Il ricordo di Carmela: L’altalena e l’eucalipto

Ritrovarsi – di Carmela De Pilla

Rivederla aveva rinnovato in me emozioni così forti che mi  appoggiai al vecchio eucalipto ancora rigoglioso e rassicurante.

La grande casa mi aveva accolta bambina e nonostante il tempo avesse cancellato l’armonia che vi regnava apparve ai miei occhi  pregna di sorrisi e allegria, non si sentivano più le risate dei bambini che rincorrevano le galline o i canti notturni, ora se ne stava solitaria e abbandonata a se stessa ricordando con un po’ di nostalgia un tempo troppo lontano.

In quella pianura avvolta dall’aria salmastra del mare poco distante erano state costruite molte case con la riforma fondiaria che assegnava ai contadini più bisognosi qualche ettaro di terra e l’abitazione, erano tutte uguali queste case con grandi spazi atti ad accogliere famiglie numerose.

Tutto sembrava come allora, il pozzo era sempre lì e rivederlo così piccolo e spaventato mi fece sorridere perchè da bambina mi sembrava gigantesco e quando mi chiedevano di tirare l’acqua col secchio avevo una gran paura di caderci dentro! Solo l’intonaco scortecciato, le finestre sbarrate e il grande silenzio che la circondava mi fecero capire che fosse abbandonata da molto tempo, rividi i miei zii indaffarati a tramestare nell’aia e i miei cugini più grandi di me che ci tenevano impegnati facendoci giocare con legnetti, pietre, sassolini e una vecchia palla e per un attimo ritornò a vivere.

Il grande arco che portava a una veranda chiusa era ancora intatto, mi avvicinai, gli antichi ricordi riaffiorarono con prepotenza: nel mezzo il grande tavolo, una panca e qualche sedia, un mettitutto avorio profilato di azzurro appoggiato alla parete e accanto una stufa a legna dove la zia con poco faceva mangiare tutti.

Ci andavamo d’estate quando la scuola chiudeva e l’attesa dell’arrivo dei miei genitori diventava insopportabile, ci riparava dalla tristezza, lì potevo assaggiare l’amore di cui ero privata.

Tante case sparse in qua e in là e tante vite abbandonate a se stesse, in balìa di un destino che se ne fotteva dei loro dolori  nascosti con pudore e dignità, ma loro non si abbattevano, sapevano che le battaglie vanno combattute con coraggio, senza troppi lamenti e ogni giorno sfidavano quel destino cieco e sordo e inventavano momenti di allegria per dare un po’ di tregua ai loro poveri cuori.

Nelle sere d’estate quando la frescura rasserenava gli animi uomini, donne e bambini si trascinavano lungo l’unica strada bianca che collegava le case e spesso si fermavano nell’aia della zia che accoglieva tutti sotto il grande eucalipto offrendo loro la sedia e lo zio pronto a raccontare aneddoti divertenti e a intonare canzoni popolari portava allegria e spensieratezza mentre i più piccoli andavano a giocare sotto il grande fico dove un’altalena li aspettava con le loro grida di gioia.

Le porte erano chiuse e attraversai la stalla confinante con la veranda, per un attimo sentii l’odore della paglia mista al letame e lo scalpitio di Stellina, la giovane cavalla tanto temuta e allo stesso tempo amata, forzai la vecchia porta sgangherata e mi trovai sul retro della casa,  il forno trasformato dallo zio in una conogliera era sempre lì e c’era pure la recinzione del pollaio dove io e mio fratello andavamo a prendere le uova.

I ricordi si accavallavano e mi rividi con mio fratello mentre portavamo a pascolare i tacchini di cui io avevo grande paura e quando aprivano la coda a raggiera e sentivo quel verso buffo e assordante “gluh gluh gluh” mi stringevo a lui che come un bravo pastore mi  proteggeva.

-Se volete mangiare dovete faticare!- Diceva scherzosamente lo zio, ma noi lo prendevamo sul serio e senza fiatare andavamo soli soletti in quei grandi campi abbandonati. E poi arrivava il tempo della vendemmia che avveniva prima del nuovo anno scolastico e la pigiatura dell’uva, un rito che si ripeteva ogni anno si trasformava in un vero e proprio momento di gioia, entravano nel grande tino prima le mie cugine e quando l’uva era già schiacciata facevano salire anche noi che cantando le canzoncine imparate a scuola ci divertivamo a saltare e ballare senza preoccuparci troppo di sporcarci assaggiando quel dolce succo d’uva che ci imbrattava il viso trasformandolo in una maschera, si comprava così una giornata di divertimento senza spendere nulla.

Osservavo con meticolosità come se fossi andata lì per vedre se tutto era a posto poi ritornai sotto l’eucalipto e mi sedetti per terra e nel toccare la terra dura e ormai arida mi venne in mente il grande falò di quella sera…eravamo tanti, gli adulti seduti sulle sedie e i più piccoli per terra, dopo la calura del giorno i vicini si erano ritrovati come spesso accadeva dai miei zii e seduti a formare un grande cerchio raccontavano gli ultimi fatti, gli uomini si accanivano contro la siccità o il governo che pagava poco i prodotti, le donne parlavano sottovoce degli affanni quotidiani e i bambini giocavano ai “ cinque sassolini “, io ero diventata esperta e nelle gare vincevo quasi sempre, era questione di abilità e di allenamento e quando nell’ultimo passaggio buttavo in aria i cinque sassi riprendendoli con una mano sola ero la bambina più felice del mondo.

Era buio da qualche ora e s’incominciava a sentire il freddo della notte così gli uomini fecero un grande falò nel mezzo del cerchio e all’inizio qualcuno intonò timidamente una canzone poi se ne unirono altri e altri ancora e nell’aria oltre alle scintille e alle fiamme che si rincorrevano si spandeva un’unica voce che saliva con slancio, quasi con violenza fino all’alto dei cieli come a voler dire ”Ascoltate, ci siamo anche noi.”

Il ricordo di Simone: L’altalena

QUEST’ANNO LO FACCIO – di Simone Bellini

Giuro che lo faccio ! Ho messo da parte polistirolo, cartone, ghiaino e muschio.

Inizierò da questa scatolina di cartone; ci disegno e ritaglio porta e finestre.

Poi, con le mani, strappo piccoli pezzetti irregolari di un contenitore per uova, di quel cartone grezzo, grigio e li incollo in un angolo della facciata incastrandoli fra di loro come se fossero un muro di pietra.

Dopodichè passo una mano di gesso per fare l’intonaco grezzo lasciando scoperto le pietre.

Coloro il tutto sporcando il muro e le pietre per dare un aspetto di povertà vissuta.

Potrei usare il polistirolo al posto del cartone, basterebbe il pirografo per incidere pietre o mattoni.

Un tappeto di muschio per il giardino e del ghiaino per il vialetto. Pezzetti di spugne di mare ( sono più porose ) tinte di verde su dei ramoscelli per fare gli alberi.

Bastoncini e corda per fare l’altalena.

Tutto questo mi ricorda la vecchia casa in campagna, dove passavo noiosi mesi estivi e l’altalena era l’unico diversivo per passare il tempo. Essendo l’ultimo di sei fratelli dovevo aspettare il mio turno. Fortunatamente i più grandi avevano altri interessi ; avevano riesumato un vecchio motorino del dopoguerra,48 cv, trovato nella rimessa di famiglia. Il giorno che riuscirono a metterlo in moto, fra l’entusiasmo di tutti, fecero dei giri di prova, anche una mia sorella volle provarlo, ma nessuno gli disse come si faceva a frenarlo! Andò a schiantarsi contro al muro accanto all’altalena piegando irrimediabilmente la forcella. Fortunatamente mia sorella non si fece nulla, ma la moto perì dopo nemmeno un’ora di vita.

Tornando al mio progetto per fare un presepe, devo disegnare tutta l’ambientazione, le case, la capannuccia, una cascatella,sentieri e montagne e……..

Cosa?…….. Come?… Natale è già passato?!?…….Oh cavolo!!!!

Il ricordo di Nadia: l’arcobaleno

Ottobre 1984 – di Nadia Peruzzi

Le prime ferie furono in ottobre. Era il 1984. Un autunno piovoso e ce lo beccammo con vento , fulmini, grandi acquazzoni.
Nei pochi giorni che passammo fra Orvieto, Viterbo, il Parco di Bomarzo con i suoi mostri, il lago di Bracciano con il possente castello degli Orsini, la protagonista principale fu l’acqua.
Erano i tempi in cui non erano i cellulari a darci le previsioni del tempo aggiornate ora per ora ,e si prendeva quel che veniva.
A Bracciano il Castello lo si vide dalla macchina come se stessimo sbirciando da dietro una tenda pesante. Era tanta l’acqua che cadeva che non si vedeva da qui a lì. Per non parlare delle sferzate di raffiche di grandine che sembrava di essere sotto attacco nemico a colpi di mitragliatrice.
Godimento poco o nulla, lago pressoché invisibile come il castello, fuga a tutta velocità dopo poco .
Per fortuna portavamo con noi il ricordo della mattina passata a Villa Lante a Bagnaia. Il suo giardino all’italiana risplendeva col poco sole che cercava di resistere all’avanzata di nuvole nere da paura .
Ci importava poco di quel tempo clemente solo a tratti. Eravamo insieme e felici. Sposati da appena un anno, tutto era bello anche con la grandine .L’acqua la prendevamo come una sorta di accompagnamento ritmato, ma in musica, per una vacanza comunque conquistata.
Le mie prime ferie dall’inizio del lavoro erano giorni da vivere con entusiasmo il meteo avverso non lo consideravamo più di tanto.
Poi lo sappiamo tutto scorre e tutto può cambiare .
Arrivati al lago di Bolsena, ci accolse uno spettacolo inatteso. Il sereno stava prendendo il sopravvento sulle nuvole e fu il meno.
Del tutto strabilianti furono gli archi perfetti e nitidissimi di due arcobaleni che ci fecero compagnia per il lungo tratto di strada che correva attorno al lago.
Erano gli ultimi due giorni. Furono spumeggianti per Walter e per me. Anche perché ci dedicammo a laute libagioni con uno dei vini locali l’Est Est Est, che era già stato traditore per mia madre in una calda giornata estiva romana . Lei era alle prese con delle cose da stirare, il vino era fresco e si trovò brilla prima di aver finito.
In quell’autunno di molti anni dopo, con quel vinello aggiungemmo più di un colore a quelli dei due arcobaleni che ci avevano dato il benvenuto.

Il ricordo di Tina: l’arcobaleno

Arcobaleno – di Tina Conti

L’immagine dell’arcobaleno, del prato e dei colori  sul fondo del biglietto, realizzato con mano leggera, sembra a matita o acquerello, mi ha riportato a lei, la Fata del bosco.

Conservo i suoi biglietti discreti, leggeri e riservati con grande  cura e affetto.

 Lei è nel mio cuore, ci siamo scambiate momenti intensi e intimi, in una fase della vita vicina.

L’ho rincontrata circondata  da bambini  nel parco con quella sua valigia  di tesori scelti e pensati con fantasia e competenza educativa.

Ammaliatrice, attraeva  con la sua voce pacata e dolce, incantava con il fare delle sue mani, con i modi semplici, tranquilli e tanto garbo.

I bambini arrivavano, trasportati da quella atmosfera quasi magica, estraniati dai rumori circostanti, lei non chiedeva  di più.

Io la osservavo e mi facevo tante domande, e la rivedevo compagna di scuola di Iacopo, studentessa e giovane donna con mille sogni e tanto cuore.

Un giorno, un patto; vengo a prendere lezioni di acquerello da te e in cambio facciamo pratica di lingua inglese che lei conosceva bene per i suoi  soggiorni e studi in quel paese.

Belle mattinate insieme, chiacchiere e colazioni con the e dolci, scambi sulle nostre vite e sulle sue scelte; il padre, che  ho conosciuto, le sorelle, gli studi e il lavoro a Londra.

Ho apprezzato quanto sia stata brava a cercare la sua strada, nonostante tutte le traversie è rimasta fedele al suo mondo e alle scelte.

Mi ha parlato della sua casa nel parco, del coniglio bianco, dei libri realizzati, delle attività portate a termine o iniziate. Ho messo a sua disposizione il materiale e la documentazione del percorso professionale e tutti gli strumenti che ancora usavo con i nipoti nella mia casa.

Questo, mi ha portato a proporre ancora un tempo insieme, il laboratorio nonna- nipoti del mercoledì, dove, mettevamo insieme forze e competenze con un piccolo gruppo di quattro bambini.

Negli incontri di pittura, facevamo proposte che avremmo offerto ai ragazzi, si disponeva una  Scaletta, e si pensava ai materiali, lei portava giochi e libri adatti al contatto con la lingua.

Per due anni, ci siamo incontrate e goduto di questo percorso, con momenti di gioco, canto, lettura e lavori realizzati, abbiamo osservato i progressi e le proteste delle bambine più grandi che si vedevano private di un tempo loro per confidenze e giochi. Aabbiamo adattato il tempo e le proposte alle varie situazioni, sfruttando  lo spazio  all’aperto.

Con la scuola media delle ragazze, è terminata questa esperienza che io ritengo sia stato molto importante e di grande valore per tutti, perché le proposte erano di vita concreta.

Se ci ripenso, mi ritornano in mente le cose prodotte, come i burattini, le tovaglie   e le tele ricamate con i fili di lana che sono rimaste a casa mia.

Prima delle vacanze estive, si concludeva il percorso con un finto viaggio, in montagna, al mare, e nell’ultimo incontro a Londra

I bambini, avrebbero potuto davvero andarci da quanto erano diventati bravi a districarsi  con bagagli, treno, ristorante, orari e visite a parchi e musei.

Poi, è ricominciata la vita di sempre, non era facile comunicare con lei perché non aveva telefono fisso e neppure un cellulare, solo saluti portati da conoscenti. Incontrati dopo una cena.

Una mattina mentre percorrevo una stradina secondaria per andare alla mia seduta di ginnastica, la vedo di sfuggita davanti ad un treno di circa dieci bambini che si immetteva in una viottola fra i campi, mi sono chiesta se era proprio lei, da dietro non potevo esserne certa, ma chi altro poteva essere, vicino alla piccola sezione della scuola di campagna?

Mi sono imposta quanto prima di fermarmi e verificare.

Sentivo le voci dei bambini che si rincorrevano nel giardino, e il ticchettio di un martelletto, ho suonato, e lei ha aperto il cancello. Ci siamo abbracciate e con sguardi felici, raccontato un po’ di eventi. Lei gestiva la struttura con pochi aiuti, era molto felice di poter riproporre le esperienze di Londra e quelle che aveva maturato in seguito.

Anche per me è stato bello immaginarla in quel mondo che abbiamo condiviso, presa da passioni e scelte faticose ma vere , utili, in questa realtà tanto evanescente.

Il ricordo di Carla: Il tram

Il tram a Vienna – di Carla Faggi

Avevo voglia di sposare Marco, chissà perché!

Lui era poco convinto. Anche qui mi chiedo chissà perché!

Ma ce l’ho fatta, l’ho sposato!

Il cosiddetto viaggio di nozze l’abbiamo però rimandato, mia madre non stava molto bene in quel periodo. Poi fu rimandato di nuovo, il nostro cane aveva dei problemi di salute.

Quando poi abbiamo potuto fare il nostro primo viaggio insieme era inverno inoltrato ed io che non amo il freddo mi sono ritrovata in pieno febbraio a Vienna sotto la neve.

Ma eravamo io, lui e Vienna, quarantenni e innamorati.

I ricordi sono tanti, naturalmente belli e languidi come si deve alle circostanze.

Ma le foto di Cecilia mi hanno ricordato come amavamo andare in tram a Vienna.

Potevamo vedere tutta la città comodamente seduti, osservare i comportamenti delle persone nella loro spontanea quotidianità. Perché nel tram non ci sono atteggiamenti costruiti, passerelle o finzioni, chi sale non è lì per mostrarsi, per sedurre o minacciare, è lì di passaggio, è riconoscibile e vuole starci il meno possibile.

Quindi noi ci godevamo la città ed i suoi abitanti. Seguivamo una linea fino alla periferia, incuriositi, perché era la periferia che ci raccontava davvero la città.

Naturalmente abbiamo fatto anche la Vienna classica, le visite ed i Musei da turisti.

Ma le foto di Cecilia non mi hanno fatto ricordare le cose più belle di quel nostro primo viaggio, ma la prima cosa banale ma stimolante che abbiamo condiviso insieme in quella nostra prima avventura.

Il ricordo di Daniele: Il treno

Il treno verso sud – di Daniele Violi

Il Treno che ricordo, lo potevo tenere parcheggiato sui binari sotto il mio letto.

Un trenino elettrico con binari, modellino Lima o Rivarossi, non ricordo. Un trenino  che costruivo con piacere, che la Befana dei Ferrovieri, ci regalava per il 6 Gennaio. Sono gli anni 1965 – 68. Essendo una nidiata di fratelli ci capitava di avere negli anni, un intero parco ferroviario, con il quale potevamo giocare con grande piacere a far funzionare questo piccolo mondo di tecnica.Tutto sotto le raccomandazioni di Mia Madre, per suddividerci i ruoli e Lei stessa a fungere da Capostazione, con paletta improvvisata a seconda di quale treno arrivava o di quale treno partiva…..sui binari che realizzavamo come tragitto. Merito tutto di una certa abbondanza di pezzi di materiale da comporre come i binari diritti i binari in curva e anche le locomotive e i vagoni. Una grande emozione per gli anni che avevo, organizzare anche con i miei due fratelli più piccoli, lo spettacolo di andirivieni, di un piccolo mondo di tecnica e gioco, forse uno dei pochi, che potevamo permetterci.

Mi ricordo delle scatole di cartone delle scarpe che utilizzavo per creare e modellare gallerie e ponti, con sotto lo sfrecciare dei trenini, che alle curve costruite troppo azzardate, uscivano dai binari e facevamo a gara per intervenire a risistemarli in asse e farli ripartire. Toccare questi modellini in scala, immaginare di essere viaggiatori all’interno, essere artefici di una visione di un aspetto della realtà che potevamo creare con la nostra manualità alle prime armi, senza dubbio era molto attraente e coinvolgeva sia io che i miei fratelli, tanto, anche troppo, visto che spesso doveva intervenire la…..Capostazione. Comunque anche nella realtà poi avevo il contatto con il treno, quello vero. Nelle vacanze, quando partivamo, tutta la famiglia, dalla stazione di Firenze S.M.N. ,con la Freccia del Sud, un lungo treno che partiva da Milano direzione Sicilia, un treno con tante fermate, che ci portava in Calabria dai Nonni, dai Parenti. Dal binario 15 ogni sera alle 20:30, sostavano 3 vagoni con locomotore pronto, che si agganciavano in coda al treno presso altro binario per ripartire alla volta di Roma.

Talvolta vi era quasi un assalto al treno. Io ero addetto a salire per primo sul treno con mio Babbo ferroviere e riuscire a occupare non un solo posto ma un intero scompartimento con qualche bagaglio, poi dal finestrino ci passavano borse e piccole valigie.

L’intera famiglia in truppa arrivava. Eravamo 7 occupanti e questo ci permetteva di poter disporre di un intero scompartimento. Allora sì, finalmente entravo dentro un vagone passeggieri del trenino che tenevo parcheggiato sui binari sotto il letto; ganzo, ghivido. Avrei potuto essere in seguito un ferroviere anche io; i miei desideri hanno rivolto lo sguardo verso quanto di bello vedevo appunto, durante i viaggi. Ho preferito la Natura che ci circonda con le Piante e tutti gli esseri viventi, che già sentivo di difendere; hanno fatto colpo sul piccolo viaggiatore che in treno attraversava verso il sud lo stivale di Bellezza, allora contaminata solo da un gioiello di tecnica e di poesia come il Treno. 

Il ricordo di Luca M.: La bicicletta

Sorpresa di compleanno – di Luca Miraglia

Sono nato nel mese di luglio alla fine degli anni ’50, nato insieme al boom economico in famiglia lanciata nel marasma della rincorsa al benessere. Quindi d’obbligo la vacanza estiva al mare e di conseguenza mai una festa di compleanno degna di tal nome, almeno per il me bambino.

Correva l’anno ’64 o ’65. Primi di luglio: armi e bagagli tutti al mare.

In realtà non tutti: il babbo solo nei fine settimana ma io sapevo che per il mio compleanno ci sarebbe stato, e questa era già una festa dato che viaggiava sempre per lavoro.

Giorni classici della vita al mare di un bimbo di 5/6 anni: ombrellone, maglietta per non scottarsi, paletta secchiello, formine, biglie di plastica con le foto dei ciclisti, tutto per far passare le fatidiche tre ore prima del possibile bagno, poi ancora giochi in spiaggia lasciando correre il tempo tranquillo della vacanza.

Arriva il fine settimana del mio compleanno.

Arriva anche la millecento del babbo ma, stranamente, la mamma non vuole che scenda a salutarlo. Indispettito e un po’ incuriosito riesco comunque a sbirciare fuori e lo vedo sfilare dall’auto un pacchettone ingombrante, stretto e lungo, che però sparisce subito verso le cantine.

Boh?! Chissà che roba è: se va in cantina sicuramente niente di interessante per me.

La sera cena tutti insieme e poi di corsa a letto per far in modo che domani il mio compleanno arrivi un po’ prima.

Nonostante l’eccitazione della mia festa in arrivo, dormo come un sassobambino, tanto che devono venire a svegliarmi per iniziare con lauta colazione le celebrazioni di me…

Sole estivo dalle finestre, già quel caldo che non ti fa venir voglia di vestirti, ma è il mio compleanno e allora oggi forse cornetti a colazione!!!

Giù dal letto, giro la porta e resto fulminato: in mezzo al corridoio troneggia una bicicletta rossa, lucente e meravigliosa.

Gigantesca per me bambino.

E ora come faccio che non ci so andare??

Il ricordo di Anna: La raccolta delle olive

L’OLIVETO – di Anna Meli

            E’ da poco passata una lunga e caldissima estate. A causa dello sconvolgimento climatico le stagioni non rispettano più le scadenze di una volta. Siamo a metà ottobre e già si raccolgono le olive, o meglio si battono, senza più nessun rispetto per le piante che vengono strapazzate e scosse da varie macchinette.

            Se chiudo gli occhi, immagini fuggenti scorrono legate a vari momenti del passato: disegni appesi in quella scuola dove ogni stagione aveva il suo spazio, serate trascorse insieme ad altri ragazzi in aperta campagna fra gli odori di erba tagliata, di legna bruciata nei focolari e la sensazione di quell’aria frizzante che annunciava il vicino inverno.

            Come era il mio disegno appiccicato con delle puntine al righello sulla parete di fronte alla finestra? Forse non bellissimo, ma c’era tutto: tronchi scuri e contorti con lunghi rami e tante foglioline verdi staccate l’una dall’altra e intercalate da pallini neri neri e lucidi, lunghe scale appoggiate con il contadino che si apprestava a salire e poi altre persone piegate nella raccolta e….ragazzi, donnine, qualche cane con la coda a ricciolo, un prato di erbe e zolle. Il tutto componeva una sola storia.

            E la storia, quella reale, si realizzava nei pomeriggi dopo la scuola, quando noi ragazzi andavamo a chiedere a Pietro i cestini per raccogliere le olive a terra. Ci era proibito salire sulle scale, anche se, qualche volta, qualcuno ci provava.

            La raccolta, in quegli anni, avveniva a fine novembre e le giornate erano, come dicevano i grandi “ Un pugnello” vale a dire brevi. Rientravo a casa al calar del sole, con le guance rosse di fuoco e le mani fredde e screpolate, ma felice. La mia mamma faceva un’emulsione di olio d’oliva e acqua e mi massaggiava le parti che erano maggiormente offese; anche se bruciava un po’ ricordo quella sensazione con piacere. Ero stanca ma felice e coccolata.

Il ricordo di Stefania: La bicicletta

La bicicletta rossa – di Stefania Bonanni

Quell’anno la Befana porto’ due biciclette. Una blu per la Sonia, una rossa per me. Tutte le cose di Sonia erano blu, tutte le mie rosse.

Avere una bicicletta voleva dire che si potevano fare tratti di strada piu’ lunghi che non a piedi, ci si poteva spingere forse in paese, forse a scuola, si poteva girellare, si poteva arrivare in luoghi che si sapeva solo noi, senza rendere conto delle strade percorse, a meno che non si avesse la sfortuna di essere viste , ci si conosceva tutti, ed erano tutti gran chiacchieroni.

Svanì presto l’ illusione di libertà. Vennero subito le indicazioni di utilizzo delle bici. Si poteva andare al forno, in macelleria, alla posta. All’ Arno assolutamente no. Per la strada principale nemmeno.

Il mio posto preferito era lungo la strada sterrata, dove si formavano enormi pozze di pioggia e fango. C era una semicurva, in particolare, che nascondeva alla vista, e nella fantasia, quando arrivavo lì ero sola, sperduta, orfana, nel bosco o nel deserto, a seconda di che stagione fosse. Appoggiavo la bici al balzo, tra i rovi, e mi sedevo su di un sasso piatto che mi sembrava un trono. E guardavo le nuvole, ed immaginavo storie. La preferita raccontava le avventure di una ragazzina sola al mondo che restava tra i rovi tutta la notte. Dalle frasche uscivano pantere e serpenti, a volte fantasmi, che però fecero parte delle mie storie per poco, perché mi riportavano sempre a casa.

I giorni piu’ belli era quelli nei quali pioveva poco. Quel tanto che bastava ad impastare la polvere della strada sterrata, con la pioggia. Il risultato era una una materia a metà, né liquida, né solida, marrone e lucida, e se ne capiva la consistenza solo mettendoci le mani, o i piedi, o tirando sassi nella pozza e valutandone gli schizzi. Era molto bello arrivarci con la bici, in velocità, alzare i piedi dai pedali, e volarci attraverso. Una volta sono caduta col sedere proprio nel mezzo della buca grossa. Per tirarmi su ho anche strusciato le ginocchia, e sono tornata a casa ricoperta di terra. “Guarda come sei ridotta!” E non capirono quanto mi ero divertita, e quanto mi piacesse non essere più quella bambina buona, pulita e pettinata che volevano fossi.

Quando era troppo brutto tempo e la bici era proibita, andavo a piedi alla buca. Mi preparavo bene ed a lungo. Mettevo gli stivalini da pioggia, la mantellina impermeabile naturalmente rossa, prendevo l’ ombrello, e partivo. Cominciavo a fantasticare da subito.

 Se avete pensato che la buca fosse distante chilometri dalla mia casa, è esattamente quello di cui allora ero convinta.

Il ricordo di Sandra: La bicicletta

La bicicletta – di Sandra Conticini

La bicicletta non era certo come quella raffigurata nella foto, molto antica, ma sicuramente sarà stata una Bianchi: comprava poche cose ma, come diceva, “di marca” e quella è stata la sua mentalità per sempre perché doveva durare, ma  il benessere e il consumismo avevano già preso la mano ad ognuno di noi. Era naturalmente da uomo, color marrone chiaro con il cambio, la dinamo che faceva far luce alla lampadina e con il campanello. Sempre ben tenuta ed efficiente, aveva messo anche il seggiolino per me. Ero molto contenta quando mi portava in giro per la città o ai giardini a vedere i burattini.

Ricordo come era piacevole la sensazione del vento sul viso che anni dopo ho rivissuto quando anche io ci sono andata per tanti anni. Quanta fatica ha durato il babbo per insegnarmi ad andare in bicicletta. In estate quando ero al mare me la prendeva a noleggio e tenendomi per il seggiolino cercava di insegnarmi a tenere l’equilibrio. Non fu semplice, ma con molta pazienza ce la fece, cosi’ l’anno successivo alla fine della scuola per premio mi regalò una bicicletta rossa fiammante “Bianchi” e da allora iniziò un po’ di indipendenza e  un certo   senso di libertà. Nonostante le raccomandazioni di non andare lontano, ogni tanto, con altre amiche, andavamo sull’Arno o, il massimo, la meta era raggiungere  la casa degli spiriti, una casa diroccata, che ci sembrava tanto lontana, ed era un segreto che nessuno di noi doveva svelare, altrimenti ci avrebbero chiuso la bicicletta per tutta l’estate.

Il ricordo di Lucia: Il treno per Venezia

Partire – di Lucia Bettoni

Me ne vado
Ho bisogno di stare con me
Me ne vado
Non so quando tornerò
ma tornerò
È solo un viaggio

Alla stazione prendo il treno per Venezia
Ho venti anni, forse meno
A casa lascio un uomo con il quale
condivido la vita

Me ne vado
Ho pochi soldi, poca esperienza, poco di tutto
Non ho paura
È solo un viaggio

Ho bisogno di guardare e toccare il mondo a modo mio
Tutto si dilata
Tutto entra nei miei occhi con un respiro nuovo
Vedo quello che ho bisogno di vedere
Sento quello che ho bisogno di sentire

Me ne vado
È come una nascita

Me ne vado
Non ho niente, neppure la valigia
In una borsa non troppo grande ho tutto quello che ho deciso di portare

Sono giovane
Seduta al finestrino mi sento libera
Guardo fuori
Il treno si ferma, il treno riparte
Venezia
Non sono mai stata a Venezia

Venezia non è una città
Venezia è il mondo da annusare ed esplorare

Mentre scrivo e ricordo penso:
Ho settanta anni e sono assolutamente uguale a quella ragazzina
Posso sentire ogni battito d’ali di quella voglia di libertà e di conoscenza

Vado a dormire all’isola della Giudecca in un ostello
La magia di non sapere niente, di non avere niente, solo la voglia di “provare”

Una camerata immensa, un letto scomodo, un solo bagno per tutti

Dei giorni a Venezia ricordo un grande scalone di un grande palazzo
È un museo
Un numero infinito di quadri iperrealisti e scuri
Non mi piacciono
Non ho bisogno di un museo

Salgo su un vaporetto e vado al Lido di Venezia
È qui che vedo ciò che non dimenticherò più
La spiaggia, tutta la spiaggia era coperta da un alto strato di conchiglie
Non si vedeva neppure un centimetro di sabbia
Era come se il mare avesse deciso di regalare a quel luogo tutte le sue conchiglie

Sorpresa, esterrefatta, ne raccolgo  una ventina , le avvolgo in un foulard che metto nella borsa

Torno a casa con un piccolo tesoro e un’emozione indelebile nel cuore
A Venezia ho trovato l’inatteso

Il ricordo di Rossella B.: L’altalena

Irresistibile altalena – di Rossella Bonechi

L’altalena è irresistibile per me, finché potrò se ne trovo una ci monto, in barba alle convenzioni e il ricordo di quell’ altalena è saltato fuori al primo sguardo: un’asse di legno, due corde, quattro pali piantati per terra e un solco di terra polverosa tormentata da atterraggi al volo. La usavo tutte le estati, nell’aia dello zio, elemosinando spinte forti dai grandi o facendo turni impazienti con i cuginetti. Fin qui niente di speciale ma il mio ricordo è legato al momento in cui scoprii come fare a spingermi da sola per un insieme di gesti casuali o per l’ ingenua sapienza dei bambini che sono maestri nei giochi. Fu un attimo che allora, bambina di pochi anni, non tradussi in parole ma ricordo esattamente l’ ebrezza di volare sempre più in alto da sola, senza chiedere a nessuno; credo, ma forse esagero, che fu la prima volta in cui mi sentii potente rispetto a qualcosa: non era la mia altalena ma ero io che conducevo il MIO gioco e finalmente potevo andare verso il cielo senza impedimenti o raccomandazioni. Non smisi più per tutta l’estate, mi dondolavo anche in piedi al limite del “ribaltamento”, ma ricordo bene che non c’era paura: solo, anche se non sapevo esprimerlo, l’ assaporare una grande libertà.

Il ricordo di Rossella G.: L’altalena

L’altalena cigolava – di Rossella Gallori

Ero nascosta in una casa senza porte, ci ho vissuto: un’ora, un giorno sicuramente un’età, fuori faceva freddo, ma la scala portava  oltre il cielo, così solidamente sbilenca, appoggiata ad un muro che mangiava capperi, mentre i capperi mangiavano il muro, in un alternarsi tra sopravvivere ed anche no. Fuori cigolava un’altalena di legno grasso d’acqua, cantava dondolando, una canzone a me che avevo bisogno di note dolci, non di stridii arrugginiti.

C’era  sopra al nulla, un materasso grande, di traliccio a righe di un color noce che ricorreva il grezzo polveroso, scricchiolante di vegetale, i guanciali bitorsoluti di lana da cardare…troppo tardi ormai… il cassettone  a tre gambe era sorretto dalla voglia di farcela, la greca incorniciava una cementite, forse viva un tempo….tutto mi spaventava e mi somigliava, pur non ricordando, come e quando ero arrivata li.

Riconosco, l’odore del vino di ieri, nei miei sogni di oggi, un vino che non ho mai bevuto….e vedo le cicche spente al muro e ricordo che ho  avuto una età che era poca poca:  e scappi…e scopi..e scopri…che niente lenisce il dolore, cicatrizza le ferite, manco con l’ aiuto della Madonna ce la fai.

Poi quel gatto grasso di pancia e corto di gambe, mi graffiò e ne fui felice, mi svegliai scesi la vecchia scala, affamata e confusa, i fichi erano a terra vecchi ma ancora dolci, incrociai le gambe che scoprii sporche e graffiate, succhiai le bucce, le braccia senza buchi mi rincuorarono.

 Volevo restare ed andare, avevo paura, paura di vivere, sempre.

La mia borsa conteneva  di tutto, foto, un pettine, caramelle dalla carta rossa, fazzoletti appallati di lacrime, fogli a righe, gomme, penne, cotognata, soldi quelli quasi nulla, ma anche troppi per essere pochi…

Nessuno è mai venuto a cercarmi né ieri, né oggi, ma sono sempre tornata. Comunque tornata.

…e quell’ altalena che non è più li, mi raggiunge, mi scova per cantarmi la stessa canzone, monotona, dondolante e rugginosa.

La odio

Il ricordo di Stefano: Parigi e l’arte

Il Museo e il cinema – di Stefano Maurri

La prima volta che  sono stato a Parigi era per il “ponte dei Santi” quando il 4 novembre era ancora riconosciuto come giorno festivo. Eravamo un gruppo di amici  intorno ai vent’anni e i mezzi di trasporto erano ovviamente il treno e la metro. Girando ci ritrovammo al Museo Jeu de Paume, un piccolo museo meno noto ai turisti ma con all’interno una straordinaria sala ovale di grandi dimensioni con alle pareti affreschi di ninfee di Monet in tutte le stagioni e in tutte le ore del giorno. La sensazione fu quella di  una completa immersione nella bellezza che mi travolse e mi fece trattenere più a lungo degli altri nella sala e che mi portò successivamente ad un abbassamento del  livello di attenzione una volta tornato nella vita comune.

Fu così che mi ritrovai senza soldi e senza documenti perché qualcuno, nella metro, aveva approfittato della mia allucinazione mentale. Era il periodo in cui per attraversare la frontiera occorreva un documento di identità. Maurizio mi accompagnò per gli uffici a fare le denunce necessarie. Per sfortuna l’ambasciata italiana era chiusa per la festività. Gli amici dovevano comunque ripartire e rimasi da solo ad aspettare il giorno lavorativo seguente per il documento. Un po’ smarrito e sconcertato girellai a vuoto  per la città e decisi di concludere la giornata rifugiandomi in un cinema. Per evitare difficoltà di comprensione linguistica scelsi di vedere il film Emmanuelle che in Italia era proibito e che sicuramente non aveva la sua forza nel dialogo.

Il ricordo di Patrizia: La bicicletta

La prima bicicletta – di Patrizia Fusi

La mia prima bicicletta l’ho avuta a vent’anni, mi serviva per andare al lavoro. Abitavo in un piccolo paese in campagna, sulla collina, con la bici era più veloce spostarsi nel paese dove arrivava il bus.

Non sapendola guidare, iniziai ad imparare lungo il viale della villa del Finzi.

Ricordo  che in uno di questi giorni, quando cercavo di imparare a guidare la bici, ebbi una brutta caduta per terra battendo fortemente la schiena e i reni. Non sapevo che ero incinta, ma la mia bambina aveva voglia di nascere e non si è staccata dal mio ventre, in quell’incidente.

Era l’inizio della mia vita futura: avevo vent’anni, iniziavo a lavorare ed ero già incinta. La bicicletta era il mio aiuto e la caduta  aveva rivelato un segreto davvero sconosciuto, anche per me.