La “nontreccia” di Rossella

Ynès non aveva la treccia – di Rossella Gallori

foto di Rossella Gallori

Corti capelli nero inchiostro, il colore del suo mare in tempesta, zigomi evidenti, pelle olivastra, alta quel tanto in più della media, gambe lunghissime, che non conoscevano passi lenti….

Alternava il suo parlare a lunghi silenzi, non rideva molto, se lo faceva era sempre per cose dissacranti, fuori dagli schemi…

Innamorata del suo uomo più del dovuto, ne perdonava i tradimenti, le assenze falsamente giustificate.

Era arrivata alla terza elementare, ripetendola, per poi dedicarsi ancora bimba a girare in bicicletta con il nonno, ceste di trina bianca da vendere a metri, tramezzi  grezzi tinti col the, girava fino a buio per le Venezie lungo i canali, in quella Livorno dal fascino antico.

Si sposò giovanissima….ebbe Mario…poi Giulia…poi Franca…

Era mia nonna Ynès, non l’ho mai conosciuta, mia madre ne parlava poco, non ho mai capito perché, so solo quel che ho scritto, che è solo un ritratto, la radiografia di una vecchia foto.

 Mia figlia le somiglia, o forse è ciò che desidero. Vedo in lei  la stessa tenacia, lo stesso sguardo, lo stesso non ridere di cose banali.

Una nonna, la mia, senza treccia bianca, senza rughe, senza chicche nelle tasche, nessuno di noi fratelli l’ ha mai conosciuta, nessuno ha avuto le sue carezze, nessuno ha mai visto quanto fosse bella, nel suo essere  giovane..

Ynès era mia nonna, è morta, dicono, di dolore,  perché era molto intelligente ed aveva capito che era meglio morire a quaranta anni, piuttosto che farsi ammazzare.

Ynès non ha mai avuto la treccia bianca…

Simone sceglie l’immagine: La lampada a colori

GRIGIORE – di Simone Bellini

Driinn! Sveglia, sei del mattino, buio fuori, luci fioche dentro.

Pippì,  mi sciacquo il viso con acqua gelata per svegliarmi meglio,

vestito grigio, camicia bianca, caffè, borsello, chiavi, ciao cara (sottovoce per non svegliarla )

Freddo, nebbia, autobus, la solita fermata, venti minuti a piedi, ufficio.

Scrivania, montagne di pratiche da smaltire, contabilità. Pranzo a sacco, caffè.

Di nuovo fogli, pratiche, fogli fogli fogli.

Tre minuti alle sette. Due, uno, stop.

Autobus, casa. – Ciao cara sono tornato!-

Luce fioca nell’ingresso, pareti grige.

Mi dirigo in camera per un cambio di abito più comodo, premo il solito interruttore

e…..- Caro ti piace l’abatjour che ho comprato al mercatino dell’usato ?-

PAM!!!  Un’esplosione di colori invade tutta la stanza !

I variopinti fiori della lampada si proiettano su tutte le pareti,

Nella mia testa scompare il grigiore quotidiano ed esplode una gioiosa incontenibile allegria.

Accendo il giradischi, muto da tempo immemore, Deep Purple a palla, salto e ballo come un ragazzino

-Ma cosa succede caro ?-

-E’ bellissima questa luce ! Vieni balla con me !!!-

Ridendo ci scateniamo con il rock dei Led Zeppelin, Metallica,Prince, Michel Jackson.

La sollevo al volo facendola girare vorticosamente

-Piano, non così forte, mi gira la testa! Piano, piano, attento, attento alla lamp…..SCRANC !!!                               GRIGIORE                     

Immagine per Anna – La donna e la treccia

LE MANI RACCONTANO – di Anna Meli

            Mani di donna vecchie e avvizzite, ruvide e deformate dall’artrite e dal lavoro di una vita, intrecciano capelli bianchi visibilmente non curati in una treccia lunghissima che forse rappresenta la sua vita.

            Ogni intreccio un periodo, un momento vissuto, un passo nel futuro che man mano diventa passato e ricordo da custodire. Mani che hanno accarezzato con tenerezza il suo uomo, i figli, i nipoti; mani che si sono prestate ad ogni tipo di lavoro eseguito con fatica ma anche con tanto amore; mani che nonostante le evidenti deformità non hanno perso del tutto la propria agilità e che possono continuare ad intrecciare ancora e a vivere.

            Due fedi unite insieme all’anulare sinistro fanno intuire che la donna è rimasta sola, ma il simbolo di quell’amore rimane per sempre in quella mano e la fa sentire forte e serena.

            Un orecchino antico piccolo e rotondo ricevuto in dono tanti anni fa, pende dal lobo dell’orecchio ad ingentilire l’intera immagine.

            Quando la lunghissima treccia sarà terminata, la vecchia donna se l’avvolgerà in più giri intorno alla testa e si sentirà a posto, felice di aver avuto cura di sé e le mani stanche potranno riposare.

Immagine per Carmela – La strada bagnata di pioggia

Silenzio d’acqua – di Carmela De Pilla

Silenzi

C’era silenzio.

Tanto silenzio.

La pioggia cadeva senza far male, muta per non disturbare.

Per la strada tanta gente navigava nei propri pensieri, ognuno si guardava dentro: paura, solitudine, ambizioni, progetti, fantasmi che apparivano anche dopo troppo tempo e facevano ancora male, linee parallele che non s’incontrano mai, ma donano armonia.

La strada bagnata dall’acqua purificatrice indicava la via e mille ombre andavano avanti senza darsi noia, senza incrociarsi, ordinatamente accompagnavano il proprio io per proteggerlo e salvarlo dal nulla.

Mai si era sentito un silenzio così assordante, anche questa volta l’acqua aveva lavato le preoccupazioni, aveva eliminato le incrostazioni del tempo e aveva scolpito l’essenza senza corpo quasi trasparente.

 Libera di andare.

Tanti mondi, piccoli mondi soli che viaggiavano insieme per costruirne uno dove regna l’armonia dell’amore, un amore bagnato, puro, quello che raggiunge gli spazi sconfinati dove l’azzurro del cielo entra nelle vene e stai bene.

L’immagine e la riflessione di Sandra – Il gettone telefonico

Il gettone telefonico – di Sandra Conticini

Il gettone telefonico segna un tempo ormai passato. In estate, dopo cena, davanti alle cabine telefoniche dei luoghi di villeggiatura eravamo in tanti a telefonare. Si formavano delle file così lunghe che a volte sono stata anche mezz’ora ad aspettare e, non era detto che riuscissi a chiamare perchè le linee erano intasate ed  il giorno successivo dovevo riprovare. Quando anche i genitori erano in ferie nel mio stesso periodo erano guai, perchè dove andavano non avevano il telefono e  dovevo chiamare una vicina che poi riferiva che avevo chiamato. Insomma potevo  fare prima a tornare a casa.

Però il fatto che non si sapeva se si chiamava e quando, l’ansia   veniva dopo una decina di giorni e non dopo dieci secondi come ora.

Ricordo quando in casa fu messo il vecchio telefono nero attaccato alla parete.  Uno solo per due famiglie con tariffa duplex per spendere meno, fu un bel cambiamento. Se oltre al telefono avevi il televisore, il frigo e un auto eri considerato ricco.

 All’inizio si sentiva un trillo, e si diceva: – Ma cos’è questo rumore? Quando si rispondeva dall’altra parte non c’era più nessuno, avevano riattaccato..

Il gettone fu sostituito da carte telefoniche prepagate  poi con l’avvento dei cellulari sono sparite anche le cabine telefoniche e i telefoni pubblici.

Ora  il cellulare comanda, chi non ce l’ha è considerato una mosca bianca. Sempre a portata di mano perchè si pensa di poter sapere tutto di tutti e di tutto, ma quanto stress ci crea.

Ci sentiamo anche due  tre volte al giorno, videochiamate, fotografie, video, ma è proprio necessario?

Tutti siamo cascati  in questo circolo vizioso, bisognerebbe riuscire ad usarlo nella giusta maniera, perchè senz’altro è comodo, ma difficile da prendere in piccole dosi.

Comunque Vecchio gettone ti ricordo sempre volentieri, sei rimasto nel mio cuore perchè mi ricordi i bei momenti della mia gioventù!

Immagine per Rossellina – Il labirinto

Il labirinto – di Rossella Bonechi

Chissà perché il labirinto ci affascina tanto, forse perché quel piccolo brivido di non trovare l’uscita rende la cosa interessante o perché le sfide ci piacciono al punto da provarci ma convinti, in fondo, che ci riusciremo. Il Labirinto è un simbolo potente comune a molte culture e civiltà passate; noi ora lo usiamo al parco divertimenti, ma Teseo non si è divertito granché! Non fosse stato per Arianna…..

Il Labirinto in fondo è come la nostra vita: si sa da dove si entra ma non si conosce l’uscita, si procede a volte a tentoni a volte sicuri di essere sulla strada giusta, ci si ferma davanti a un bivio e si deve decidere se andare a destra o a sinistra e solo dopo un po’ si scopre se la decisione era giusta. Sappiamo che altri come noi stanno vagando ma i muri intorno occultano la vista, se siamo fortunati o attenti, dietro l’ennesimo angolo troviamo un altro paio di occhi in cerca e possiamo unire le forze per uscirne.

Una volta qualcuno mi raccontò che c’è un trucco per eludere la trappola del Labirinto: procedere sempre sul lato destro (o era il sinistro?) e girando sempre sullo stesso lato si poteva arrivare in fondo; me ne sono ricordata anni fa a Collodi e lì ho capito che era proprio una sciocchezza: se non era per il vispino di mio nipote ancora ero lì a girare!

Allora che si fa? Davanti a un bellissimo Labirinto verde profumato di essenze varie non si entra per timore? Sì torna indietro? No, non si resiste, così come per la vita si va avanti ostinatamente sperando in un po’ di fortuna con la C maiuscola.

P.S.: Ah, aggiungo che anche all’uscita dai labirinti quasi sempre nessuno dà alcun premio !!

Ispirazione per Stefania – Il vetturino nella nebbia di Milano

Il vetturino – di Stefania Bonanni

Da tanti anni faceva il turno di notte. Da tante notti non dormiva nel suo letto. Da tanto tempo aveva per compagni il buio, la nebbia, le nuvolette del fiato caldo, e, soprattutto, quel vecchio ronzino che ansimava al suo stesso ritmo. Si conoscevano bene, non c’era bisogno lo incitasse, e meno che mai lo strattonasse. Tutti e due conoscevano il lavoro e le strade, tutti e due sapevano che la notte dei ricchi prevedeva il rientro a casa con la carrozzella. Dei ricchi, certo. Solo i ricchi frequentavano locali la notte. Solo loro avrebbero dormito tutto il giorno dopo, senza dover lavorare. Solo i ricchi avevano scarpe che si sarebbero sciupate nelle pozzanghere, e donne con abiti che lasciavano le spalle nude, che non era il caso camminassero nella nebbia.

L’ uomo a cassetta aveva a casa una donna piena di rughe e con le trecce bianche. Gli era invecchiata di notte, lui non se ne era accorto, per tanto tempo.

Quando rientrava, al mattino, lei gli lasciava il suo posto nel letto, ed ogni volta lui ringraziava la sorte, per quel tepore di lei nel quale scacciava il freddo, la stanchezza, la nebbia. Si vedevano poco. Lui dormiva quando lei era sveglia, e lavorava quando lei dormiva. Era una specie di labirinto, nel quale si camminava e faticava, senza mai incontrarsi davvero. Se la ripensava giovane e bella, si rammaricava per aver dormito poco con lei accanto.

Il pensiero di lei lo accompagnava da così tanto tempo, che riempiva le sue notti, mentre lavorava, ed i suoi giorni, mentre sognava.

Sarebbe stato un pover uomo nella nebbia, uno che neanche guardavano in faccia, se non avesse avuto lei. Chissà se qualcuno lo avrebbe notato, se non lei. Lei che ogni mattina spolverava e puliva i suoi stivali fangosi, la sua divisa, il suo impermeabile.

E la sera, quando lui si vestiva di nuovo da vetturino, era fiero di sé e della sua immagine immacolata. Perché se lei ci teneva così, all’ immagine del suo uomo, di certo era per amore.

E questo pensiero bastava, a vedere nella nebbia, a rischiarare la notte, a sopportare il freddo.

L’immagine per Tina – Donna con la treccia

Non è tempo per la crocchia – di Tina Conti

Avevo deciso, fatte tutte  le considerazioni del caso che   sicuramente quando sarei stata anziana  mi sarei  pettinata  con una  crocchia  come la mia nonna.

 Mi sembrava  una scelta pratica, elegante e molto adatta.

Lei in verità l’ha  sempre portata da che io me la ricordo e non sarà sempre stata vecchia..non si era neppure fatta contagiare  dalla  sorella Ada  che portava una bella permanente su taglio corto .

Certo, Ada donna di città con negozio  di parrucchiera  prima a Balatro  dove vivevano  con lo zio Piero anche lui parrucchiere da uomo, poi  in  piazza Ferrucci, aveva una vita  piena di stimoli e doveva  fare colpo con le clienti..

Rivedo le mani di nonna alla sera prima  di andare  a letto, togliersi le forcine  e srotolare  quella treccia sempre  più sottile  e della stessa  lunghezza con striature d’argento.

 In  piedi, davanti alla “ SPERA,” il suo specchio da vicino, con la cornice di legno, che nessuno poteva prendere, (sennò chissà  quanti guai avrebbe causato la sua  rottura),

prendeva da dentro  una scatoletta allungata di porcellana, posata su quel cassettone alto e lucidato a spirito un pettine e una spazzola.

Dopo aver  pettinato e ripassato i capelli, riponeva tutto   con cura, doveva essere stato un regalo di nozze quel completo da toilette  dipinto a mano e molto fragile.

Io, maldestramente  che ho ereditato solo un pezzo dell’insieme, ho  rotto la scatoletta del borotalco, mi è rimasto  solo il coperchio a cui sono molto affezionata perché mi ricorda tanti bei momenti della vita con lei.

Dalla zia Ada, ci andava  la mamma e quando tornava, bella e acconciata raccontava  tanti episodi  di quella famiglia agiata e vivace.

Era contenta di aver trovato tempo per un taglio senza dover prendere un appuntamento, lei , che con cinque figli non sapeva  mai quando  sarebbe stata libera

La prima volta che  anche io sono andata nel negozio di Ada, sono passata dalle trecce che senza discussioni mi aveva  imposto la mamma per  tanto tempo a un bel taglio a caschetto. Era stata Milvia  la figlia giovane che cominciava a gestire il negozio ad aver assecondato i miei desideri .

Riguardo  alla scelta di portare la crocchia, ho avuto tanti ripensamenti, per adesso, non mi  sento   anziana, poi, il taglio corto che porto da vari anni mi sembra igienico e pratico, adatto a me, non si vedono in giro tante donne pettinate con la crocchia, la famosa scrittrice e donna di mondo che  la porta, Barbara Alberti,  mi sembra adatta, la porta bene, .io, col taglio corto posso giocare, con le lunghezze, i colori e  le permanenti. La crocchia non la vedo adatta a questo secolo

Scintille multiple per Gabriella – Tante foto

Un fuoco d’artificio – di Gabriella Crisafulli

Pim pum pam Patapam

Questa non è una scintilla.

Questo è un fuoco d’artificio che va in qua e in là, sopra e sotto, di città in città, di emozione in emozione.

Ora mi fido di me.

Le foto flesciano, rimbalzano: hanno il suono di un cuore scordato che sogna e si rivela.

Il cavallo di Modena si chiama Italia. Non conosco nulla di lui se non la maschera che mi ha lasciato.

In origine era un ciuchino che scendeva dalla discesa ripida di via Roma ad Agira.

Tic toctoc, tic toctoc sull’acciottolato di sassi grigi, un’andatura ritmica in simbiosi con chi gli stava sopra: di qua e di là, di qua e di là, passo dopo passo.

L’ho guardato incantata: era lui, non c’è dubbio.

Così mi sono ritrovata in un labirinto scolpito nella pietra.

Ero persa.

È complesso vivere nello smarrimento, nel disorientamento che spinge alla follia.

Srotolo il filo in cui mi sono avvolta per liberarmi dal Minotauro.

So che c’è un’uscita: devo solo trovarla.

Il viaggio negli intrecci degli affetti disegna nuove rotte e riempie le stanze rimaste vuote di presenze buone.

Come dedicarsi a quello che fa stare bene, al largo dagli errori.

Senza guardare indietro.

E il percorso nei meandri del cervello risolve il rompicapo, definisce un ordine.

Pim pum pam Patapam

Questa non è una scintilla.

Questo è un fuoco d’artificio che va in qua e in là, sopra e sotto, di città in città, di ricordo in ricordo.

La classe di un paese del lecchese è in visita a Roma. Siamo a Piazza di Spagna, davanti alla scalinata di Trinità dei Monti. La Barcaccia zampilla acqua che si raccoglie nella vasca. Le bambine sono perplesse. “Come si lavano i panni in questa fontana?” chiede una di loro.

Venivamo da Nava, il paese di quei tempi, mi è rimasto nel cuore. Fuori dal mondo, fuori dal tempo. Per arrivare lì ogni mattina c’era da fare un lungo viaggio: ci si inerpicava su strade strette, senza alcuna protezione, che si affacciavano sul dirupo. Spesso la nebbia la faceva da padrona e la neve cadeva abbondante.

Una volta non potemmo tornare a casa.

Ci rifugiammo nell’unica locanda del paese dove nel grande stanzone privo di finestre si mangiava, si beveva, si giocava a carte riscaldati da un enorme camino. L’aria era fatta da un misto di tabacco e odori grassi di una cucina così diversa da quella della mia famiglia. I colori di Caravaggio rendono l’idea di quelle pareti annerite dal fumo, rischiarate da poche luci, con gli avventori vocianti seduti sulle panche.

La camera da letto con le lenzuola di bucato ci accolse per la notte.

Nava è stata il mio primo contatto con la natura. Mia madre aveva da fare con gli alunni, c’era da gestire mia sorella: non aveva tempo di stare dietro a me. Così io passeggiavo libera lungo i sentieri sterrati che partivano dalla scuola e si ramificavano nei campi.

Aria, terra e cielo tutti per me.

Terapeutici come l’amore.

“Sembri intelligente” aveva detto la maestra guardando la foto in posa fatta dal fotografo.

Finalmente vivevo l’intelligenza della natura.   

Pim pum pam Patapam

Questa non è una scintilla.

Questo è un fuoco d’artificio con gli scoppi del vociare della gente che rimbalza tra i vicoli, condito dal cigolio dell’arrotino, dalle grida degli ambulanti.

“Ah ah, calia, semenza, basilicò!”

“Ah ah, calia, semenza, basilicò!”

Ah ah, questa non è una scintilla, è un fuoco d’artificio.

Deflagra nell’esplosione di voci, richiami, rumori che provengono da botteghe, bassi, laboratori artigianali che si estendono al di fuori, per strada.

Dovevo scegliere se rimanere lì, da quei ragazzi che cerchiano le botti o tornare indietro.

Sono tornata indietro.

Molti anni dopo una donna ieratica guarda al di là dell’orizzonte oltre una vecchiaia che la vede scivolare su avvenimenti, fatti, situazioni senza inquietudine o forse no, a momenti, dipende.

È una dea, è un’ape regina: difende il suo alveare.

Con il passare dei giorni i lineamenti mutano, si alterano.

“Chi è quella?”

“Sono io?”

“Ma no, dai, non mi assomiglia proprio!”

Di foto in foto si fossilizza la realtà del cambiamento, delle trasformazioni.

Pim pum pam Patapam

Questa non è una scintilla.

Questo è un fuoco d’artificio che va in qua e in là, sopra e sotto, di città in città, di paura in paura.

L’aria sa di polvere da sparo.

Ecco laggiù la nera signora.

È inutile far finta di non vedere.

Mi tengo a debita distanza, la osservo, la studio.

Come sarà il passo a due?

Potrei saltare in groppa al cavallo bianco e gridargli: “Salvami, salvami: corri a perdifiato, presto più presto, non ti fermare.”

Ma non fugge, anche lui vuole sapere.

Sarà al mio fianco come io sono stata accanto a lui la notte che se n’è andato. Una lacrima gli è scesa mentre gli dicevo addio.

Non si può più trattenere questa voglia incontrollata.

Mi sento una molla pronta a scattare.

Un istinto non va frenato altrimenti muore.

Ma ci vuole prudenza e un passo di velluto.

Io con una patente da incendiaria mi dedico ad un’edizione straordinaria: quiete rivoluzionaria.

Serve molta calma per non bruciare come carta.

Ecco, intanto però, ridere, ridere, ridere ancora per spaventare la nera signora.

“Nel frattempo dammi qualcosa da bere, dammi qualcosa da mangiare: mi devo rinforzare prima che il coraggio scivoli lentamente verso un nuovo oblio.”

La pioggia profuma questa vita infernale.

C’è solo da stare attenti a quanta ne cade.

Squilla il telefono.

Rispondo.

Un’immagine per Nadia – La donna e la sua treccia

La treccia – di Nadia Peruzzi

In primo piano sono le mani. Nodose, rugose, avvizzite.  La pelle, prosciugata, forse per l’età, forse per il clima, più probabilmente per una vita non facile e faticosa.
Sono belle queste mani . Raccontano storie. Ci vedo un po’ mia nonna quando si faceva la crocchia che ha portato per tutto il tempo che l’ho conosciuta. Mi ricordano quelle delle donne nerovestite dei villaggi del sud del paese, del primo dopo guerra e anche di molto tempo dopo.
In realtà fino dal primo sguardo alla foto, di impatto la mente è volata lontano. Fra boschi e praterie e piccoli accampamenti adesso diventati villaggi.  
Nel tempo che si intrecciava i capelli i rumori che potevano arrivarle alle orecchie, quelli dei lavori manuali che in una tribù Cherokee uomini e donne facevano per vivere e tirare avanti. Non aveva vissuto quel periodo, lo aveva sentito attraverso i racconti di quelli che erano stati vecchi molto prima di lei. Le sere stellate e senza vento si accendevano.
Attorno ai falò volti arrossati e attenti . Nei loro occhi ogni volta scorrevano immagini , come stare dentro un film.  L’arrivo dell’uomo bianco , il cavallo d’acciaio, i soldati blù , nulla poteva essere dimenticato e veniva tramandato di generazione in generazione.
Quello che era dei nativi, era stato profanato e occupato da altri, più forti che man mano li avevano costretti a vivere in riserve, a vendere oggetti da cartolina, e souvenirs per chi aveva visto troppi film di John Ford e pensava che nella nuova frontiera tutto funzionasse a meraviglia. Soprattutto quelli che ancora pensavano che la nuova frontiera fosse di diritto cosa sua.  Chi ci abitava prima, scarafaggi da schiacciare. Nulla di più.
Del suo profilo si vede poco. Io me la immagino fiera, la immagino accaldata attorno ad uno dei falò con le scintille che le ballavano attorno e la facevano risplendere .
Fiera come tutti coloro che hanno una storia che li ha forgiati e che, pur se vinti, non dimenticano. Non vogliono dimenticare!
Il gesto con cui si fa la treccia racconta di un’abitudine di anni e anni. Lei , la moglie del capo tribù , un po’ sciamana, amava presentarsi al meglio.
Le coppie che arrivavano, masticando chewing gum e sputacchiando tabacco su macchinoni fluorescenti e pacchiani la guardavano come se fosse un fenomeno da baraccone. Sicuramente un essere inferiore rispetto a loro.
Nessuna idea che fosse la discendente del più potente capo dei Cherokee. Quello che più a lungo aveva combattuto per difendere la sua terra, contro i visi pallidi che uccidevano le loro mandrie, stupravano le loro donne, rapivano i loro bambini.
Una storia mai scritta la sua. Perché l’unica esistente era quella dei vincitori, ed era stata scritta in spregio delle ragioni del suo popolo.
Adesso vendeva ninnoli. Vi era costretta.  Ma ogni volta che l’ultimo dei visi pallidi, spesso cafoni, lasciava il negozio convinto di aver capito tutto di chi fossero stati e chi erano i Cherokee che abitavano quella regione,  si guardava allo specchio con occhi fiammeggianti. Ritrovando l’aria sprezzante che era da una vita nel suo DNA, finiva regolarmente per sputare in terra mentre chiudeva la porta del negozio .
Un grido forte, ogni volta: “ Shits”, ”Merde”!!

L’immagine per Rossella – Il cavallo bianco

Bianco cavallo…la poesia sbagliata… – di Rossella Gallori

I N I Z I O❣

Non usare i nostri nomi, era stato un tacito accordo, per non farsi male, per non fare male ad un altro lui, ad un’ altra lei.

C’era stata una intesa immediata, tra due che ben poco si piacevano…forse fu colpa di una telefonata, un errore di nome.

Proprio noi che proprio per scelta un nome non ce l’ avevamo:

Io bella signora, tu bel signore….

Siamo andati avanti per mesi, più mesi…anni, toccandoci quando capitava, buttando giù qualcosa nei mille bar di quasi periferia, solo per sfiorare un ginocchio, per togliersi dalle labbra lo zucchero o quell’ ultima goccia di panna che affondava temeraria, in un caffè amaro e bollente…

Ci siamo visti poco, amati abbastanza, quell’amore un po’ a fine corsa, a volte inventato, riscaldato senza microonde, cotto con le nostre mani.

Io che osavo tacchi, tu che osavi parole…io che mi sentivo libera, tu che ti credevi libero….

F I N E✏

Arrivò un giorno:

Giorno d’acqua e vento.

Giorno di silenzio.

Diciamolo giorno di merda.

Mi dedicarti versi, tu che di poesia non ne avevi  mai masticato un minuzzolo, diventai ai tuoi occhi questo:

Una cavalla bianca, stanca.

Dalla coda bagnata, la criniera arruffata.

Una fata poetessa, dentro una rimessa.

Una lipizzana slovena, con la voce da sirena.

Lessi, riflessi, mi trovai disarcionata, infreddolita ed attonita, difronte a tanta bruttezza, al cospetto di una poesia senza senso, scritta forse al bar della Esselunga o alla Coop a Gavinana.

Mi sentii come una bimba caduta dal seggiolone, mentre mangiava, tolsi la pastina dai capelli grigi, rialzandomi presi il telefono, cancellai dalla rubrica: bel signore e lo sostituii con  Osteopata Brandi, che non eri tu….

P I Ù  C H E  FINE📚

Mi guardai bene allo specchio, più che lipizzana, mi sentii strana, piuttosto anziana, un prodotto in scadenza, della poesia un vago ricordo, solo una cavalla bianca che scacciava mosche con la coda e gli zoccoli affondati in un miscuglio di cacca e fango….

Un’immagine per l’ispirazione di Lucia – Il cavallo bianco

Cavallo in corsa – di Lucia Bettoni

È una fuga o è la forza?
Stai scappando o stai vivendo?

Arranchi nella notte
Piangi e ti disintegri

Poi soffi forte e il petto si allarga

Cerchi il cuore e lo tieni in mano

Lo ascolti palpitare e lo guardi immobile

Intorno il buio
Intorno il nero

Le lacrime stringono la gola e
il respiro si blocca

Paura, terrore, la terra trema

Cumuli di roccia rotolano a valle

Respira , respira, respira più forte

Una forza bianca
Una forza primordiale spacca il nero
sbriciola la notte

                    e avanza
         la direzione è avanti
         la direzione è in avanti

                   Non voltarti
                   Prosegui

Il petto è grande
Il cuore palpita

La potenza del bianco
Senza briglie
solo con la forza
Senza briglie
solo con l’anima

Sei energia pura
Sei quella liquida linfa
che sale dalle gambe
le mie gambe

Sei latte
Sei nuvola
Sei un velo da sposa
Sei la bellezza che irradia la notte
Sei il bianco fuoco d’artificio
che festeggia la vita

Sei il bianco candore bambino
che culla ogni dolore



Una seconda immagine ispira Luca – L’uomo a cavalcioni dell’asino

Uomo sul ciuco – di Luca Miraglia

In un torrido e tormentoso tripudio
di sole mattutino sta polveroso
e bigio occhi chiusi e capo chino
il ciuco vizzo di soma e di fatica

stesso colore e posa dell’uomo
un po’ più in là all’ombra delle case
fiammeggianti di bianco e di calore
tutti circondati dal crepitare

acceso di cicale e dalla calma
risacca del grano accarezzato
dalla mano bollente di scirocco

che ottunde terra case uomo e bestia
in un unico tuonare di colori
dai toni incandescenti e senza fiato.

L’immagine che ispira Luca – La donna con la treccia

Intrecciarsi – di Luca Miraglia

Antico come il monte da cui discende, il torrente fluisce lento fin quando, improvviso e verticale, precipita dal colmo e s’intreccia e rimbalza su scogli rugosi come nocche scolpite dal tempo e dal lavoro.

L’acqua si placa su un lieve piano orizzontale per poi ricomparire in nuovi spruzzi che sgorgano tra anfratti e sporgenze, e rilanciarsi nel vuoto.

Poco più in su, al margine del vorticoso fluire, pende dai rami un frutto di melograno, seminascosto come preziosa e delicata gemma, ad ornare quel balzo candido di gorgoglianti frangenti.

Ascolta…

nel gentile frastuono dell’acqua che scorre, nei massi incastonati sul fianco del monte che la contengono quasi come mani avite, puoi sentire il suono del tempo passato, che passa, che passerà

L’ispirazione in una foto – Carla e la donna sola

Donna sola – di Carla Faggi

Ci sono tanti tipi di paura ma la sua non è quella forte, acuta e adrenalinica, è più quella sottile quasi impalpabile che non chiameresti neppure paura perché è più sofferenza diffusa, instabilità interna, quel sottile malessere che ti fa dubitare di tutto, anche del tuo essere lì ora, quella da debolezza alle gambe, che ti fa porre mille domande a cui non sai rispondere.

La donna fissa il vuoto davanti a se e permette ai suoi pensieri negativi di aggrapparsi silenziosamente al cuore; chi è lei in fondo, una donna sola che non ha nessun altro oltre a lui, non figli, non nipoti, solo lui.

Si accarezza i suoi lunghi capelli come a proteggersi dal senso di confusione e dalla mancanza di respiro che sente subentrare ma ormai la sua sottile paura è diventata ansia ed è straripata in previsioni negative e catastrofiche.

Paura della propria morte. Di una propria morte dolorosa. Paura della morte di lui. Di essere lasciata sola.

E allora la sua preghiera va a lui: non lasciarmi ti prego, non ammalarti, non morire. Non prima di me. Non lasciarmi sola