L’8 dicembre di Stefania: un amore di compleanno

Il tuo compleanno – di Stefania Bonanni

È il tuo compleanno, un giorno per te. Ricordo la leggenda, tante volte raccontata dalla nonna. Era nel campo quando cominciarono i dolori. Raccattò la falce e piano piano camminò verso casa. Preparò le lenzuola pulite mentre il nonno con il carretto andava incontro alla levatrice, che sapeva del tempo che scadeva ed era pronta, la trovò sulla strada. Fu tutto veloce, la nonna non strillò, le contadine non strillavano, tante volte avevano visto le bestie mettere al mondo agnellini, vitellini, non era diverso. Strillavano le signore, le contadine no, non stava neanche bene.

Poi, a registrare la nascita andò il nonno dopo la festa. Sarà stato il nove, o forse il dieci. Andò il primo giorno che pioveva, e non si poteva andare nel campo. Disse che il bambino era nato nel giorno della Madonna, del resto che fosse il sette o l’otto, non cambiava nulla per nessuno. Noi ti si è sempre festeggiato l”otto. Me li ricordo, i tuoi compleanni, con festeggiamenti severi. la mamma e la nonna preparavano i cenci, che ti piacevano, o perlomeno dicevi ti piacessero. Un anno ti ho comprato un dopobarba, all’emporio, e mi sono sentita grande, una donna che compra un regalo da uomo all’Uomo di casa. La tua era una cifra da pochi fichi…..ma gli occhi…Hai sempre quegli occhi. Occhi da lanciare fulmini, ed un attimo dopo annegare nella nostalgia. Sei diventato vecchio, e mi sono sempre piaciuti gli uomini vecchi, convinta com’ero che saresti stato il più bello di tutti. Sei un vecchio bellissimo. Tanti capelli, e “di tanti capelli ci si può fidare”, bianchissimi da far pensare fossi biondo un tempo, e invece eri moro moro, con occhi di un azzurro che si vedeva da lontano. Un vecchio tutto nocche e ginocchi, con mani magre dalla pelle tesa, fragile e nervosa. Un uomo sempre colorito, con la perenne abbronzatura d’Arno, forse guardando bene hai qualche macchia, sulla pelle del viso, ma ti sta bene anche quella. Le spalle si sono un po’ curvate, gli anni e non solo gli anni, sono stati pesanti. Quando mi sono ammalata, mi ha curato e ho potuto cullarmi nei tuoi abbracci. Avevo bisogno di essere abbracciata, e di storie. E tu raccontavi, raccontavi, e non era il vino, allora. Erano storie come ponti, passerelle che attraversavano distanze e costruivano spazi nuovi, e non erano importanti né i nomi dei protagonisti, che si erano mescolati nei ricordi, né gli anni esatti. Anzi, la nebbia, il fumo, l’improbabile, aggiungeva, non toglieva, e la collocazione diventava “sempre”  e gli uomini e le donne erano “tutti gli uomini e tutte le donne”. E lo sai tu, e lo so io, che non si può fare di più, né meglio, che raccontare una bella storia. Alla fine, può essere il senso di tutto, raccontare, ricordare, una bella storia. O forse, una storia, anche brutta, anche dolorosa, anche finita male, o che non finirà, che sarà un mattoncino della nostra torre, forse inutile, ma indispensabile. Come quella di tu che mi siedi vicino, vecchio tu e vecchia io, che mi tagli a pezzetti quello che io non riesco a tagliare, a tavola. O che leggi prima di me quello che poi leggerò anch’io, e poi se ne riparla, e si cominciano discorsi che finisce l’altro, e si reagisce nello stesso modo, soprattutto al banale, con quel fastidio irritato che significa dimmi chi sei davvero, perché io non sono capace di altro che di me, e so che non è molto.

Sei magro e fumi come sempre, ma sei meno teso, dormi bene, ti appassioni allo sport, che ti diverte, come sempre. A momenti sei sereno, so che ti piacciono i nostri figli, i tuoi nipoti, ed anche tanto i figli di Ricca. Ti fanno ridere, ti scopro tenero, indifeso nel proteggerci, e tenero.

Guardarti mi provoca un sentimento denso, che mi riempie e mi risolve. Scoprirti vecchio, essere consapevole che ci sei e ci sei sempre stato e che non c’è stata un’ora, un minuto, un secondo, in cui non mi hai voluto bene, in cui sono stata sola, mi può anche bastare.