La bicicletta rossa – di Stefania Bonanni

Quell’anno la Befana porto’ due biciclette. Una blu per la Sonia, una rossa per me. Tutte le cose di Sonia erano blu, tutte le mie rosse.
Avere una bicicletta voleva dire che si potevano fare tratti di strada piu’ lunghi che non a piedi, ci si poteva spingere forse in paese, forse a scuola, si poteva girellare, si poteva arrivare in luoghi che si sapeva solo noi, senza rendere conto delle strade percorse, a meno che non si avesse la sfortuna di essere viste , ci si conosceva tutti, ed erano tutti gran chiacchieroni.
Svanì presto l’ illusione di libertà. Vennero subito le indicazioni di utilizzo delle bici. Si poteva andare al forno, in macelleria, alla posta. All’ Arno assolutamente no. Per la strada principale nemmeno.
Il mio posto preferito era lungo la strada sterrata, dove si formavano enormi pozze di pioggia e fango. C era una semicurva, in particolare, che nascondeva alla vista, e nella fantasia, quando arrivavo lì ero sola, sperduta, orfana, nel bosco o nel deserto, a seconda di che stagione fosse. Appoggiavo la bici al balzo, tra i rovi, e mi sedevo su di un sasso piatto che mi sembrava un trono. E guardavo le nuvole, ed immaginavo storie. La preferita raccontava le avventure di una ragazzina sola al mondo che restava tra i rovi tutta la notte. Dalle frasche uscivano pantere e serpenti, a volte fantasmi, che però fecero parte delle mie storie per poco, perché mi riportavano sempre a casa.
I giorni piu’ belli era quelli nei quali pioveva poco. Quel tanto che bastava ad impastare la polvere della strada sterrata, con la pioggia. Il risultato era una una materia a metà, né liquida, né solida, marrone e lucida, e se ne capiva la consistenza solo mettendoci le mani, o i piedi, o tirando sassi nella pozza e valutandone gli schizzi. Era molto bello arrivarci con la bici, in velocità, alzare i piedi dai pedali, e volarci attraverso. Una volta sono caduta col sedere proprio nel mezzo della buca grossa. Per tirarmi su ho anche strusciato le ginocchia, e sono tornata a casa ricoperta di terra. “Guarda come sei ridotta!” E non capirono quanto mi ero divertita, e quanto mi piacesse non essere più quella bambina buona, pulita e pettinata che volevano fossi.
Quando era troppo brutto tempo e la bici era proibita, andavo a piedi alla buca. Mi preparavo bene ed a lungo. Mettevo gli stivalini da pioggia, la mantellina impermeabile naturalmente rossa, prendevo l’ ombrello, e partivo. Cominciavo a fantasticare da subito.
Se avete pensato che la buca fosse distante chilometri dalla mia casa, è esattamente quello di cui allora ero convinta.
Grande Stefania, vai avanti….
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