoperta di un nuovo continente mentre si cercava una rotta per arrivare agli Indiani veri, quelli dellIndia.
Della Genova regina dei mari e del suo spirito levantino restano i nomi di molte strade, e anche tracce nel dialetto. Tracce che solo pochi inseguono . Mia mamma era uno di quei pochi. Quante volte le ho sentito dire con fierezza mista a curiosità e stupore, che il fazzoletto da naso “u mandillu” in dialetto era di derivazione araba (mandil), come altre parole che adesso non ricordo. A distanza di anni è toccato a me scoprire che “mendil” è la versione turca. Mondo piccolo, grandi e benefici intrecci anche nei linguaggi.