Fragilità – di Nadia Peruzzi
Il termine di per sé non incute timore. Anzi con quel finale accentato risuona così bene da apparire bello.
Pensiamo al cristallo. Certo che si può rompere anche solo con uno sguardo e tradursi in polvere. Ma per delicatezza e sapienza di lavorazione, un bicchiere passando sul bordo un dito inumidito può anche regalarci una vera melodia.
Eppure, basta solo una scritta su una scatola a metterci in ansia. Anche se la scatola è vuota, e nasce come una delle tante invenzioni di Cecilia.
Lo sappiamo da sempre che ogni cosa si porta con sé il suo lato fragile.
Un oggetto, un cuore (parecchio), un sentimento, un volto la cui bellezza nell’arco della vita cambia mille e mille volte. Il nostro corpo prima pieghevole in massimo grado e in grado di reggere colpi anche duri e che si fa via via più rigido e delicato.
Ogni movimento perde elasticità, vigore e ritmo e anche l’animo non è più baldanzoso e reattivo ma si piega e tende a cedere, come canna ad ogni filo di vento contrario.
Quando siamo piccoli la fragilità non la percepiamo nemmeno. Corre, con le sensazioni e i sentimenti, non siamo in grado di rendercene contro né abbiamo tempo di filosofeggiare su di essa.
È bisogno spasmodico di coccole, di attenzioni, di amore.
È nello svolgere il filo delle nostre vite che quel termine col finale che suona, prende corpo e ci rendiamo conto che farci i conti vuol dire sentirsi come funamboli inesperti che tentano ogni volta di salire su una corda messa sempre sempre più in alto. Fatica e sgomento spesso sono lì a farci compagnia, e sono una compagnia scomoda .
Una compagnia che non fa star bene. Mette ansia, paura, spaesamento, senso di impotenza. Spesso occhi da cane bastonato e angoli della bocca rivolti verso il basso.
Nasciamo e ci portiamo addosso questo fardello.
Siamo ad un inizio che comporta una fine, una data di scadenza.
Veniamo alla luce, letteralmente, sotto quelle lampade ad alta intensità, viviamo un momento di forte shock senza nemmeno rendercene conto.
E già la sera è lì dietro l’angolo ad aspettarci. Siamo un attimo breve, se confrontati all’eternità. Meno male che al momento, mentre il pianto che tutti si aspettano dichiara che si, siamo vivi, stiamo bene, siamo parte di questo mondo, non abbiamo nessuna idea di questo non piccolo particolare che ci riguarda.
Ce la godiamo appena ci mettono le tutine morbide e ancora di più quando attaccati alla mamma sentiamo calore e fonte di nutrimento e di amore.
L’essere umano è grande per questo. Nel suo contenitore è un crogiuolo di pensieri non solo negativi e una intera biblioteca di parole, anche se non si è letto un solo libro, che si traduce in sentimento e spinta ad andare avanti, nonostante tutto. E al fatto di dover scadere come una mozzarella non pensa nessuno.
Ci soffermassimo troppo a ragionarci sopra alle fragilità che ci portiamo addosso e dentro, la specie umana non avrebbe fatto un solo passo avanti. Sarebbe ancora lì, coperta di pelli, al freddo di una spelonca a cercare il modo di accendere un fuoco.
Eppure, ammettiamolo con sincerità, con la fragilità dobbiamo farci a pugni appena prendiamo consapevolezza di noi.
A me sembra di averci dovuto fare a pugni da sempre.
Nell’adolescenza soprattutto. Stagione bastarda in cui sentiamo più i difetti che abbiamo che i pregi. Da qui insicurezza e spesso, soprattutto a scuola, l’essere giudice fin troppo severa di me stessa.
Non è da tutti essere più severi dei professori che poi decidevano i voti che prendevo.
Se guardo all’indietro gli anni migliori, quelli in cui il senso di fragilità l’ho tenuto a bada fino a farlo diventare inconsistente, sono stati quelli del mio impegno politico. Un partito di massa è stato letteralmente la mia seconda casa. Anzi a ben pensarci era la casa che consideravo ancora più bella della mia. Lo era, bella, proprio perché di tutti.
Amici, vicini di casa, compagni. È stata la stagione degli amori e delle lettere d’amore. Un intreccio personale e collettivo che proteggeva più di quanto non faccia la coperta che Linus si porta sempre con sé.
Anche se sai di essere un puntino in un mare vastissimo, ti senti forte, senti di ricavarne energie, hai la forza di pensare in grande, di mirare al cielo.
La stagione del “cambiamo il mondo alla radice” è stata così elettrizzante che non si faceva a tempo a star troppo a rimuginare su sé stessi. Eravamo la meglio gioventù e ci sentivamo forti ed invincibili.
E quando ci siamo sposati con Walter, ed è nata Irene la fase del benessere è continuata una buona decina d’anni. Dovessi tornare ad una stagione della vita non sceglierei mai i diciotto anni ma questo periodo d’oro, che va dai 35 ai 45 .
Col tempo abbiamo dovuto, come tutti, fare i conti con le assenze che pesano sulle nostre vite.
Un marito andato via troppo presto e da tanti, troppi anni. Anni in cui alla fragilità non potevo nemmeno pensare. Dovevo esser forte per mia figlia e per me. Non c’era tempo per sentirsi addosso macigni e insicurezze. Il tempo del dolore e delle lacrime doveva essere ritagliato, calibrato e consegnato a quando nessuno era nei paraggi per vedermi. Quante lacrime versate in bagno o la notte a letto.
Come tutti, in questi casi, la vita ho cercato di reinventarmela mentre facevo a pugni con la fragilità, e le prendevo di santa ragione su quel ring.
La vita va avanti nonostante tutto. Deve andare avanti nonostante tutto.
Oggi allo scoccare dei 70 e con la somma di tutte le altre perdite e assenze (anche quelle collettive ) la fragilità si insinua come tarlo sottile. Lavora piano, subdolamente, la si tiene ancora a bada ma poi la bastarda prende campo e trova il verso di travolgerti.
Ci sono momenti in cui rimettersi in piedi si fa più difficile.
Mi ha aiutato nel frattempo la consapevolezza di aver vinta almeno la battaglia contro il senso di inadeguatezza, che mi ha accompagnato un po’ sempre.
La Peruzzi, dai sessant’anni si è scoperta meno fragile da questo punto di vista. Mi accetto come pacco completo. Consapevole dei tanti difetti, ma anche dei pregi che ormai so di avere. Non mi sopravvaluto, mai fatto, la modestia è il lascito famigliare a cui tengo di più, ma nemmeno mi sottovaluto più. A punteggio mi sento a saldo zero, ed è una sensazione bellissima.
Ma, c’è sempre un ma.
E occorre affidarsi all’abbastanza. Nessuna ola da fare quando ci si sente bene o benissimo. Mettere le mani avanti e star sul chi vive.
Perché fra capo e collo, quando non sto bene, il serpente maligno si insinua .
Fragilità non è più la bellissima melodia che può uscire da un bicchiere di cristallo, ma l’anima a pezzi, il bicchiere vuoto in un attimo, e l’avvoltoio di Panariello che sta appollaiato sul letto della nonna pronto a fare ciò che natura comanda.
La consapevolezza di avere più strada percorsa che da percorrere rende fragili. La finitezza di una storia, che è la tua, si fa palpabile e a questo punto dobbiamo esser noi a darci begli schiaffoni per riprenderci dallo sconforto che ci porterebbe direttamente ad avvitarci in un vortice di paure e scoramento. Laddove non ce la si fa con gli schiaffi arrivano le goccioline di EN a dare una mano e almeno ci dormi sopra per le ore che servono a recuperare terreno.
Ogni mattina dobbiamo dirci viva la vita.
Viva figli e nipoti anche se e quando ti fanno un po’ arrabbiare ma sono la tua continuità, ci sono, e senti che nelle loro storie e nei loro sentimenti, oltre che in piccoli pezzi del loro DNA qualcosa di te c’è. È vivo e non si perderà con la tua assenza.
Ma come sappiamo il tarlo è subdolo, si insinua e si è fatto cattivo .
La guerra alle porte che rischia di essere nucleare è in mezzo a noi. Da un anno ormai, ma in realtà da prima quando la stavano preparando senza dircelo.
Fragilità oggi mi impone di tenere spenta la Tv e legger poco anche i giornali. Non mi va di sentire piccoli uomini, ma anche donne, tronfi che si riempiono la bocca del poco che vogliono farci sapere davvero sul vero stato delle cose e delle cause. Piccoli e tronfi uomini e donne che disquisiscono del “nucleare tattico” come se una bombetta “di teatro” , come la chiamano i militari , facesse meno male di quelle che straziarono un tempo, e a guerra pressoché finita, Hiroshima e Nagasaki.
Fragilità è sentirsi senza una famiglia politica solida e capace di reazione. Capace di alzare la voce e aiutare milioni di voci ad alzarsi contro la guerra in casa e dietro l’angolo. Perché dando le armi noi siamo ufficialmente in guerra. Possiamo essere bersagli.
Come si fa a non sentirsi sopraffare dal senso di fragilità e di scoramento di fronte a tutto questo?
In questi casi mi affido, come naufrago ad un relitto che mi tenga a galla.
La mia luce è pensare che nei momenti drammatici l’umanità, che non è vero che nasca con cattiveria innata, sa poi dare il meglio di sé. Lo abbiamo visto nella gara di solidarietà dei Turchi che sono accorsi in massa nelle zone del terremoto a portare aiuti, nelle catene umane nelle strade di Istanbul. Di notte, file lunghissime di persone a passarsi i pacchi da inviare in aiuto. Spesso auto organizzandosi .
Insieme è la parola a cui mi aggrappo ancora adesso , come salvifica.
Una volta che la parola pace sembra diventata bestemmia, e anche il papa sembra parlare nel deserto.
Nel tempo in cui guerra è sdoganata e legittimata, ”insieme” è termine che allontana paura e senso di spaesamento e di impotenza rispetto al destino dei miei cari e di tutti gli altri.
In un insieme colorato di bandiere per la pace ieri abbiamo circondato gli Uffizi e come noi altri hanno fatto in altre città, non solo in Italia.
Meno male che ancora aggrappandomi a questo “insieme” posso sentire dentro di me la sensazione che nulla è impossibile e che se ci prendiamo per mano , in vista dell’abisso, possiamo tutti imporre di fare un passo indietro.
Siamo fragili in un mondo che è , per clima e altro, quasi più fragile di quanto non siamo noi stessi.
Ma, c’è un ma. La speranza. Quella che non deve abbandonarci mai.
“Hey you. . ” ci dicono i Pink Floyd in una canzone bellissima “ non dirmi che non c’è alcuna speranza. Insieme restiamo in piedi, divisi cadiamo”.
Insieme contro la fragilità…possiamo fare in modo che sul ring i pugni li prenda più lei di noi!