Passi di Carmela nel bosco

Non sono sola – di Carmela De Pilla

foto di Carmela De Pilla: Pratomagno

Ogni volta che sento la necessità di assaporare le meraviglie della natura vado lì, nel bosco a pochi passi da casa mia, mi avvio verso la salita sdrucciolevole e accompagnata dal borbottio degli scarponi e dal respiro che diventa via via più ansimante cammino a passo lento perchè i miei sensi possano nutrirsi di ogni piccolo piacere.

Il freddo pungente mi solletica il viso, mi piace e in quel momento sento che non sono sola, mi immergo tra colori, profumi, ombre, luce e mi abbandono a quella pace, la vecchia quercia è sempre lì, austera e protettiva, rassicura il timido agrifoglio che sfoggia le bacche rosse, è ancora giovane e le foglie spinose sono pronte a difenderlo.

Il sole mi imprigiona fra i suoi raggi e alcuni, rapiti dalle fronde degli alberi creano giochi di luce che seducono i miei occhi e intanto mille ricordi si rincorrono e leggo come in un libro brani della mia vita e via via che il passato si affaccia mi innamoro sempre di più della mia storia.

Poi un rumore interrompe i miei pensieri, cerco l’intruso e vedo nella sua eleganza quasi regale l’upupa con la corona in bella mostra, ma la sorpresa dura poco perchè sospettosa com’è vola via e in un attimo sparisce tra gli alberi.

Sul ciglio, tra i rami secchi ricoperti di muschio bagnato dalla rugiada spuntano timidamente le prime viole e mi soffermo a guardare il forte contrasto tra il verde intenso e il viola quasi cupo.

Cammino senza nessuna fretta, non voglio perdere nessuna di quelle meraviglie e intanto frugo tra i miei pensieri e così passo dopo passo mi sento quasi nuova, pronta a continuare a scrivere la mia storia.

Verso la Cappelletta di San Rocco con Nadia

PASSO DOPO PASSO – di Nadia Peruzzi


Quanti passi avrò fatto per arrivare fino a questo punto della mia vita? Non lo saprò mai. Sarebbe interessante se in dotazione avessimo, fra le tante cose di cui disponiamo come specie umana, pure un contapassi. Da attivare, al bisogno.
Chissà se a 70 anni potrei leggerne fino a centinaia di migliaia o addirittura milioni.
Passi che hanno accompagnato passaggi tristi, passi baldanzosi e quasi di corsa come quelli di quando siamo ragazzi.
Passi per i momenti di spensieratezza e di felicità.  Ad ognuno il suo sentimento collegato.  
Perché è certo, non camminiamo mai sempre allo stesso modo.  A volte ci trasciniamo stanchi o appesantiti da interrogativi e dubbi, a volte siamo leggeri come l’aria.
Mi è venuto da pensare a tutto questo dopo il nostro giovedì alla carrozza che ci ha portato sui grandi sentieri e i grandi percorsi.
Itinerari lunghi o lunghissimi che attraversano paesi e paesi e sono anche storie di individui e di popoli in marcia fino dalla notte dei tempi.
Non ho l’’età per farli. Ammiro molto chi li intraprende, anche solo per tratti.
Ogni volta che sento parlare di cammino, al mio camminare associo la montagna che ho conosciuto da bambina .
I crinali dell’Appennino Ligure dove tutto era bello ai miei occhi.
Se chiudo gli occhi rivedo quelle strade sassose, i boschetti di noccioli, i prati con le mucche al pascolo, le fontane abbeveratoio, i nostri luoghi di sosta, da cui zampillava un’acqua cristallina e gelida da far venire le pelle d’oca anche in agosto.
La montagna impone razionalità, non bastano l’amore e il cuore.
Le mete andavano e vanno studiate. Per farsi le gambe, ogni giorno un po’ più lontano e con salite sempre con un pizzico di pendenza e di fatica da aggiungere.
I nomi della meta per il giorno dopo, potevano avere il suono della sfida.
La cappelletta di San Rocco incombeva sul paese. Se alzavi gli occhi da casa te la ritrovavi quasi sulla testa.  Dal paese era solo salita . Erba, sassi, salita, testa bassa e tanta fatica.
Il sentiero era in zig zag fra l’erba. Ci si arrivava belli provati ma da lassù la vista era superba. Sul paese e laggiù laggiù verso Genova e la costa,  dove qualche volta lo sbrilluccichio del mare era percepibile.
Ci sentivamo felici e appagati. Da bambini non si è in grado di comprendere fino in fondo quanta importanza possa avere anche esser riusciti a raggiungere la “nostra” cappelletta di San Rocco.
Si è dentro la metafora della vita e del vivere e non ne siamo consapevoli.
Ogni metro che facciamo mette alla prova e fortifica. Si impara anche dalle scivolate dove ci si sbuccia le ginocchia, dallo sbagliare strada e dalla fatica di cercarne un’altra che porti alla meta in modo più agevole.
In quel triangolo di paese, quasi da nulla proprio nel centro di quella porzione di Appennino, non si andava in cerca solo di questo.
Il bello era respirare l’aria di una comunità che si ritrovava. Si ricomponevano le famiglie con chi ormai abitava e lavorava a Genova,  e chi come noi ormai era in città ancora più lontane.
La fontana e la sua piazzetta con i sedili di pietra alle fiancate delle case era uno dei centri di ritrovo, insieme al piccolo bar sotto casa e al gioco delle bocce.
Anche noi bambini giocavamo a carte e a bocce dopo le scorribande fra i prati dietro casa e le partite a pallone.
I grandi attorno a noi parlavano spesso di sport, e politica.
Cose semplici e grandi insieme.
E le chiavi delle case erano dentro solo di notte. Durante il giorno le si vedevano fuori.
Un piccolo angolo di paradiso a pensare alle grate alle finestre e alle porte spesso blindate di oggi.
In quel mese d’agosto, con poco, ognuno aveva modo di trovare una sua dimensione diversa da quella del tran tran quotidiano. Tutto era più genuino.
Verso la fine della vacanza la camminata più lunga di tutte.
Di solito la si faceva in gruppi che nascevano volta per volta.
A ripensarla oggi agli occhi di un bambino di allora era l’equivalente di una tappa del Gran Tour degli scrittori dell’800, o della Francigena o del Cammino di Santiago di oggi. Cinque, sei ore in andata e altrettante al ritorno .
Una impresa epica come quelle che leggevo nei libri di Salgari.
Nessuna giungla da attraversare,  ma faggi, querce e castagni in quantità e sottobosco che spesso era un tappeto di mirtilli e felci con più di un tocco del rosa dei lamponi.
Il riposo dopo l’impresa, quello si doveva essere simile a quello di cui leggevo. Laggiù nella lontana Malesia Sandokan, dopo le sue memorabili imprese doveva sentirsi un po’ come mi sentivo io, mentre togliendomi gli scarponi per far prendere aria ai piedi indolenziti contavo le vesciche che erano spuntate qui e là e che mi avrebbero costretto a portare ciabatte da mare nei giorni successivi.
Quando vedo le foto dei miei nipoti in montagna torno anche io bambina con loro.
Sono contenta che l’amore per la montagna e il camminare che abbiamo cercato di trasmettere a nostra figlia sia arrivato anche a loro.
Loro vanno su cime alte.  Molto più dei 1600 metri dei miei inizi di bambina.
Il chiasso del mare, che pure amano, dietro le spalle. Nuovi suoni da apprezzare e di cui godere.  
Il borbottare del fiume e delle sue cascatelle, il fruscio del vento in mezzo alle fronde degli alberi, il sibilo della brezza tesa in quota, che piega anche gli steli d’erba più resistenti.
Il richiamo della natura si sente più forte in questo ambiente. Da ogni cosa anche piccola si leva un grido .  Rispettatemi e proteggetemi e potrete vivere in serenità e in pace con voi stessi e con gli altri.