La treccia – di Nadia Peruzzi

In primo piano sono le mani. Nodose, rugose, avvizzite. La pelle, prosciugata, forse per l’età, forse per il clima, più probabilmente per una vita non facile e faticosa.
Sono belle queste mani . Raccontano storie. Ci vedo un po’ mia nonna quando si faceva la crocchia che ha portato per tutto il tempo che l’ho conosciuta. Mi ricordano quelle delle donne nerovestite dei villaggi del sud del paese, del primo dopo guerra e anche di molto tempo dopo.
In realtà fino dal primo sguardo alla foto, di impatto la mente è volata lontano. Fra boschi e praterie e piccoli accampamenti adesso diventati villaggi.
Nel tempo che si intrecciava i capelli i rumori che potevano arrivarle alle orecchie, quelli dei lavori manuali che in una tribù Cherokee uomini e donne facevano per vivere e tirare avanti. Non aveva vissuto quel periodo, lo aveva sentito attraverso i racconti di quelli che erano stati vecchi molto prima di lei. Le sere stellate e senza vento si accendevano.
Attorno ai falò volti arrossati e attenti . Nei loro occhi ogni volta scorrevano immagini , come stare dentro un film. L’arrivo dell’uomo bianco , il cavallo d’acciaio, i soldati blù , nulla poteva essere dimenticato e veniva tramandato di generazione in generazione.
Quello che era dei nativi, era stato profanato e occupato da altri, più forti che man mano li avevano costretti a vivere in riserve, a vendere oggetti da cartolina, e souvenirs per chi aveva visto troppi film di John Ford e pensava che nella nuova frontiera tutto funzionasse a meraviglia. Soprattutto quelli che ancora pensavano che la nuova frontiera fosse di diritto cosa sua. Chi ci abitava prima, scarafaggi da schiacciare. Nulla di più.
Del suo profilo si vede poco. Io me la immagino fiera, la immagino accaldata attorno ad uno dei falò con le scintille che le ballavano attorno e la facevano risplendere .
Fiera come tutti coloro che hanno una storia che li ha forgiati e che, pur se vinti, non dimenticano. Non vogliono dimenticare!
Il gesto con cui si fa la treccia racconta di un’abitudine di anni e anni. Lei , la moglie del capo tribù , un po’ sciamana, amava presentarsi al meglio.
Le coppie che arrivavano, masticando chewing gum e sputacchiando tabacco su macchinoni fluorescenti e pacchiani la guardavano come se fosse un fenomeno da baraccone. Sicuramente un essere inferiore rispetto a loro.
Nessuna idea che fosse la discendente del più potente capo dei Cherokee. Quello che più a lungo aveva combattuto per difendere la sua terra, contro i visi pallidi che uccidevano le loro mandrie, stupravano le loro donne, rapivano i loro bambini.
Una storia mai scritta la sua. Perché l’unica esistente era quella dei vincitori, ed era stata scritta in spregio delle ragioni del suo popolo.
Adesso vendeva ninnoli. Vi era costretta. Ma ogni volta che l’ultimo dei visi pallidi, spesso cafoni, lasciava il negozio convinto di aver capito tutto di chi fossero stati e chi erano i Cherokee che abitavano quella regione, si guardava allo specchio con occhi fiammeggianti. Ritrovando l’aria sprezzante che era da una vita nel suo DNA, finiva regolarmente per sputare in terra mentre chiudeva la porta del negozio .
Un grido forte, ogni volta: “ Shits”, ”Merde”!!
Un’immagine nell’immagine, una foto che ne scatena altre, bellissime, e parole che raccontano storie come “Le sere stellate e senza vento si accendevano”. Mi piace questa scrittura appassionata, che guarda il presente e il passato e anche un certo futuro, il tutto avvolto nel dolore inevitabile del sopruso
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Ancora una volta una storia “dall’altra parte”,un bel racconto che ci fa intuire quanto abbiamo perso nello sterminio intrapreso dai cosiddetti “buoni”.
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Emozioni dettate, dalla conoscienza emozionale e materiale di popoli e luoghi dove un gesto racchiude una storia….
…se poi, ciliegia sulla torta, se ne acquisisce la lingua ….il gioco è fatto…e fatto bene.
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Quante storie non scritte ma mai dimenticate e quante storie scritte solo dai vincitori che spesso quando si raccontano diventano sempre quelli buoni. Quante volte la storia si ripete e non cambia mai.
Cara Nadia…purtroppo…
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Anche io ci vedo la mia nonna che tutte le mattine si svegliava e si faceva la crocchia. Le nonne del nostro tempo avevano la crocchia non conoscevano colore, permanenti, colpi di sole.
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Bello questo viaggio fra immagini che s’intrecciano e raccontano vite diverse e quella storia mai scritta è sicuramente una storia profondamente vissuta
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