La foto scelta da Stefania: la città

La città nel buio – di Stefania Bonanni

Le luci di notte svelano il buio.

A Gotham City la notte è nera, l’aria è nera, le auto sono nere, gli uomini sono vestiti di nero.

Forse, ci fossero state donne a giro per le strade di notte, sarebbero state colorate. Le scritte a colori, in alto, sono pubblicità: massaggi, cera per scarpe, piselli surgelati, carta igienica, assorbenti con le ali. Son così in alto che sono visibili solo dal grattacielo dirimpetto, che è rimasto vuoto. Gli abitanti, stufi di vedere sempre e solo l’assurdo panorama, oltretutto lampeggiante, se ne sono andati. Hanno lasciato una scritta sul muro: meglio il buio. Meglio il buio che vederci chiaro. Avessero visto bene, avrebbero notato le tasche rigonfie degli otto uomini neri. Avessero visto meglio, si sarebbero impauriti. Li avrebbero visti scendere dalla macchina nera: cinque uomini di statura media, poi uno piccino che doveva essere stato a sedere in mezzo ai seggiolini dietro, poi due usciti dal cofano, che si srotolavano come contorsionisti, poi uno che era in collo ad un altro, e già questa era una di quelle cose che “prima” facevano certe donne. Che sia un’evoluzione della specie? O un sussulto di femminismo sulla scena del crimine?

Perché di scena del crimine si tratta, questo è fuori dubbio. Si sentirà parlare di questo San Valentino, così come è stato per quello di tanti anni fa. Da un momento all’altro tireranno fuori l’artiglieria, e si sentiranno cantare i ferri.

E passa mezz’ora. Nulla.

E passa un’altra mezz’ora. Nulla.

Il pericolo è che passi altro tempo, e la notte buia schiarisca. Perché, con l’alba, tutto prende un altro sapore. Il nero è meno nero. Il rosso è meno rosso.

All’improvviso: eccolo. Il segnale tanto atteso.

Dall’angolo della strada sbuca un venditore indiano con in mano un gigantesco mazzo di rose rosse, che consegna al primo degli uomini neri in fila.

A breve, quattro di quegli uomini stringono emozionati al petto rose rosse, e tutti ed otto entrano trionfalmente nel ristorante cinese al pianterreno del grattacielo, per festeggiare un San Valentino romantico, che più romantico non si può.

La foto scelta da Nadia, come un quadro

Come in un quadro di Edward Hopper – di Nadia Peruzzi


Sembra un quadro di Hopper. L’ho scelta per questo.
Mi hanno attratto il gioco di oscurità e ombre al di fuori, e le luci su alcuni particolari all’interno del negozio.
L’uomo con le mani in tasca sembra cercare qualcosa. Ma è molto più di quello che potrebbe trovare in quel negozietto che sicuramente vende un po’ di tutto.
Sembra attratto da quel po’ di luce e di vita che vede muoversi là dentro.
Le due ragazze sono vive, si parlano. Forse stanno scegliendo qualcosa dagli scaffali, forse si stanno raccontando di ciò che hanno in mente di fare più tardi. Da sole o in compagnia.
Lui osserva da fuori.
Solo.
Come se fosse seduto in una sala cinematografica e vedesse scorrergli davanti i fotogrammi di un film che per un attimo si è bloccato su quel negozio e su quelle due figurine.
La ragazza vestita di giallo lo attrae. Sembra un raggio di sole caduto sulla terra che ha la capacità di illuminare un piccolissimo punto in una notte per il resto scura, cupa, piena di ombre.
Ombra fra le ombre, pur nella sua calma apparente sembra un uomo molto solo che cerca di ingannare il tempo.
Vuol prolungare il più possibile lo star fuori da una casa poco accogliente o fuori da un hotel 5 stelle super nel quale alloggia quando arriva in città per lavoro.
Hotel pieno di confort rispetto alla casa anonima, anche se arredata a suon di griffe e di graffe di grandi firme del design di ultima moda.
Hotel di classe asettico, con le mura che trasudano di spaesamento da mondo indaffarato che corre e si arrabatta fuori, che sa di lunghe ore passate su un PC a leggere le quotazioni di borsa, il valore delle materie prime quelle su cui  poi fare scommesse miliardarie. Alta finanza insomma in grado di affamare gran parte del globo con un click sulla tastiera e molto pelo sullo stomaco.
In piedi osserva. Non agisce.
Probabilmente dietro alle sue spalle un intero mondo di umani si muove a ritmo incessante. Avanti e indietro. Una folla anche rumorosa che qui resta in disparte, come non esistesse. Invisibile con il fardello dei propri problemi, le proprie ansie, i propri sogni e la fin troppa miseria.
Chissà chi sarà quest’uomo?
Troverà qualcuno che glielo chiederà?
Penso di no. A vederlo da dietro, così fermo a osservare una scena così normale come quella che ha di fronte, sembra volersi aggrappare a quella normalità, che per lui non deve essere abituale.
È vestito come noi ma potrebbe in fondo, anche essere un alieno in doppio petto, che prova a capire cosa sia il nostro mondo, con la sua astronave parcheggiata dietro l’isolato.
Oppure qualcuno che entrato in una macchina del tempo ha fatto uno scarto di qualche anno indietro, ritrovandosi in una dimensione che non è del tutto la sua.
Sembra prendere atto di ciò che vede, più che gioirne.
Non si vedono i suoi occhi, le sue espressioni. Quelle potrebbero aiutarci molto a capire anche qualcosa della sua anima.
Così prevale la sensazione che si prova di fronte ad alcuni dei quadri di Hopper. Per quante persone e oggetti lui raffiguri, a colpire è il senso di solitudine estrema dei personaggi e della scena in cui si muovono.
Anche gli oggetti per quanto li possa colorare, non hanno vivacità, fanno da controcanto a questa solitudine e la rendono assoluta.
Del resto il poeta non scrisse “ Ognuno sta solo sul cuor della terra, trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera”?
La sera è arrivata. È più notte che sera. Notte anche profonda a vedere l’oscurità che avvolge il nostro uomo.
Cinese? Occidentale?
Rimane un mistero. È un essere umano che forse sta solo guardando la sua immagine riflessa nel vetro del negozio e ciò che vede non lo soddisfa nemmeno un po’.

La Foto scelta da Rossella G.: le ragazze

TRE – di Rossella Gallori

La notizia arrivata in modo strano, lasciò freddo, molto freddo.

La foto riemerse da un cellulare che non c’ era, avvolta nella nebbia, che poi era sole, raggi di sole.

Il sale era stato lavato dai mesi autunnali, dal cazzeggio di un settembre/ottobre, tardi per essere estate, presto per esser Natale…

Anni di differenza, pochi, portafogli diversi, mariti disuguali, dialetti sconosciuti l’ uno all’ altro.

Eppure si erano trovate, due con lo stesso nome ed una con un nome doppio, altisonante, nobile  di casata, sabauda nelle origini, la ricordava bene lei, che era la superstite: con il Moetchandon mignon, nel borsone di paglia, insieme agli spinelli, ad una matita per gli occhi turchese ed al biberon per la bimba, i costumi firmati sotto, sopra, il copricostume abbinato, il cappello di paglia in tinta con gli occhi: immensi e azzurri….da gatta incazzata, dal volere tutto e subito e da ottenerlo, sempre

 Risate mal contenute, le loro in un alternarsi di: aiuto affogo, ora basta nhe ….e stasera champagnino o pizza?

Giornate dalle grida e i silenzi improvvisi, alternati agli scherzi da bimbi per i bimbi.

Nella foto lei è quella che ride, forse sghignazza…

L’ altra, al centro dell’ immagine, è una dei due nomi uguali: austeramente ruspante, coperta anche sulla spiaggia da magliette un po’ maschili dalle scritte buffe, un libro in mano, sempre, che forse non leggeva ma dava tono, la borsa da mare ricavata dai jeans, dentro un tritio di cose: cremoni, cibo, carte da gioco e acqua per il suo bimbone:  c’ha sempre sete, l’ è una spugna, se un ci penso io…..e i su babbo pesca, pesca, ma icche pesca.

Diceva di sé che da bimba era così bella che l’ aveva esposta in vetrina il fotografo al paese.

Ridevano in tre e sembrava una bocca sola, la foto sembrava più nitida, ora, con i ricordi per contorno ed i sogni per dessert.

Era novembre, si un “Un bellissimo novembre”  avevano mollato la ciurma: marito, figli, cani, gatti ed erano partite per ritrovarsi, treni diversi, valige  fatte di corsa, quando si è giovani serve poco, anzi meno; la stessa meta, che forse era Venezia, dove non arrivarono mai, si fermarono a Mirano, in alberghetto affollato e casinoso, come loro, con i loro trent’anni, come il loro parlare fitto fitto, ed il ridere di nulla, fotografato in un giorno di quaranta anni fa, con il sole che sembrava nebbia e la nebbia sole.

O forse era solo una foto sfocata di sentimenti.

La” superstite” aveva ancora quello scialle, uno scialle triste, senza sorriso, era troppo ieri e lei era solo il nome uguale ad un altro ed una foto, si era solo troppo ieri.