Rossellina immaginaria – da Accanto a un bicchiere di vino

Sono immaginaria – di Rossella Bonechi

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Il tavolo è tavolo    il vino è vino   il bicchiere è bicchiere   io invece sono immaginaria fino al midollo

Quindi posso essere di volta in volta quello che voglio o quello che posso, mai una cosa sola, mai un’unica cosa.

Quindi non so di che materia sono fatta, né servile come un tavolo da ballarci sopra né da riempire di sguardi altrui come un bicchiere né inebriante ma per poco come il vino.

Forse sono immaginaria perché non voglio essere definita, ho parti nascoste di me che mutano e variano a seconda del raggio di luce che le illumina.

Forse sono immaginaria perché così posso contenere tante me tenute insieme dai miei princípi e valori e mi piace pensare che quelli non siano affatto immaginari.

E quando sento di sfumare nel troppo indefinito inizio a ballare. Ballo e ballo perché la concretezza del mio corpo mi strappa giù dalle stelle.

Duello di luci – seconda suggestione di Luca da Accanto a un bicchiere di vino

Sguardo di stelle – di Luca Miraglia

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Lo sguardo butterato dalle stelle

se ne sta stralunato a rimirare

la notte ritornata ad ingaggiare

il suo duello con le luci urbane

e muovendosi lento passo a passo

scansando le luci dei lampioni cerca

nell’oscurità intensa sopra la testa

forse quello spazio che gli è negato

dal vivere ai margini o sulla soglia

dell’alienazione con una vaga

coscienza della propria condizione

e perciò è ostile ad ogni contatto

che lo distolga anche un momento

dall’intensa ricerca del suo cielo.

Il chiodo alla parete per Gabriella – da Accanto a un bicchiere di vino

Alla parete un chiodo solo – di Gabriella Crisafulli

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Alla parete un chiodo

Il quadro manca

C’è una che balla e balla

e balla ancora

come non l’ha fatto mai

come le va

Donna immaginaria

hai preso la mela

e sei fuggita:

non si fa così

perché il vino è vino

e poi sali sul tavolo

mentre la rosa si tinge di rosso

e canti tutto l’amore che c’è

Pensiero tardivo

mentre le ali spuntate

germogliano

una vecchia baldracca

La pianta di rosa di Stefania – da Accanto a un bicchiere di vino

Sotto una pianta di rose – di Stefania Bonanni

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Sotterrai l’ ombelico caduto

sotto una pianta di rose.

Nacque una rosa bianca.

Sotterrai l’ ombelico caduto

sotto una pianta di rose.

La rosa bianca crebbe altissima e dritta,

piena di bocciolo e di petali,

gonfia come una promessa, morbida come una piuma,

senza spine.

Sotterrai l’ ombelico caduto

sotto una pianta di rose.

La rosa bianca si vedeva da lontano,

più alta e più bianca.

Era nata dal roso  che conservava nella terra

l’ ombelico caduto.

L’ avevo sotterrato perché era nata una bimba, che avrebbe avuto, così,

una voce bellissima.

La rosa bianca fu colta per gioco, da un ubriaco che la porto alla moglie.

Resto sul tavolo ad appassire, e quando si ritrovò macchiata di vino, pianse.

Avrebbe saputo cantare, se fosse stata spruzzata di vino per un brindisi d amore.

Lo sguardo per Anna – da Accanto a un bicchiere di vino

C0N UNO SGUARDO MI HAI RESA PIU’ BELLA – di Anna Meli

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            E l’amore arrivò improvviso come una folata di vento profumato.

            Solo uno sguardo, il tuo, mi fece sentire bella, felice, luminosa e amata.

            Nel tuo sguardo la leggerezza di un gioco.

            Dentro me lo scintillio di una stella.

            Rimasi come sospesa sperando che quella sensazione non svanisse.

            Fu così ogni volta per lungo tempo, e sarà cosi.

            Quella stella non perderà la sua luce fino al momento che ci ritroveremo.

            La custodirò come la cosa più preziosa.

Vino aspro – seconda suggestione di Nadia da Accanto a un bicchiere di vino

Le trasparenze in un bicchiere di vino – di Nadia Peruzzi

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Come in un quadro di Dégas, se ne stavano lì attorno a quel tavolino coperto da una tovaglia a quadri che a considerare le macchie, doveva aver visto passare un intero mondo in quella giornata umida e fredda.
Seduti accanto, lo sguardo fisso sui bicchieri.
Il vino era di quelli a buon mercato, tendente al pessimo. Aspro e senza anima. Non aveva la forza di creare riverberi sollecitato dalla luce.
Le lampadine erano fioche in quella bettola e i bicchieri sporchi non avevano trasparenze.
Si ritrovavano li da mesi, ormai.
Non si erano guardati in faccia nemmeno una volta. Forse per la paura di vedere sé stessi, come in uno specchio di disperazione .
Erano due anime perse. Anche la speranza non abitava più nei loro cuori. Erano due nessuno, di quelli che passavano in mezzo alle persone senza che nessuno li notasse o rivolgesse loro la parola.
Invisibili, avevano scordato anche i loro nomi visto che non li sentivano pronunciare da tempo. Si aggrappavano al primo nome che sentivano, anche se sapevano che non era il loro.
Quella vicinanza silenziosa, in quel bar, aveva creato un qualche contatto fra loro.
Nel prendere il bicchiere l’uomo quella sera sfiorò per caso la mano della donna.
Qualcosa nello sguardo di lei si accese. Si volse verso di lui e lo salutò come se fosse appena arrivato.
Lui si riscosse. Stava per rispondere. Ma era orario di chiusura.  Il padrone si era avvicinato per ricordarglielo.
Uscirono nella notte. Vicini e silenziosi.
Si diressero in una stradina poco distante. In terra coperte sporche e cartoni, pronti a diventare giacigli per la notte.
Si misero accanto, quella sera. Si strinsero forte, e non si lasciarono più.
La mattina dopo, li trovarono abbracciati, ma freddi come il marmo.
Quel poco di calore che erano riusciti finalmente a donarsi, non era bastato a proteggerli.  

Trasparenze di Nadia – da Accanto a un bicchiere di vino

Le trasparenze in un bicchiere di vino – di Nadia Peruzzi

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La luce del camino rendeva ambrato il colore del vino nel bicchiere. La bottiglia era già vuota. Lo colpì il riflesso nel bicchiere. Ci scorse un volto. Amato e odiato al tempo stesso. Pensarla gli suscitava questo doppio sentimento e anche tanto dolore.
Se allungava la mano per prendere il bicchiere sapeva che il riflesso se ne sarebbe andato e con lui l’immagine che l’aveva , per un attimo, riportato a molto tempo prima.
Era un tavolo come quello .
Lei ad ogni sguardo si accendeva di una luce particolare .
Aveva le guance arrossate, ma gli occhi avevano un che di triste . Se ne andò prima del dolce. Aveva bevuto tanto. Non avrebbe trovato il coraggio di dirgli addio in altro modo. Era brilla e poco stabile sulle gambe mentre se ne andava.
Lui rimase seduto a guardare la traccia di rossetto rimasta sul bicchiere.
La sua bocca era lì. Per sentirsela vicina ,portò il bicchiere alle sue labbra, come in un ultimo bacio.
Sentì uno schianto fuori dal ristorante .Voci ed urla lo risvegliarono dal torpore e dalla delusione dell’abbandono, si incamminò verso l’uscita con gambe di piombo.
La vide per terra . Esanime. Il suo abito bianco era coperto di chiazze rosse che non lasciavano alcuna speranza.
Quanto tempo era passato da allora . Non era riuscito a dimenticare quella sera .
Nel riverbero del camino ,nel bicchiere gli sembrò di veder apparire una farfalla con le fattezze di lei.
Impalpabile, quasi eterea.
Aveva ballato una sola estate. Era stato bellissimo, in quella piazza francese dove il tango sembrava di casa .

Gli occhi di Carla – da Accanto a un bicchiere di vino

Guardami negli occhi – di Carla Faggi

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Gira gira il tornio e lei, argilla, diventa ciò che le mani di colui che ama, vuole.

Gira gira il tornio e lei è di volta in volta tutto quello che gli occhi di lui vogliono vederci, e così cambia forma, pensieri, umore.

Gira gira, si trasforma e balla, e si racconta: sono stella, sono vaso, sono fiore, sono foglia, sono a tua immaginazione. È bello sentirsi amati, è bello essere negli occhi di chi ti ama. Lui è felice ed io lo sono.

Ballo ballo,  e divento rosa bianca e canto una melodia in rosso.

Giro giro…fino a che il tornio si ferma, ed io resto lì come argilla informe, mi guardo attorno e vedo solo un chiodo senza quadro.

Come vorrei essere il quadro! Ma un quadro come voglio io, non come te artista che ama mi vorresti.

Voglio essere di porcellana, nascere da argilla bianca, diventare rosa rossa, vestirmi di dignità, profumare di orgoglio, ballare anche da sola.

Eccomi sono bella! Guardami con gli occhi che vedono ciò che io sono.

La Luna di Luca – da Accanto a un bicchiere di vino

La Luna e le Stelle – di Luca Miraglia

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Lo sguardo puntato all’orizzonte e la bocca spalancata, Luna si nutre di stelle e della fresca brezza della notte: prelibatezze per la sua anima eterea e crepuscolare.

Leggera danza la sua vita spargendo goccia a goccia la sua essenza che magicamente infonde al mondo intorno la facoltà del canto e tutto inizia a risuonare al suo passaggio.

Luna non conosce la direzione ma, imbevuta di quell’amore che non sa più dove andare, segue la mappa sfuggente delle costellazioni del suo cuore soffiate nella notte dallo spirito prezioso del nettare che ancora addolcisce le sue labbra…

La stella di Lucia – da Accanto a un bicchiere di vino

Ho inghiottito una stella – di Lucia Bettoni

foto e disegno di Lucia Bettoni

Felice ho inghiottito una stella
Felice ho assaggiato la luce

Uno squarcio azzurrognolo
in gocce liquefatte e trasparenti
mi ha trapassato la pelle

Il tuo sguardo mi rende bella
e di bellezza posso parlare
e di bellezza posso vedere

Con un salto da gazzella
ti incontro a mezz’aria

Con un battito d’ali mi innalzo
al di sopra della nebbia

Con un ruggito da leone
esploro la caverna
che ti racchiude

Un piccione viaggiatore in picchiata
sfiora la terra e raccoglie la stella
espulsa dal mio pollice destro

Stringe la stella nel becco
in una morsa d’acciaio e
attraversa tutto l’universo
per raggiungere il tuo nido

È un messaggio
Un messaggio per sempre


Rossella e l’immaginario – Da Accanto a un bicchiere di vino

Io sono immaginaria… – di Rossella Gallori

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sono immaginaria…

 come immaginari sono i miei pensieri, i miei desideri.

Voglio quella stella lassù, la vedi anche tu? La metto sul viso come un immenso neo luminoso.

Voglio le “ gambette” leggere di un piccolo daino, per salire e  scendere, arrampicarsi, bere vino dai ruscelli.

Sono immaginaria…

come immaginari sono i miei sogni: qualcosa di rosso, alcolico e forte, tanto di ieri, un bicchiere scarso di oggi. ..

Sono immaginaria…

E ballo, male ma ballo, ubriaca di inutile sobrietà.

 Voglio scarpe diverse per percorrere nuove strade, cercando marciapiedi larghi, comodi…io e le mie illusioni, camminiamo tenendosi per mano.

Sono immaginaria…

perché non esisto, non appartengo ai sogni di nessuno e tutti sono nei miei sogni…chi mi bacia, chi mi accarezza, qualcuno ha un fiore per me, petali color rimpianto, foglie sottili…..poi mi sveglio ed ancor meno reale, non ho coperte, non ho lenzuola, non ho stanza…

Forse non esisto…

Ma ballo, ballo, nella mia casa immaginaria, al numero zero di una strada che non c’è, danzano con me le mie tende inesistenti, trasparenti e coprenti.

Parlo senza parole, scrivo senza mani, volo senza ali…

Sono immaginaria…

Non mi  vedo nello specchio, non mi rifletto nell’acqua…

Lo sguardo di lui per Sandra – da Accanto a un bicchiere di vino

Il tuo sguardo mi ha reso più bella – di Sandra Conticini

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Il tuo sguardo mi faceva sentire bella. Ero contenta quando mi guardavi perchè mi  sentivo importante.

Non importava parlare tra noi, bastava  uno sguardo e già avevamo capito tutto.

Ero una Venere tra le tue braccia, con un’occhiata riuscivi a darmi sicurezza e tranquillità. Capivo quando era il momento di  o tacere e, se a volte mi sembrava di aver sbagliato, mi mortificavo ma poi in breve tutto si risolveva con un tuo sguardo benevolo.

Nonostante il tempo passato, non mi sono scordata le nostre espressioni complici, ed i primi momenti sono stati tristi e difficili da superare perchè non trovavo i tuoi  occhi che facevano da specchio, ma era rimasto solo un chiodo arrugginito dentro. 

La “scintilla” di giovedì 14 dicembre – Accanto a un bicchiere di vino

Accanto a un bicchiere di vino Poesia di WISŁAWA SZYMBORSKA

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Con uno sguardo mi ha resa più bella,

e io questa bellezza l’ho fatta mia.

Felice, ho inghiottito una stella.

Ho lasciato che mi immaginasse

a somiglianza del mio riflesso

nei suoi occhi. Io ballo, io ballo

nel battito di ali improvvise.

Il tavolo è tavolo, il vino è vino

nel bicchiere che è un bicchiere

e sta lì dritto sul tavolo.

Io invece sono immaginaria,

incredibilmente immaginaria,

immaginaria fino al midollo.

Gli parlo di tutto ciò che vuole:

delle formiche morenti d’amore

sotto la costellazione del soffione.

Gli giuro che una rosa bianca,

se viene spruzzata di vino, canta.

Mi metto a ridere, inclino il capo

con prudenza, come per controllare

un’invenzione. E ballo, ballo

nella pelle stupita, nell’abbraccio

che mi crea.

Eva dalla costola, Venere dall’onda,

Minerva dalla testa di Giove

erano più reali.

Quando lui non mi guarda,

cerco la mia immagine

sul muro. E vedo solo

un chiodo, senza il quadro.

Il biscotto “scintilla” per Lucia

La bambolina di pane – di Lucia Bettoni

foto di Lucia Bettoni

Attraverso alcuni campi del podere della mia famiglia scorreva un piccolo ruscello:
“il fosso”
Ad un certo punto del suo percorso il fosso formava una grossa pozza “la gora”.
Avevo circa cinque anni, forse di meno
Ero in compagnia di un bambino ma, nonostante la rarità del caso generalmente ero sempre sola, non ricordo chi potesse essere
Insieme a questo bambino mi avvicinai alla gora e con dei piccoli bastoncini cominciammo a giocare con la terra bagnata ai bordi della pozza
I miei genitori lavoravano  nei campi vicini
Ad un certo punto io e il bambino decidemmo di giocare a far finta di pescare
Prendemmo un bastoncino più lungo
e ci mettemmo proprio sull’orlo della pozza
Pescare voleva dire cercare di tirare su più pezzi possibile del muschio verde che galleggiava sull’acqua
Il muschio vicino al bordo diminuiva ed io mi sporgevo sempre di più nel tentavo di “pescare” il muschio più lontano
Scivolai e caddi nella pozza
L’acqua non era profonda, riuscivo a tenere la testa fuori
Annaspavano con le braccia per cercare di non affogare
Non ero mai stata al mare, avevo un terrore folle dell’acqua
Era la prima volta che mi trovavo completamente immersa nell’acqua
Non avevamo la vasca da bagno
La mamma mi lavava sempre in dei catini dove l’acqua al massimo arrivava ai polpacci
Credo di aver fatto sempre il bagno in piedi da piccola
Cominciai a urlare chiamando il babbo, anche il bambino urlava
Il babbo arrivò poco dopo, mi salvò
Pensavo che mi avrebbe sgridata, invece ricordo solo molta dolcezza
La mamma mi tolse i vestiti bagnati, mi lavo’ con “l’acqua della paura”
Era dell’acqua nella quale  faceva bollire dell’erba  trovata nei campi e che secondo lei serviva a calmare una persona dopo uno spavento
Credo di essere stata lavata con questa acqua almeno tre o quattro volte da bambina
È strano, ma di questo episodio non sono la drammaticità o la paura dell’acqua che hanno il primo posto nel mio ricordo
Il primo posto è riservato alla dolcezza del “dopo”
Mia madre mi curò, mi mise un vestito pulito del quale mi ricordo perfettamente la forma e il colore
Era un vestito fatto con due tipi di stoffa, la gonna era a quadretti bianchi e arancione, il corpetto invece era arancione più chiaro dove in nero vi erano stampate delle bambine un po’ stilizzate girate a coppie in senso opposto legate tra di loro dalle trecce dei capelli
Anche io portavo le trecce
La cosa più dolce però rimane il fatto che quel giorno il forno fosse acceso per fare il pane ed io ricordo che tutta pulita,lavata,pettinata,coccolata, curata
scesi le scale
Il forno del pane era situato alla metà della scala
Sentii il calore del fuoco e l’odore del pane e vidi il sorriso sul volto dei miei familiari
Ebbi la netta sensazione di essere diventata dopo quel bagno nella gora una bambina nuova, una bambina saggia, una bambina felice
La mamma quel giorno fece per me una bambolina con un pezzo di pasta e la mise a cuocere in forno
Gli occhi erano due carboncini neri
La bambolina si poteva mangiare ma io non lo feci

Pensieri notturni di Stefania, senza categoria

I pensieri delle tre – di Stefania Bonanni

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Arrivano e non si sa da dove siano partiti, né perché. Ti strappano un sogno come fosse di carta, e lo riducono in briciole. Ti riempiono la mente e ti sbattono al muro. Prepotenti ed insaziabili, duri come sassi, e girano, girano, senza tempo e senso, forse. Non seguono le regole della vita di giorno, sono figli di quelle ore di notte nelle quali il buio fitto comincia a dipanarsi. Ore nelle quali si annacqua la dimensione sconosciuta, buia, con i mostri sotto il letto, e si capisce che continuerà per un altro consueto giorno perlomeno, la vita solita, tranquilla, quella con i mostri che hanno nomi e cognomi, di persone, malattie, lutti, e che ci e’ toccato scegliere. Ma i pensieri delle tre restano immobili, pronti a tornare, in un’ altra notte. Stanno attaccati alle pareti, hanno zampette con le ventose, come i gechi, e come loro non si vedono di giorno.

Le tre di notte sono perfette, perché si impossessino delle menti, senza che le vittime abbiano possibilità di salvezza. Non ci saranno rumori,  a distrarre, né voci, ad interferire, né luci, a disturbare, né compiti urgenti da assolvere, né appuntamenti da rispettare, né compagnie, a rincuorare. Alle tre siamo soli, e non ci saranno dolci sogni, per continuare a dormire. Alle tre comincia lo spazio altro, quello inutile e inutilizzato, quello di una dimensione parallela nella quale i pensieri crescono come i funghi che nessuno osa raccogliere. Mangerecci e velenosi ma cresciuti vicini, cosicché un po’ tutti velenosi, ingarbugliati e dalla crescita tentacolare. A raccoglierne uno si rischia di tirare su un campo di radici. E quando piove, come tutti i funghi, crescono di più. Con attenzione infinita, si può sentire il crepitio dei pensieri che attecchiscono di più nell’ umido dei muschi.

Quest’ anno volevo ricordare di giorno, e come in tutti i miei giorni l ho fatto, ho festeggiato il compleanno del mio babbo, ma non avevo fatto i conti con i pensieri delle tre. E’ stata dura, durissima. Era un’ altra storia, diversa ma ben conosciuta, anche quella. Un dolore atroce, e non serve il tempo che passa. Forse sarebbe utile, se passasse il tempo ma io fossi sempre quella di allora. Io sono un’ altra oggi, e spero di essere un’ altra ancora, domani, e rivedo tutto, e ripatisco tutto, come cosa nuova, come per non aver capito, non aver visto bene. Poi, arrivano le quattro, e sono pronta a ricominciare. Il mio babbo ha novantatre anni.

L’immagine per Daniele – Il Gettone

Il gettone sempre in tasca – di Daniele Violi

Un gettone. Mi gettò un gettone che presi al volo. Ero piccolo, appena 10 anni. Mio Padre mi gettò un gettone. Cosa poteva significare, mi chiesi. Tutte le altre mie amiche e gli amici di gioco, portavano in tasca un gettone, tutte e tutti con un dolce sorriso mostravano il loro gettone che tenevano in tasca. Via via che si poteva avere per regalo il gettone ambito e utile per dimostrarsi importanti e maturi seppur ancora piccole e piccoli, il gettone donato dai propri genitori ci faceva sentire, bambine e bambini, con il pensiero più legati alle persone adulte e ciò ci dava sicurezza. Certo un gettone che aveva la sua utilità; potevi telefonare, ma potevi anche usarlo per salire sulle macchinette scontro del Luna Park, chiedere all’ortolano di poter avere una banana, il tuo gettone restava sempre con te, con il gettone quando in solitudine tornavamo a piedi da scuola, ci si poteva sentire protetti ed aiutati dal mondo di persone che ci circondava. Ognuna e ognuno aveva il suo gettone. Era proprio un mondo di sogni veri e volevamo conoscere i sogni nascosti forse tristi e violenti che ci raccontavano le favole, scritte per darci con la fantasia la vita di un mondo che non esisteva e che pensavamo dopo per questo di aver avuto fortuna a “scamparla bella”.

Quindi il gettone era una forza che come una freccia si scagliava dal nostro arco rappresentato dalla nostra tenera età. Un gettone che ci potevamo scambiare perché era uguale per tutte e tutti. Se capitava che lo perdevi sicuramente chi lo trovava te lo faceva recapitare. Ad ognuna e ognuno il suo. Nessuno ti chiedeva se avevi il gettone in tasca. Lo dimenticavo a casa, non era un fatto grave, comunque avevi la solidarietà di chi aveva il gettone. Il gettone dava tanta sicurezza di non incontrare difficoltà. Via via nel tempo il gettone serviva per avvicinare le persone, sembrava talvolta come una pietra miliare a cui ti potevi affidare; ogni distanza sociale tra te e la realtà, veniva sempre ridotta, si viveva con allegria e con gentilezza e il pensiero al gettone che tenevamo in tasca ci rinfrescava dalle fatiche della Vita. Il gettone era una grande forza per tutte le persone, che diventate da piccoli a grandi, si erano coccolati al pensiero del loro gettone che si tenevano sempre stretto tra le mani e ben custodito in tasca. Il gettone rappresentava la loro vita, le loro ambizioni, la tranquillità e la loro crescita culturale.

Ma questo gettone, la sua magia, le sue grosse capacità, un Gettone, con la Bandiera della Pace incisa da un lato, un Aratro al centro di un Assise di Banchi in circolo dall’altro lato. Il gettone portava con sé e rappresentava, la Massima Espressione di una Comunità; tutto.   

Un’immagine di duro lavoro per Patrizia – La donna con la treccia

Capelli bianchi e mani dure – di Patrizia Fusi

Capelli lunghi e bianchi, mani indurite dalla vecchiaia e dai lavori faticosi compiuti.

Orecchino di foggia antica, rimasto dalla prima comunione, uguale a tutti quelli che venivano regalati in quella occasione dalle famiglie contadine abbastanza agiate.

Vedo una bambina che vive in campagna abituata a contribuire alla coltivazione dei poderi.

Nella sua famiglia e in quella degli zii  avevano la fortuna che tutti i bambini  andavano a scuola, il nonno (capoccia) aveva deciso che dovevano imparare a leggere e a fare di conto, perché quando sarebbero diventati adulti dovevano sapersi rapportare con il fattore, capendo quello che gli spettava.

Era diventata una bella ragazza, nella famiglia aveva compiti diversi dai suoi fratelli e dai suoi cugini maschi, le femmine dovevano accudire alla casa sotto la direzione della massaia ( la nonna o la più anziana del gruppo)

La mattina accendevano il fuoco nel grande camino realizzando dei bei tizzoni roventi su cui veniva posizionato il paiolo, legato alla catena e che la massaia adoperava per cucinare.

C’era da procurarsi l’acqua, rassettare le stanze, accudire agli animali da cortile, mungere le vacche, preparare il latte da consegnare alla cooperativa, aiutare a pulire la stalla, andare all’orto per fare quello che c’era da fare  secondo le stagioni, raccogliere le verdure già mature e portarle alla massaia che le avrebbe adoperate per dei buoni piatti.

Un giorno della settimana veniva fatto il pane, in quella occasione si facevano delle formine a pupazzetto con dello zucchero sopra: era una coccola per i bambini di casa.

C’era da fare i lavori di cucito, i lavori a maglia, fare il bucato.

 Quando ce n’era bisogno andare anche nel podere.

Una vita molto dura per il lavoro manuale, difficile per avere armonia fra le famiglie, cercando di tenere a freno le gelosie che si formavano.