Il pacco FRAGILE di Anna

LA SCATOLA FRAGILE – di Anna Meli

            Fra le mani una scatola confezionata con carta antica sulla quale sta scritto “ fragile”. La osservo girandola da ogni lato, cerco di individuare una possibile chiusura, la annuso, la scuoto leggermente: niente proprio niente, sarà mica vuota?

Vuoto, fragilità.

            Petardi e fuochi d’artificio in quella notte di fine- inizio anno. Vicino al letto lo osservavo respirare sempre più lentamente e carezzavo le sue mani senza avere alcuna risposta, cercavo di comunicargli il mio amore per dargli conforto in quel tragico momento. Fuori la festa per l’anno nuovo si manifestava in tutte le sue forme con forti rumori di variopinti fuochi d’artificio. Io mi sentivo stanca e tesa allo stesso tempo nell’illusione di un impossibile miracolo. Il tempo trascorreva inesorabile e lento.

            Poi tornò la quiete in quella notte buia insieme a quel respiro sempre più lento finché tutto fu compiuto. L’angoscia mi assalì impadronendosi di tutta la mia persona rendendomi incapace di ogni movimento, mi sentii fragile vuota come se tutto il mio vissuto fosse stato cancellato e se ne fosse andato insieme a lui.

Ricordando quei momenti rivivo ancora quel dolore che tengo chiuso in una scatola vuota con su la scritta “ fragile”.

Il pacco FRAGILE di Sandra

Inadeguatezza – di Sandra Conticini

Fragilità in 10 parole: E’ sentirsi inadeguato con persone ed amici in qualsiasi ambiente.

Luigina, che tutti chiamavano Gina, non si dava pace. Suo figlio Domenico detto Mimmo di ormai sette anni stava sempre chiuso in casa a studiare. Non faceva combriccola come tutti i ragazzi del rione che andavano per strada a giocare a pallone, a chiacchierare di sport, a ridere di niente. Gina pensava a cosa poteva aver sbagliato. Gli altri tre figli erano un po’ scapestrati, ma non aveva avuto nessun problema. Mimmo era arrivato dopo ben 10 anni da Cesare, il terzogenito, e lei era già in là con gli anni. Lo aveva viziato un po’  perché non aveva troppa salute, aveva una malformazione al cuore ed era soprappeso. Tutti i problemi di famiglia pesavano su di lei, il marito lavorava in Germania e, quando andava bene, tornava una volta l’anno, soldi ne mandava pochi e raramente e Gina per tirare avanti, andava a fare un po’ di pulizie, ma i soldi non bastavano. Mimmo a scuola non andava volentieri, anche se era bravo, perchè naturalmente lo prendevano tutti in giro, gli nascondevano i lapis, la gomma  e quando uscivano gli fischiavano e lui non reagiva mai perchè quei bambini della sua età gli facevano paura. A metà anno scolastico fu messo accanto ad una bambina di nome Rosa con  occhi scuri quasi neri e capelli lunghi lisci . Con lui era molto carina e dolce, si scambiavano la merenda, le penne qualche volta facevano un pezzetto di strada insieme, Mimmo iniziò sentire le farfalline nello stomaco… era forse quello l’amore? Si chiese.

I ragazzi continuavano a prenderlo in giro, ma un po’ meno, però Mimmo notava che giravano un po’ troppo intorno a Rosa e a lui questo lo disturbava abbastanza. Così un giorno all’uscita di scuola chiamò  Pino, il capo branco della classe, e gli disse di stare alla larga dalla sua compagna di banco. Lui gli mollò uno schiaffo e scappò così Mimmo gli andò dietro correndo sempre più forte, ma più correva più gli mancava il fiato, il respiro divenne affanno poi cascò sul selciato…. il suo cuore gli aveva fatto un brutto scherzo.

Il pacco FRAGILE di Cecilia

La scatola fragile – di Cecilia Trinci

E’ tutto dentro questo computer. Foto, scritture, diari di bordo, attimi. Anche qualche sogno stropicciato.

Apro il coperchio, si accende la luce dello schermo che non basta per vederci bene anche sui tasti, gli occhi sono diventati fragili col tempo. E allora accanto al computer accendo un lume antico, con lampadina a basso consumo. Lo schermo acceso è chiaro e vedo che le lettere nere si avvicendano scattanti via via che scrivo, come sto facendo adesso.

Cancello, torno indietro, i pensieri sono fragili, hanno bisogno di parole, spesso anche di fatti, di azioni che realizzino un pensiero o di ricordi su cui prendere fiato.

Questa scatola rettangolare molto fragile contiene tutto questo tempo, questo lavoro inventato, questi pomeriggi di incontri e sogni prestati.

L’umore è fragile. Ultimamente di più, come se la buccia del cuore fosse un po’ lisa e a tratti si possa rompere, tanto è diventata trasparente.

Cerco nelle cartelle secondo le parole chiave e trovo, ma non sempre. A volte la ricerca va a vuoto perché le parole stanno dentro i files ben nascoste e non sempre trovo le pagine che cerco al primo colpo. Riprovo e riprovando trovo altre cose non stavo cercando. Mi fermo, leggo, mi perdo. Incontro una vecchia foto archiviata non so perché nella stessa cartella dove sto frugando. Le foto fermano periodi interi, li definiscono, li inchiodano.

Ho cartelle per ogni anno o per ogni settimana, ci sono i files registrati con tutte le conversazioni delle Matite. Ci sono i video del periodo lokcdown. Li ho copiati ovunque perché sono fragili. Può bastare un click sbagliato per perdere tutto: anni di parole.

Leggo, rileggo, le parole contengono aria vissuta, sospiri di emozioni che sono svaniti nel momento stesso in cui sono stati detti, confessati. Nessuno di noi ricorda cosa ha detto, non ricordo cosa ho risposto io; di tutto ciò che si prova o si dice resta sempre solo il sapore, un retrogusto forte, una scia che si aggiunge alla crosta di vita che ci portiamo dietro e dentro un inconsapevole chissà.

I pensieri sono fragili, volano via, come gli anni, silenziosi, frettolosi.

C’è stato l’anno dei due gruppi separati, l’anno delle scritture su carta che ricopiavo la sera, l’anno delle passeggiate, l’anno delle scatole a sorpresa, l’anno dei vestiti scambiati, dei cappelli, delle bottiglie blu, delle esperienze al buio. Non si può ricordare, fisicamente, tutto questo percorso fragile.

Eppure niente è volato via, è in questa scatola fragile, che è poi una manciata di fili oscuri, di contatti metallici, una macchina magica che qualcuno giudica un ordigno demoniaco che ci ha cambiato la vita. Basta nulla, in verità, perché si fonda o si blocchi.

Sono qui, ora, in questo pomeriggio fragile di fine inverno, non ho la penna d’oca come Alfieri, ma parlo con un video acceso che si anima, risponde, racconta, suggerisce. Forse l’ipotesi di uno “studio matto e disperatissimo” per raccontare la nostra avventura mi affascina, stare in questa stanza, in questa luce incerta mi fa sentire protetta.

Leggo da un libro accanto a me: “L’amicizia è uno specchio in cui l’uomo si riflette. A volte, chiacchierando con un amico impari a conoscerti e comunichi con te stesso (…) Capita che l’amico sia una figura silente, che per suo tramite, si riesca a parlare con se stessi, a ritrovare la gioia dentro di sé, in pensieri che diventano chiari e visibili grazie alla cassa di risonanza del cuore altrui (…) L’amicizia si fonda dunque sulla somiglianza, ma si manifesta nella diversità, nelle contraddizioni, nelle differenze. Nell’amicizia l’uomo cerca egoisticamente ciò che gli manca e nell’amicizia tende a donare ciò che possiede” (parole di Vasilij Grossman Vita e destino, riportate da Alessandro D’Avenia, in L’arte di essere fragili).

Perché essere fragili, saperlo essere, saperlo dire è la cosa più dolce che ci rende forti

Il pacco FRAGILE di Nadia

Fragilità – di Nadia Peruzzi


Il termine di per sé non incute timore. Anzi con quel finale accentato risuona così bene da apparire bello.
Pensiamo al cristallo.  Certo che si può rompere anche solo con uno sguardo e tradursi in polvere. Ma per delicatezza e sapienza di lavorazione, un bicchiere passando sul bordo un dito inumidito può anche regalarci una vera melodia.
Eppure, basta solo una scritta su una scatola a metterci in ansia. Anche se la scatola è vuota, e nasce come una delle tante invenzioni di Cecilia.

Lo sappiamo da sempre che ogni cosa si porta con sé il suo lato fragile.
Un oggetto, un cuore (parecchio), un sentimento, un volto la cui bellezza nell’arco della vita cambia mille e mille volte. Il nostro corpo prima pieghevole in massimo grado e in grado di reggere colpi anche duri e che si fa via via più rigido e delicato.
Ogni movimento perde elasticità, vigore e ritmo e anche l’animo non è più baldanzoso e reattivo ma si piega e tende a cedere, come canna ad ogni filo di vento contrario.
Quando siamo piccoli la fragilità non la percepiamo nemmeno. Corre, con le sensazioni e i sentimenti, non siamo in grado di rendercene contro né abbiamo tempo di filosofeggiare su di essa.
È bisogno spasmodico di coccole, di attenzioni, di amore.
È nello svolgere il filo delle nostre vite che quel termine col finale che suona, prende corpo e ci rendiamo conto che farci i conti vuol dire sentirsi come funamboli inesperti che tentano ogni volta di salire su una corda messa sempre sempre più in alto. Fatica e sgomento spesso sono lì a farci compagnia, e sono una compagnia scomoda .
Una compagnia che non fa star bene. Mette ansia, paura, spaesamento, senso di impotenza. Spesso occhi da cane bastonato e angoli della bocca rivolti verso il basso.
Nasciamo e ci portiamo addosso questo fardello.
Siamo ad un inizio che comporta una fine, una data di scadenza.
Veniamo alla luce, letteralmente, sotto quelle lampade ad alta intensità, viviamo un momento di forte shock senza nemmeno rendercene conto.
E già la sera è lì dietro l’angolo ad aspettarci. Siamo un attimo breve, se confrontati all’eternità. Meno male che al momento, mentre il pianto che tutti si aspettano dichiara che si, siamo vivi, stiamo bene, siamo parte di questo mondo, non abbiamo nessuna idea di questo non piccolo particolare che ci riguarda.
Ce la godiamo appena ci mettono le tutine morbide e ancora di più quando attaccati alla mamma sentiamo calore e fonte di nutrimento e di amore.
L’essere umano è grande per questo. Nel suo contenitore è un crogiuolo di pensieri non solo negativi e una intera biblioteca di parole, anche se non si è letto un solo libro, che si traduce in sentimento e spinta ad andare avanti, nonostante tutto.  E al fatto di dover scadere come una mozzarella non pensa nessuno.
Ci soffermassimo troppo a ragionarci sopra alle fragilità che ci portiamo addosso e dentro, la specie umana non avrebbe fatto un solo passo avanti. Sarebbe ancora lì, coperta di pelli, al freddo di una spelonca a cercare il modo di accendere un fuoco.
Eppure, ammettiamolo con sincerità, con la fragilità dobbiamo farci a pugni appena prendiamo consapevolezza di noi.
A me sembra di averci dovuto fare a pugni da sempre.
Nell’adolescenza soprattutto. Stagione bastarda in cui sentiamo più i difetti che abbiamo che i pregi. Da qui insicurezza e spesso, soprattutto a scuola, l’essere giudice fin troppo severa di me stessa.
Non è da tutti essere più severi dei professori che poi decidevano i voti che prendevo.
Se guardo all’indietro gli anni migliori, quelli in cui il senso di fragilità l’ho tenuto a bada fino a farlo diventare inconsistente, sono stati quelli del mio impegno politico. Un partito di massa è stato letteralmente la mia seconda casa. Anzi a ben pensarci era la casa che consideravo ancora più bella della mia. Lo era, bella, proprio perché di tutti.
Amici, vicini di casa, compagni. È stata la stagione degli amori e delle lettere d’amore. Un intreccio personale e collettivo che proteggeva più di quanto non faccia la coperta che Linus si porta sempre con sé.
Anche se sai di essere un puntino in un mare vastissimo, ti senti forte, senti di ricavarne energie, hai la forza di pensare in grande, di mirare al cielo.
La stagione del “cambiamo il mondo alla radice” è stata così elettrizzante che non si faceva a tempo a star troppo a rimuginare su sé stessi. Eravamo la meglio gioventù e ci sentivamo forti ed invincibili.

E quando ci siamo sposati con Walter, ed è nata Irene la fase del benessere è continuata una buona decina d’anni. Dovessi tornare ad una stagione della vita non sceglierei mai i diciotto anni ma questo periodo d’oro, che va dai 35 ai 45 .

Col tempo abbiamo dovuto, come tutti, fare i conti con le assenze che pesano sulle nostre vite.
Un marito andato via troppo presto e da tanti, troppi anni. Anni in cui alla fragilità non potevo nemmeno pensare. Dovevo esser forte per mia figlia e per me. Non c’era tempo per sentirsi addosso macigni e insicurezze. Il tempo del dolore e delle lacrime doveva essere ritagliato, calibrato e consegnato a quando nessuno era nei paraggi per vedermi. Quante lacrime versate in bagno o la notte a letto.
Come tutti, in questi casi,  la vita ho cercato di reinventarmela mentre facevo a pugni con la fragilità, e le prendevo di santa ragione su quel ring.
La vita va avanti nonostante tutto. Deve andare avanti nonostante tutto.


Oggi allo scoccare dei 70 e con la somma di tutte le altre perdite e assenze (anche quelle collettive ) la fragilità si insinua come tarlo sottile. Lavora piano, subdolamente, la si tiene ancora a bada ma poi la bastarda prende campo e trova il verso di travolgerti.
Ci sono momenti in cui rimettersi in piedi si fa più difficile.
Mi ha aiutato nel frattempo la consapevolezza di aver vinta almeno la battaglia contro il senso di inadeguatezza, che mi ha accompagnato un po’ sempre.
La Peruzzi, dai sessant’anni si è scoperta meno fragile da questo punto di vista. Mi accetto come pacco completo.  Consapevole dei tanti difetti, ma anche dei pregi che ormai so di avere. Non mi sopravvaluto, mai fatto, la modestia è il lascito famigliare a cui tengo di più, ma nemmeno mi sottovaluto più. A punteggio mi sento a saldo zero, ed è una sensazione bellissima.
Ma, c’è sempre un ma.
E occorre affidarsi all’abbastanza.  Nessuna ola da fare quando ci si sente bene o benissimo. Mettere le mani avanti e star sul chi vive.
Perché fra capo e collo, quando non sto bene, il serpente maligno si insinua .
Fragilità non è più la bellissima melodia che può uscire da un bicchiere di cristallo, ma l’anima a pezzi, il bicchiere vuoto in un attimo, e l’avvoltoio di Panariello che sta appollaiato sul letto della nonna pronto a fare ciò che natura comanda.
La consapevolezza di avere più strada percorsa che da percorrere rende fragili. La finitezza di una storia, che è la tua,  si fa palpabile e a questo punto dobbiamo esser noi a darci begli schiaffoni per riprenderci dallo sconforto che ci porterebbe direttamente ad avvitarci in un vortice di paure e scoramento. Laddove non ce la si fa con gli schiaffi arrivano le goccioline di EN a dare una mano e almeno ci dormi sopra per le ore che servono a recuperare terreno.
Ogni mattina dobbiamo dirci viva la vita.
Viva figli e nipoti anche se e quando ti fanno un po’ arrabbiare ma sono la tua continuità, ci sono, e senti che nelle loro storie e nei loro sentimenti, oltre che in piccoli pezzi del loro DNA qualcosa di te c’è. È vivo e non si perderà con la tua assenza.
Ma come sappiamo il tarlo è subdolo, si insinua e si è fatto cattivo .
La guerra alle porte che rischia di essere nucleare è in mezzo a noi. Da un anno ormai, ma in realtà da prima quando la stavano preparando senza dircelo.
Fragilità oggi mi impone di tenere spenta la Tv e legger poco anche i giornali. Non mi va di sentire piccoli uomini, ma anche donne, tronfi che si riempiono la bocca del poco che vogliono farci sapere davvero sul vero stato delle cose e delle cause.  Piccoli e tronfi uomini e donne che disquisiscono del “nucleare tattico” come se una bombetta “di teatro” , come la chiamano i militari , facesse meno male di quelle che straziarono un tempo, e a guerra pressoché finita, Hiroshima e Nagasaki.
Fragilità è sentirsi senza una famiglia politica solida e capace di reazione. Capace di alzare la voce e aiutare milioni di voci ad alzarsi contro la guerra in casa e dietro l’angolo. Perché dando le armi noi siamo ufficialmente in guerra.  Possiamo essere bersagli.
Come si fa a non sentirsi sopraffare dal senso di fragilità e di scoramento di fronte a tutto questo?
In questi casi mi affido, come naufrago ad un relitto che mi tenga a galla.
La mia luce è pensare che nei momenti drammatici l’umanità, che non è vero che nasca con cattiveria innata, sa poi dare il meglio di sé. Lo abbiamo visto nella gara di solidarietà dei Turchi che sono accorsi in massa nelle zone del terremoto a portare aiuti, nelle catene umane nelle strade di Istanbul. Di notte, file lunghissime di persone a passarsi i pacchi da inviare in aiuto.  Spesso auto organizzandosi .
Insieme è la parola a cui mi aggrappo ancora adesso , come salvifica.
Una volta che la parola pace sembra diventata bestemmia, e anche il papa sembra parlare nel deserto.
Nel tempo in cui guerra è sdoganata e legittimata, ”insieme” è termine che allontana paura e senso di spaesamento e di impotenza rispetto al destino dei miei cari e di tutti gli altri.
In un insieme colorato di bandiere per la pace ieri abbiamo circondato gli Uffizi e come noi altri hanno fatto in altre città, non solo in Italia.
Meno male che ancora aggrappandomi a questo “insieme” posso sentire dentro di me la sensazione che nulla è impossibile e che se ci prendiamo per mano , in vista dell’abisso, possiamo tutti imporre di fare un passo indietro.
Siamo fragili in un mondo che è , per clima e altro, quasi più fragile di quanto non siamo noi stessi.
Ma, c’è un ma.  La speranza. Quella che non deve abbandonarci mai.

“Hey you. . ” ci dicono i Pink Floyd in una canzone bellissima “ non dirmi che non c’è alcuna speranza. Insieme  restiamo in piedi, divisi cadiamo”.  

Insieme contro la fragilità…possiamo fare in modo che sul ring i pugni li prenda più lei di noi!