Incipit con cartine di Stefania

L’estate non è mai infinita – di Stefania Bonanni

E poi c’era brutto tempo. Arrivava da un giorno all’altro ,una volta passato l’autunno.

L’estate infinita, quella dei giorni interminabili ed assetati, scomparsa per magia anche dai ripensamenti. Sembrava impossibile, nei momenti nei quali il caldo toglieva il respiro, che sarebbe un giorno arrivato il brutto tempo. Invece c’è stato un attimo che ha fatto cambiare l’atmosfera. È tornata la voglia di stare vicino, scambiarsi calore, stringersi.

Tutta questione di cielo, di nuvole nuove, di notte che arriva prima. E di notte, si sa, l’energia del mondo cambia. La notte è fatta di frasi dette piano, che sembrano confidenze anche quando sono proclami. Di persone che si incontrano e si spostano nel piccolo cerchio della luce di un lampione, di sorrisi che sembrano sbadigli e sbadigli che sembrano sorrisi. La notte d’inverno è fatta anche di nuvole basse, di nebbie che calano come ragnatele e confondono i confini tra i corpi ed il cielo, di fumi che rendono visibile il respiro, e nuvole azzurre di fumo di sigarette .

Può venire il brutto tempo, si possono trovare rimedi.  Si può dipingere e colorare di rossi, arancioni, o riposare nei grigi e nei marroni di plaid e pullover. Si può pensare ad un musicista che suona in lontananza, rendendo languida anche la notte più fredda.

Incipit con cartine: Nadia

Raggio di sole – di Nadia Peruzzi


E poi c’era brutto tempo. Arrivava da un giorno all’altro ,una volta passato l’autunno.


Che giornata di merda. Non c’era altro modo per descriverla. Svegliata male, al suono della sveglia, cosa che poteva succedere non più di due o tre volte l’anno e quando succedeva di solito era un vero disastro.
E fuori pioveva a catinelle!
Tutto era condizionato da una fretta che non le era propria.
Colazione in piedi, bevendo di corsa un caffè rovente mentre sgranocchiava l’ultimo biscotto rimasto nella scatola. Ecco cosa si era dimenticata di comprare il giorno prima, pazienza.
Di gran corsa lei che ingranava come un diesel e aveva bisogno dei suoi tempi in bagno a lavarsi e poi a vestirsi.
“Che mi metto con questo tempo terribile? Mi sa che devo prendere anche le galosce e la mantella da montagna!!”
Non si truccò nemmeno . Sembrava più uno spaventapasseri con quella mantella lunga fino ai piedi e quel visuccio pallido pallido e gli occhi che erano un misto fra un pesce più morto che vivo e l’incazzato.
Fuori l’acqua cadeva ormai a scrosci. Anche la giunchiglia nel vaso vicino alla finestra aveva piegato definitivamente il capo. La seconda fioritura della stagione aveva avuto vita brevissima . Il passaggio di clima l’aveva stroncata Che tristezza!!!
Maledetta pioggia, maledetta sveglia, maledetta fretta, maledetto tutto.
Trovò il biglietto colorato appena mise il piede sulla soglia . Era quasi coperto dalle foglie di acero che stavano cadendo giorno dopo giorno lasciando l’albero quasi spoglio ormai.
“Fin troppo bello e raffinato questo biglietto”, si disse Laura mentre lo raccoglieva.
Chissà che non sia in grado di volgere al bello una giornata partita malissimo e con per di più un tempo da cani.
Quando era nelle sue “giornate malissimo” anche i colleghi le stavano alla larga. Che era nervosa lo vedevano a distanza e a distanza restavano .Le sue arrabbiature fuori misura erano diventate leggendarie.
Raccolse il biglietto. L’uccellino e tutto il ricamo di fiori fra il viola e il dorato sapeva di buono.
Non fosse mai!!Giornata di merda anche per il biglietto.
C’era un TI LASCIO, NON TI SOPPORTO PIU’, scritto in lettere grandi , marcate da cui traspariva la rabbia con cui era stato scritto, grafia che sapeva di cattivo, inclinata e definitiva.
Non era firmato. Non c’era bisogno . Sapeva chi era il gran cafone che non aveva il coraggio di dirglielo in faccia che la stava lasciando. In fondo l’aveva già capito pur nel poco che si erano frequentati che era uomo arido , senza sentimenti e a doppia faccia proprio come quel bigliettino .
Bello fuori ma coatto e maleducato dentro.
Mentre girava e rigirava per le mani quel bigliettino si trovò a considerare che la giornata di merda in fondo non lo era del tutto.
Anzi quell’addio era la cosa migliore che le potesse capitare..
Era stata fin troppo vigliacca in quella relazione e per paura della solitudine, di nuovo, aveva fatto finta di non vedere quanto quel tipo fosse pieno di sé, arrogante e privo di umanità.
Eppure lei ancora non sarebbe riuscita a dargli il benservito .
Quel bigliettino double face era proprio ciò che sperava arrivasse prima o poi. Non sentì più né il freddo, né l’acqua battente , né il vento. Per un momento, solo un momento, le sembrò di vedere un raggio di sole.

Incipit con cartine di Patrizia

I colori dell’autunno di Patrizia Fusi

E poi c’era brutto tempo. Arrivava da un giorno all’altro una volta passato l’autunno.

Mi ci vuole del tempo per adattarmi ai giorni freddi.

Sono seduta sul divano, avvolta da un morbido plaid a scacchi colorati, nero, marrone e senape, regalo di una persona cara, mentre mi rilasso mi, viene alla mente una tiepida giornata autunnale piena di sole con una leggero vento che muoveva i rami dei tigli che formavano un tunnel dorato, le foglie su gli alberi avevano dei colori stupendi dal giallo dorato al rosso ramato con sfumature di marrone chiaro, il sole filtrava fra i rami e faceva rispendere tutto.

Dagli alberi cadevano altre foglie, sembravano grossi coriandoli, cadendo avevano formato un tappeto colorato e morbido, era piacevole camminarci sopra, pestandole facevano un leggero scricchiolio, mentre camminavo nel viale incontro una bella ragazza dai capelli rosso dorati come le foglie dei tigli….

Incipit con cartine di Rossella G.

Pensieri in numero pari – di Rossella Gallori

E poi c’ era brutto tempo, arrivava da un giorno all’ altro, una volta passato l’ autunno…

Quello l’ aveva scritto uno bravo, io, io, cosa potevo fare, con quell’ immagine ancora negli occhi, con quel ricordo, confuso e nitido al tempo stesso, con quell’ orologio, fermo, ed incomprensibile, con 2 lancette ciondolanti, come il membro di un partito scomparso, le 6e30? Le 18e30?

Un giorno buio, illuminato da uno scialle porpora, gettato su una poltrona Frau di pelle sbucciata, se non ci fosse stato nell’aria il profumo di lui mischiato a quello di lei, quell’ odore forte di  rum, la camicia per terra, un’ autunno cattivo, ed un inverno ignorante che bussava alla porta, lei mezza nuda, lenta e spenta…

Numerai i pensieri, per dare un ordine a qualcosa che non sapevo se avevo immaginato o vissuto:

1: aprì la porta, si avviò verso il buio, poco vestita, poco coperta dentro, si avviò verso il buio.

2: quasi sicura di perdersi.

3:affrontò un bosco di legno e foglie, fitto e fottente.

4: approdare al lago.

5: non cadere nel lago, ma immergersi, per assaporare il gelo.

6: cercare di cogliere sul fondo, quel fiore educato, colorato da una natura delicata.

7: bere, bere, bere.

8: galleggiare con la pancia gonfia, da balena di pozza, e quel fiore stupido tra le labbra livide.

Non andai oltre il numero otto, in  un attimo mi sentii stanca, in quella stanza dalle pareti di carta imprimè, con un orologio a cucù senza un misero uccello a scandir ore, senza una pila per  funzionare, con lancette impotenti ferme sulle 18e30…o erano le 6e30…..

E poi c’ era brutto tempo…

…quello lo aveva scritto uno bravo, io, io, io……

Buon compleanno da parte di Carla

Buon compleanno ad Aurora e… – di Carla Faggi

Ad Aurora piove sempre di notte ed il giorno c’è il sole oppure il freddo a seconda di quello che hai da fare. Ad esempio una decina di anni fa una donna dai grandi pensieri tornata dal mare pensò di scrivere un libro, il tempo allora divenne autunnale così da poterle rendere piacevole lo starsene chiusa in una stanza e restarci almeno due ore.

Però la donna dai grandi pensieri si accorse che con una sola matita, la sua, si scriveva in solitudine, grandi erano i pensieri ma erano scritti con una sola matita.

Eppoi la donna dai grandi pensieri aveva anche un grande cuore quindi chiamò a se un gruppo di matite e, visto che ad Aurora pioveva solo di notte queste arrivarono subito.

Insieme scrissero molto, giocarono assai, cantarono e ballarono.

Eppoi si divertivano molto e questo non era poco, Aurora da brava città immaginaria li aiutava  perchè fuori faceva il cosiddetto brutto tempo e nella stanza di un importante teatro che li ospitava c’era calduccio, c’erano tanti dolciumi , e le tisane calde, stavano proprio bene. Decisero però di stare ancora meglio, perchè era come se mancassero delle ciliegine sulla torta. Allora la donna dai grandi pensieri e dal grande cuore chiamò altre matite. Queste arrivarono subito perchè non pioveva.

Ora c’era di tutto, matitine, matitone, penne stilografiche, dolci, archi e frecce, poesia, teatro, Chiese, suoni e musica. E lei, la donna dai grandi pensieri e dal cuore grande non chiedeva nulla, solo di scegliere sempre di esserci e di innamorarsi di quello che facevamo.

Qualcuno in un giorno di sole le chiese perchè lo faceva.

Perchè io amo, rispose.

Grazie Cecilia! Buon compleanno matite!

Incipit con cartine: Carla

Eppoi – di Carla Faggi

Eppoi c’era brutto tempo, arrivava da un giorno all’altro una volta passato l’autunno.

Invece io ero tutta contenta, finalmente un po’ di brutto tempo!

Non più l’obbligo delle passeggiate fuori, il prendiamo un po’ di sole finchè c’è, andiamo in palestra,facciamo la dieta, vediamo gli amici, andiamo a mangiare la pizza, al cinema…una fatica enorme, eppoi non se ne poteva più di questo stressante bel tempo!

Il cosiddetto brutto tempo invece ci tiene in casa, al calduccio a non fare niente, eppoi ci permette di annoiarci e di inventarci qualcosa da fare.

Voglio scrivere un libro, o meglio una commedia! Mi dissi quando fuori pioveva.

Capitolo primo:

La talentuosa fanciulla che aveva voglia di scrivere una commedia teatrale si chiedeva perchè non aveva mai tempo per farlo ma non aveva tempo neppure per rispondere al suo quesito perchè c’era sempre il sole e aveva da curare il giardino, doveva farsi bella per curare gli amici, usciva e si divertiva, faceva l’orto e si cucinava le sue verdure. Infine rientrava in casa e pensava che non aveva avuto tempo per scrivere la sua commedia.

Eppoi però arrivò il brutto tempo e lei decise di restare in casa e scrivere il suo libro.

Capitolo secondo:

c’era una volta seduta sul divano una ragazza che aveva voglia di scrivere un libro ma non trovava mai il tempo per farlo…

….ultimo capitolo:

Eppoi arrivò il sole!

Incipit con cartine: Lucia

Era brutto – di Lucia Bettoni

Eppoi c’era brutto tempo
Arrivava da un giorno all’altro una volta passato l’autunno :

Aveva la gobba, era tutto storto, la bocca grande, lunghi capelli che arrivavano a terra
Legati, in fondo ai capelli, tanti campanellini che suonavano ad ogni passo
Mille occhi si voltavano
Indossava un mantello elegante dai toni un po’ cupi e dai tratti geometrici che invitava a salirci sopra con le scarpe
Tutti avevano voglia di calpestare il mantello e sentire da vicino il suono dei campanelli
Anche i gatti erano contenti, anche loro sopra il mantello insieme agli umani che diventavano sempre più numerosi
Una ragazza dalle lunghe ciglia e dal tenero sorriso inizio’ a danzare lentamente
Piano piano tutta l’umanità iniziò una danza leggera e i gatti correvano, saltavano e giocavano con i campanelli
L’uomo brutto con la gobba proseguiva il suo cammino con la vita che danzava sul suo mantello
Nessuna sposa ha mai avuto uno strascico più lungo!
Dove ci porti uomo brutto e affascinante?
È brutto tempo e l’autunno è passato
Siamo tutti qui e abbiamo deciso di seguirti
Nessuno ha paura perché ti sei mostrato e tutti hanno potuto vederti
Ci fidiamo di te
Lo sappiamo che vieni da lontano
da molto lontano
Sappiamo che la tua bruttezza è fatica, è lavoro, è coraggio, è amore
Ti seguiamo

Incontro alla Carrozza 10 del Teatro Comunale di Antella del 3 novembre 2022

con Cecilia Trinci

foto di Lucia Bettoni, Nadia Peruzzi e Cecilia Trinci

Le cartine tornano protagoniste.

Inventare una storia dallo stesso incipit e farsi aiutare dalle nostre cartine magiche.

“E poi c’era brutto tempo. Arrivava da un giorno all’altro, una volta passato l’autunno”
(Hemingway)

La città impazzita di colori di Rita

Circhi di colori – di Rita Angeloni



La mia e’ una citta’ grande, grandissima. Fatta di  tanti palazzi, chiese,
basiliche, piazze con famose scale che  salgono e c he scendono, con grandi
spazi e tanti uomini e animali colorati. Uomini bianchi, gialli, rossi e
scuri. Gatti verdi, viola e arancioni che vivono tra i ruderi. Giardini con
alberi rossi, laghetti arancioni e case antiche e moderne con imposte viola.

Strade come circuiti di arcobaleno, scene spettacolari, artisti abili e
spericolati, numeri emozionanti di animali piu’ o meno feroci.

Lo spettacolo comincia con un numero equestre sbalorditivo. I cavallerizzi
e le cavallerizze non montano  cavalli ma, irrompono in pista in groppa a
pezzi d’epoca. Statue grigio marrone, colonne bianche, archi di trionfo
verdi, anfiteatri gialli, grandi viali, palazzi istituzionali rossi e a suon
di frustate li fanno volteggiare, saltare, impennare con effetti magnifici,
anche il numero degli acrobati e’ una assoluta novita’.

Lo eseguono a pezzi di chitarra, di panchine colorate, di laghetti a sfera,
di giardini imbizzarriti, di lampioni involutati.

Non se ne e’ visto uno piu’ pericoloso: l’orizzonte doveva volare da un
trapezio all’altro. A venti metri di altezza, senza rete di protezione con il
suo colore giallo arancione e la sfera solare al centro, accecante sopra
decine di cupole, eleganti cornici, modanature  del barocco fiorito  di vari colori danzano su un filo  di acciaio, balletti dell’iride, sette colori sette, come gli
originari colli, sgambettano sulla pista  al suono di ritmi frenetici, si
esibiscono come pagliacci. Si prendono a bastonate. Si rovesciano secchi
d’acqua addosso. Si rotolano per terra.

Il rosso fiamma, il verde bandiera e il violaturchino saltano da una
basilica all’altra.

Dallo Stadio dei Marmi al Circo Massimo e ad un altro ancora grande tempio
attraversano domus antiche che ricordano ancora grandi fuochi.
Incredibile!! I pensieri e i ricordi di colore verde, rosso, giallo si
ricorrono e si intrecciano sulle strade, sulle case e sui  monumenti.
I ragazzi cominciano a prendere al volo manciate di terra, la modellano
come plastilina, fanno ometti gialli , rossi e tanti altri colori, case con
tetti rovesciati, auto variopinte degne dei piu’ scatenati rally su  strade
ondulate.

Spettacolo straordinario!!
Entrata nella mia casa, non riesco a staccare gli occhi dal soffitto.
Tutto l’azzurro del cielo e’ la’ sul soffitto ed e’ un azzurro
incredibilmente denso perche’ tutto il colore della mia vita e’ la’,
sull’intonaco.





Città del Nord negli occhi di Nadia

Il Nord, che torna e che va – di Nadia Peruzzi

foto di Nadia Peruzzi (e una di Lucia Bettoni)

Sono da Grande Nord ed è per questo che dopo 12 anni e alle soglie dei 70 sono di nuovo qui, fra questi panorami, a girare attorno a quelle casette di legno di tutti i colori pastello che si possano immaginare, a quei verdi di alberi e di arbusti che andrebbero conosciuti per nome uno ad uno.

E che dire dei palazzi doppi di Alesund?

Sembrano avere due vite, una sopra e una sotto e dentro l’acqua. La luce li riflette e moltiplica finestre, tende, terrazzi in un gioco incredibile di rimbalzi. Doppi i palazzi, quasi a segnare lo scarto fra il prima e l’oggi e le due me che hanno avuto la fortuna di vederli in tempi diversi.

La prima fu una corsa notturna, fra uno sbarco e un reimbarco .Era mezzanotte quando arrivammo e un quarto alle una quando la dovemmo salutare nella luce di una notte che non aveva nessuna voglia di finire.

La seconda volta, adesso, in una esplosione di luce notturna  e diurna quasi invadente, sicuramente destabilizzante per chi come noi è abituato a ricaricarsi col buio.

Poi ci sono loro . Le magiche, le mitiche. La meta vera di tutto questo viaggio 12 anni dopo.

Queste imponenti isole montagne o montagne isole o in qualunque modo le si voglia definire.

Appena cominciano ad apparire brumose e in lontananza la mente corre dissociata. Da una parte la più razionale e probabile “deriva dei continenti” che le ha abbandonate lì perché il loro viaggio lì doveva fermarsi.

Dall’altra però non può mancare il pensiero verso l’irrazionale e birichina divinità che in un giorno lontanissimo si è presa la briga e per puro divertimento di dar loro una forma, quella forma, decidendo che il loro posto doveva essere lì in quel mare. Dovevano rincorrersi per chilometri, intersecarsi in incastri improbabili a volte, darsi la mano come ballerine di fila o soldati schierati, ma da esercito pacifico e a guardia delle coste non troppo distanti. Non certo messe lì per offendere nessuno.

La natura è la sovrana. Noi ospiti che dobbiamo cercare il più possibile di non essere invadenti.

Ci sono silenzi che è un delitto violare, scenari che pretendono il rispetto dovuto anche quando vorresti scattare a raffica foto su foto.

Sei tu, senza filtri a dover guardare direttamente, in un gioco di rimandi fra te e l’infinito.

In qualche caso è un vortice di sentimenti che si accendono, in altri una frase o un titolo di un libro o una canzone a tornare alla mente e nel cuore anche solo per placare o curare emozioni così forti da far paura . Con l’infinito che si fa concreta visione, la nostra finitezza come esseri umani è la mano nodosa della strega di Biancaneve che ti ghermisce il cuore e fa saltare ogni equilibrio e ogni razionalità.

A Kabelvag, ultimo paesino visitato, di fronte ad un mare placido punteggiato di rocce e orlato in lontananza da blocchi di montagne e una linea dell’orizzonte in cui mare e cielo sono tutt’uno, a farmi compagnia c’erano i Pink Floyd con la loro “Shine on you crazy diamond”. Non solo per la canzone in sé ma per la foto  che ho in mente da più di 40 anni ormai e si trova nel retro del contenitore del disco in vinile che ho da una mezza vita.

Foto strana .Tanta acqua, tante rocce, acqua e cielo che si confondono. Un uomo è capovolto . Perpendicolare, spunta dall’acqua solo dal costume in su. Il suo doppio è riflesso in uno scenario di primordi. L’alba di una civiltà ancora più suggestiva del bestione che colpisce e fa alzare in aria quel frammento di osso in 2001 Odissea nello spazio.

Io non ero capovolta. Non ero neppure nell’acqua. Davanti a quel che stavo vedendo ero una me privata di gran parte di me. Spogliata di tutto, di una storia personale e collettiva, di tutti i miei anni. Senza fiato, riportata all’essenza, trascinata dentro gli albori di una civiltà e di un mondo. Io come in un ventre molle, materno placido come non mai, solo acqua attorno, sopra e dentro di me.

Primordi, regno di luce, del rosa dei tramonti che durano fino all’alba in un moto del sole che non tramonta mai .L’adrenalina fa il suo, fa fare anche cose un po’ pazze visto che il sonno se arriva se ne va anche presto e a mezzanotte o all’una e mezzo, in pigiama ti trovi a prendere la macchina fotografica per provare a catturare quei rosa sulle montagne su cui il sole riflette ancora la sua forza .

Si sua maestà il sole . Che qui non è un sole normale. Ma Sole di Mezzanotte è da scrivere in maiuscolo. Lo devi andare a cercare nelle spiagge che guardano verso il mare aperto, verso nord. Quando si ha la fortuna di una notte senza nuvole, lo spettacolo è superbo.

Resta appeso al cielo senza alcuna voglia di scendere sotto la linea dell’orizzonte e,ci sto pensando adesso, forse perché da quelle parti la voglia di farsi compagnia con la luna prende anche a lui. Insieme non li abbiamo visti in verità, non è detto che in qualche punto che non sappiamo e fuori portata non trovino il verso di stringersi la mano.

Il sole è invadente anche a tarda notte. Ma è una invadenza rassicurante e benevola. Lo si capisce quando tutto si fa grigio e senza vita in una eclisse totale quanto sia benefico per alimentare il ciclo della vita in ogni parte del globo.

In questo tutto ci sono io che ho sognato di fare questo viaggio e proprio come son riuscita a farlo. Invecchiata nel frattempo, ma pronta a riaccendermi e a non sentire stanchezza quando un orizzonte si riapre.

Altrimenti che cavolo di Sagittario sarei!

Ci sono io che nelle foto vengo uno schifo, non rido mai e faccio le facce. Io che non sono fotogenica da mai e se mi metto in posa è pure peggio. Mancano gli altri occhi quelli che sapevano guardare attraverso la macchina fotografica e le sue inquadrature fin dentro la mia anima. Mi inquadravano senza che me ne accorgessi spesso e volentieri, e trovavano il punto e l’angolazione per farmi pure un po’ bella. A volte mi sento persa a osservare in solitudine tanto splendore, senza poter condivider anche solo con un cenno e uno sguardo l’emozione che ti sopraffà fino a destabilizzarti.

Gli amici o le amiche in questi momenti perdono la loro forza di supporto e conforto. Gli occasionali compagni di viaggio si riducono a comparse.

Il senso di vuoto da fastidioso rischia di diventare incombente. Non mi basta il mio occhio. Mi mancano tremendamente gli altri .Quelli che mi hanno guardato con amore . Gli occhi del cuore che decidono l’inquadratura di te nel panorama e la foto che ne viene fuori. Occhi che anche nei silenzi riescono a parlare di interi mondi rendendo vive emozioni che tu hai aggrovigliate in un viluppo dentro di te e fatichi a far emergere.

Come si fa a imparare a lasciare andare i morti? Si può? E’ giusto?Non lo so e so che non lo imparerò, né lo voglio imparare.

Per questo tornano con prepotenza e scavano fossati di fragilità e insicurezze.

Le foto che ho fatto parlano un linguaggio gioioso di colori e luce. Eppure…

Sarà il covid certificato al ritorno, sarà la carica adrenalinica che ha fatto flop dopo giorni anche stancanti, sarà che a fatica riesco a spingere tristezza e ricordi brutti nei cassetti di fondo dove fanno meno male, sarà che ieri sarebbe stato il tuo 69esimo compleanno e questo viaggio lo avremmo fatto sicuramente insieme, sarà un po’ tutto questo a farmi sentire irrimediabilmente una barca con le vele un po’ afflosciate che attende un nuovo colpo di vento per riprendere il largo, dietro al sogno di un nuovo orizzonte. 

La città di Daniele non più visibile

La mia città invisibile – di Daniele Violi

La mia città è invisibile, la mia città che ho amato e che non mi esce dalla testa non la trovo, non la vedo più. Andavo dentro la mia città a scoprire spazi e luoghi nascosti dove la vita ha calcato i suoi passi, la vita di generazioni che hanno chiesto alla mia città di essere protetti, di essere per loro di stimolo per continuare a credere nella bellezza, la bellezza delle intelligenze. La mia città che mi ha proiettato con la sua gente e la sua cultura, le sue pietre, nell’iniziare a conoscere il mondo, le altre genti, le altre culture, le altre pietre. Si è spenta poi la fiamma che era accesa e mi riscaldava le mie emozioni che sono ora assopite da nebbia e fumo come negli inferi, salgono e si cospargono ogni volta che mi avvicino alla mia amata. La sua bellezza connotata, il desiderio di vivere e scoprire anche più volte le  parti più vissute, i vicoli e strade vecchie con i suoni i profumi, la serietà dei palazzi costruiti da mani esperte e valenti e progettati per distinguere la potenza di una città, ma sempre nella bellezza artistica dei rilievi e delle sue originalità. La forza di questa città che mi ha conquistato il cuore, ora è svanita, mi trova lontano, solo il sentimento di amare si incrocia con la mia esistenza fortunata perché vissuta con la mia amata bellezza, in un connubio che mi ha sempre stimolato, dove la materia e la creatività di uomini e donne, menti antiche e visionarie, con la natura sempre hanno convissuto. Oggi la mia città  non ha più forza, più entusiasmo per continuare ad essere felice. Si lascia andare, chiude gli occhi, non vuole vedere l’inferno che cresce attorno e dentro di Lei. Questo mi dice la mia amata città e anche io soffro di questo malessere e talvolta cerco di proteggerla standoLe vicino, ma mi accorgo che solo il ricordo delle emozioni vissute mi rimane e mi consola.

Una verità di Nadia nascosta dentro una fiaba

LA CITTA’ NELLA CITTA’  – di Nadia Peruzzi

Ci arrivò a cavallo,dopo un lungo peregrinare. Fra strade polverose, ponti, fiumi da guadare ma impetuosi e pieni di rapide,insidie notturne come quella volta che si era svegliato sotto gli occhi gialli e cocenti di un branco di lupi. L’aveva aiutato un pellegrino che dopo aver percorso per anni la via di Damasco,aveva deciso di spostarsi sulla via Francigena per provare il brivido di altri scorci,altri tramonti,altra vegetazione.

Cercava pace e tranquillità come lui, che col suo ronzino vagava per ogni dove alla ricerca di un’oasi che ancora non era riuscito a trovare.Gli mancava un posto da chiamare casa.

Aveva attraversato pianure rigogliose e deserti aspri. Si era inerpicato su montagne da cui gli era sembrato uno scherzo riuscire a toccare il cielo. Ma da quel suo vagare, non ne aveva tratto alcun beneficio. Aveva conosciuto molto del mondo attorno a lui,moltitudini festanti ed eremiti alla ricerca di sé stessi e di un senso per la vita di tutti gli altri. Si era perso fra belle ragazze dalle lunghe ciglia, pelli bianche come neve e labbra rosse come rose bagnate di rugiada mattutina. Non era stato facile staccarsene. Era riuscito a farlo comunque.

Nulla lo appagava.Aveva un ‘anima inquieta che lo spingeva a cercare senza sosta il luogo dove placare il suo disagio,la sua voglia di scappare da tutto e da tutti.

Il cavallo ebbe uno scarto al limitare del bosco,poi si fermò.Lui fu costretto a riprendersi dal torpore che lo aveva fatto quasi addormentare.Tornò vigile e la vide,mentre la nebbia mattutina si alzava lentamente.

In alto sulla collina,scorse mura e bastioni poderosi.Aveva la storia davanti agli occhi.Percepì,quasi come se la vedesse,tutta l’umanità che si doveva essere avvicendata nel corso dei secoli per regalare all’occhio di uno straniero una costruzione così magnifica da lasciare senza fiato.

Trovò il sentiero che si inerpicava verso l’alto. Si ritrovò circondato di magia. Giardini fioriti,giochi d’acqua,tanta acqua. Grandi vasche da poterci fare il bagno dentro,riflettevano forme architettoniche che non aveva mai visto fino a quel momento.Filari d’alberi d’arancio e di bergamotto spargevano il loro profumo inebriante.

“Sono arrivato in paradiso! Sono morto e non ho fatto in tempo ad accorgermene!”Si pizzicò forte una guancia. Era vivo,non c’era dubbio.E il panorama non cambiò.

Anzi alla sua sinistra vide emergere in tutta la sua possanza la rossa fortezza.Prendeva tutta la collina. Possente ed elegante insieme e mai in vita sua aveva pensato di poter usare insieme questi due aggettivi.

Ci aggiunse un mirabile e paradisiaca tanto più che nemmeno nel più bello dei suoi sogni gli era mai apparso nulla di simile.

Lasciò i giardini con i giochi d’acqua e si diresse verso la fortezza.

Era attraversato da emozioni così forti che non riuscì a trovare nel suo vocabolario nessun aggettivo che l’aiutasse a descrivere quel che vedeva.Attraversò un grande arco,poi un cortile e anche lì si ritrovò in un mondo di acqua,tanta acqua in vasche enormi, zampilli di fontane a formare cascatelle,rugiada che scivolava dagli alberi in una pioggerella fine fatta quasi di fili dorati.

E fiori e frutti.Tantissimi frutti.

Attraversò saloni con pavimenti e soffitti come ricami.Di fronte ad una grande fontana,circondata e quasi protetta da 12 leoni provò un senso di vertigine.Attorno,a limitare lo spazio e la vista gallerie e colonne,capitelli,stucchi con scritte in una strana grafia che non aveva nulla a che vedere con ciò che il suo aio gli aveva insegnato in gioventù.Era in una altro mondo che aveva poco a vedere col suo di prima.Dovette appoggiarsi alla fontana per riprendersi dallo sbandamento che lo aveva colto.

Attorno non c’era nessuna persona.Il sole stava spazzando via anche l’ultimo velo di nebbia,mentre ogni cosa prendeva vita con lentezza liberandosi man mano dalle languidezze della notte appena trascorsa.

L’aria cominciava a farsi calda e recava con sé nuovi aromi.Riconobbe il mirto,l’amaro del bergamotto,il profumo penetrante delle giunchiglie e dei fiori d’arancio.

Cadde  in un sonno profondo.

Si risvegliò quando un profumo di gelsomino ebbe la meglio su tutti gli altri.

Si trovò di fronte due occhi grandi e profondi.Neri con pagliuzze dorate e ardenti come solo un tizzone infuocato sa essere.

Una ragazza bellissima lo stava guardando con grande curiosità.

Vestita di mille e mille colori,tessuti preziosi e veli impalpabili. Sui capelli neri una coroncina di mughetti che la faceva sembrare un angelo.

Si convinse di essere arrivato in paradiso.

Nella sua educazione fin da bambino inferno e paradiso era stati presenti,come monito uno,e salvezza eterna l’altro.Il guaio era che era dopo la vita terrena.Lui voleva viverlo in terra,invece.

Perdendosi in quegli occhi di ragazza,capì di averlo finalmente trovato il paradiso in terra che cercava.

Fra genti che non erano uguali a quelle della sua origine,o a gran parte di quelle che aveva incontrato nei lunghi anni del suo viaggiare e che a prima vista avrebbe potuto definire anche molto strane.

Ci sta che anche la ragazza che lo stava osservando intensamente e studiando senza profferire parola considerasse lui il massimo della stranezza. Tanto più che invece di vestiti fatti di stoffa ne aveva di fatti a maglie di ferro.

Ci volle un po’ di studio da parte di entrambi,tanta volontà di comprendersi anche a gesti nei primi tempi per trovare piano piano anche un modo per comunicare fra loro.

Finalmente arrivò il giorno in cui Jasmin nominò in modo a lui comprensibile il nome di quel paradiso.

Era l’Alhambra,il castello rosso,Al-qalah al-hamra come lo chiamava la sua gente. Era a Granada,il suo sogno di bambino. Ne aveva sentito il racconto da un viandante che si era fermato una notte a dormire a casa dei suoi genitori ma che aveva perso l’orientamento durante il viaggio di ritorno tanto da non saper dire nulla della strada per raggiungerla.

Finalmente Arturo ci era arrivato. Gli ci era voluta quasi metà vita e un lungo viaggio,ma ci era arrivato da vivo a conoscere il paradiso. Era li fra quegli arabeschi,quegli strani copricapi,quelle strane scarpe rivolte all’insù e vesti coloratissime e preziose e quegli occhi neri e vivaci,ricchi di curiosità.

Carmela si innamora della sua storia

A passi lenti 1 e 2 – di Carmela De Pilla

Il tramonto estivo era il momento più bello della giornata per Franca, le piaceva incamminarsi in quella stradina un po’ sconnessa dal tempo per raggiungere il poggio della collina di S.Giuseppe.

Quante volte i suoi scarponi l’avevano accompagnata fin lassù, un tempo a passi svelti poi sempre più incerti, ma lei continuava ad andarci per assaporare in questo camminare lento il profumo del lentisco o del mirto e confondersi tra mille pensieri che danzavano con ritmo cadenzato come quello dei suoi passi, un po’sbiaditi e confusi.

Arrivata finalmente alla chiesetta con un sospiro più profondo si appoggiava alla parete quasi a sorreggerla o a essere sorretta e come fosse la prima volta si tuffava con tutti i sensi in quel paesaggio selvaggio, anarchico, senza alcun controllo, da troppo tempo libero di lasciarsi andare dove il vento e la pioggia decidevano di portarlo.

Quella terrazza orlata da grandi massi calcarei rossi per la terra che una volta li aveva rivestiti assumevano immagini di volti o corpi aggrovigliati e tutte le volte ne scopriva di nuovi, i secolari lecci con la grande chioma la proteggevano e i frutti allegri del corbezzolo la mettevano di buon umore, fatti alcuni passi oltre lo spiazzo, laggiù in fondo il cielo si confondeva con il mare e tra i due scintille di colori si rincorrevano, si eccitavano fino a dare vita a lingue di fuoco che l’avvolgevano.

 Poi lo sguardo si perdeva più in basso dove c’era il paese, il suo paese amato e odiato, lì aveva conosciuto l’inferno e raramente anche il paradiso.

Da lassù riusciva a intravedere la sua casa che aveva perso l’antica eleganza, un po’ più in là c’era quella di Antonio che da giovane l’aveva corteggiata e poi aveva sposato Elisa perché molto più bella e più ricca, intravedeva la vecchia fontana che, non più utilizzata aveva perso la sua identità e la casa dei suoi genitori rimasta lì da sola perché tutti ne cercano una confortevole e moderna.

In ogni cosa rivedeva i suoi affetti, i suoi tormenti e le sue gioie, poi ubriaca s’incamminava per la stradina, sola, con i suoi pensieri che danzavano con ritmo cadenzato come quello dei suoi passi, un po’ sbiaditi e confusi.

II

Poi quel chiodo s’impossessò dell’anima e apparvero i suoi angeli.

“Il dolore non ti fa morire, si diceva, ti schiaccia, ti lacera, ti manda nell’inferno, ma non ti porta alla morte”

Più volte era stata minacciata e soffocata da un destino crudele, aveva sempre cercato un po’ di tranquillità nelle piccole cose, ma non aveva tregua, questa volta lo stesso destino non aveva avuto nessuna pietà,  ricordava ancora quando, appena bambina le morì la madre.

 Era bella Franca, la sua pelle olivastra metteva in risalto i lineamenti delicati e una nuvola di ricci neri le incorniciava il volto illuminato da due fari screziati di verde e  blu mare, quell’aria un po’ melanconica e imbronciata era ravvivata da un bel sorriso che faceva intravedere una certa fragilità.

Da quel giorno una rabbia furiosa s’impossessò di lei fino a farla diventare scontrosa e maleducata poi la pietà e l’amore di una sorella della madre, la salvò dall’orfanotrofio e così mentre il tempo alleggeriva il suo peso incominciò a fare pace con se stessa e con Dio.

Mentre attraversava la strada il silenzio degli alberi che ascoltavano il suo grido d’aiuto sentiva la stessa rabbia, poi una voce la chiamò“ Frà, aspetta!”

Si affiancò Marietta, una donnina minuta in un fisico esile e ricurvo tanto che sembrava si spezzasse e quasi a non voler scomporre il suo dolore le chiese timidamente:- Hai saputo niente? è fuori pericolo?

La prese sotto braccio e attese.

Ci vorrebbe un miracolo e io non credo ai miracoli !

-Ma dimmi, cosa è successo veramente? In paese chiacchierano tanto e non si sa mai la verità, ……ma racconta solo se ti fa bene.

-Sento ancora lo schianto Marietta, lo scoppio mi graffia il cuore, la notte non dormo e mi rotolo fra le lenzuola alla ricerca di un perchè…io sono riuscita a scappare perché dormivo su una brandina vicino alla porta, appena fuori ho visto la casa accartocciarsi, accovacciarsi sotto i miei piedi, pochi attimi e la mia vita sgretolata, poi i gemiti dei bambini, le loro deboli voci che chiamavano la mamma, l’urlo stanziante di Annina che ripeteva il nome dei suoi figli con una voce che si allontanava sempre di più … tante macerie e un silenzio straziante mi tenevano prigioniera in una disperazione che pian piano lasciava il mio corpo e penetrava con forza nell’anima..Il destino mi ha rubato la vita quel giorno.

Mi sono tuffata tra quei massi come un cane arrabbiato scavando con le mani nude, seguivo quei lamenti, urlavo e scavavo, scavavo e urlavo, sentivo i loro volti ma non li potevo toccare, le macerie stavano preparando la loro tomba.

Il sangue macchiava quelle maledette pietre e affamata di speranza scavavo poi due mani possenti mi hanno bloccata, due braccia forti mi hanno abbracciata e ho pianto.

Era il cuore che parlava, un cuore che era lì, lì per spezzarsi del tutto, ogni tanto si fermavano e si guardavano negli occhi inumiditi da tanto strazio, Marietta si sentiva in colpa, avrebbe voluto rubarle un po’ del suo dolore poi la tirò a sé e le donò il suo affetto.

Gabriella si è innamorata di una storia

2  –  Il vagone della vedova Begbick – di Gabriella Crisafulli

Le parole piovono pesanti.

Formano una cappa.

Chi ascolta fugge: mettono paura.

Riavvolgo il filo.

Dove, come, quando si è persa Zazà?

Chiudo gli occhi.

Tiro a caso.

La stanza è illuminata dal sole che tramonta dietro il Baradello.

Come ogni sera i quattro sono inginocchiati a recitare il rosario.

In italiano.

Ma la pratica devota in onore della Madonna è un po’ lunga. Cento Ave Maria divise in dieci decine intercalate dalla recita del Padre Nostro e del Gloria. A ogni decina il commento degli avvenimenti gaudiosi, dolorosi e gloriosi della vita di Cristo e di Maria.

Riflettendoci dopo più di mezzo secolo viene da pensare che per una bambina di cinque anni molto vivace, come viene raccontato in famiglia, quel tempo noioso che si prolungava nella correttezza del contegno dovuto, non era un comportamento naturale.

È successo lì che i binari si sono separati?

È stato lì che una verga di ferro ha continuato a crescere lungo il binario di una ortodossia convinta mentre l’altra rimaneva congelata?

È stato lì che la fedeltà e l’osservanza erano rientrate d’ufficio nella cornice di un grande amore filiale?

Era innamorata, sì era innamorata di quel latte continuo di parole dolenti riversate su di lei: lo sentiva come un privilegio.

Era lei la figlia a cui si dicevano certe cose, non l’altra.

Era lei l’amica.

È cresciuta così sul binario di un viaggio a scartamento ridotto che l’aveva esclusa dal traffico della realtà.

L’altro binario non era stato proprio preso in considerazione e se ne era andato a far danni sotto copertura.

Aveva recitato la parte che era stata scritta e di cui era complice senza rendersi conto che, nell’andare del tempo, nello spazio vuoto prodotto dalle rotaie zoppe, si era creato uno scompenso.

Era per questo che la chiamavano Pappagallo?

Era un esecutore quasi perfetto di una strada già segnata?

Quando rivedeva il film alla rovescia, se non fosse stato per la perdita, c’era da sbellicarsi dalle risate.

Eppure c’erano dei segnali che avrebbero dovuto allarmare ma intorno a lei erano tutti molto impegnati.

Invisibilità dell’evidente.

Per il giorno di San Gennaro e tant’altre festività

Sempre appresso con canti e suoni

Bancarelle e processione

Anno dopo anno

C’era la claque di Pignataro che suonava trionfale

Col maestro sul piedistallo

Che ti stava a inebriare

Chi se ne può dimenticare?

Pur essendo tutto sotto i suoi occhi, non si era accorta di niente, non aveva capito, non aveva preso in considerazione quelle dissonanze che, in mezzo a tanta allegria, la rendevano triste.

Provava a risalire a dove la mente si era ingarbugliata, dove aveva confuso ragione e sentimento, dove erano confluite le acque di amore e odio mescolandosi.

Così aveva setacciato sia nodi personali sia quelli ereditati.

Si era soffermata sugli intrecci perversi di un una ragnatela fragile e pericolosa, popolata di aracnidi in agguato.

Era andata a zonzo nella sua Halloween privata alla conquista della felicità perduta.

Aveva vagato a zig zag nel vuoto generatore di malinconia.

Si era messa alla ricerca di una strada per il viaggio di ritorno.

Così era salita sulla Carrozza 10 – Il Vagone della vedova Begbick.

Nella sala delle sbornie, in quel vagone damigiana, era in buona compagnia. Poteva concedersi ubriacature di parole che le davano tutto quello di cui aveva bisogno, come se bevesse il buon latte della mamma.

Qualcuno c’era, qualcuno non si vedeva, due gatti si erano persi in tangenziale.

Qualcuno era su nel cielo o giù all’inferno tenendosi il cappello ma sempre presente.

Rossella colorava, pennellata dopo pennellata, la tela con una città che sapeva di pane e sirene. Non era una città per tutti, era per quelli che sanno vedere e annusare fra rotoli di papiro che si aprono e fanno vedere meraviglie come le cosce polverose del cavallo della statua di San Giorgio in via Guasti numero 10.

Stefania raccoglieva pazientemente i pezzi di vetro perché Gabriella non si facesse male.

Patrizia, accorata, rispecchiava: Specchio, specchio delle mie brame chi è la più triste del reame?

È lei, Patrizia, che spinge a ripartire: adesso basta.

Aveva dormito abbastanza.

Non è più il tempo della soda e del whisky che scivolavano a go go, non è più il tempo del bere spensierato mentre nuvole di fumo si inanellano sulla testa, non è più il tempo di quelle ciucche che aprivano scenari esplosivi.

È l’ora dei viaggi che spalancano sipari inaspettati: si colpisce la palla con la stecca e sul tappeto verde è tutto un rotolare e scontrarsi di bocce che schioccano le loro idee prima di fiondarsi nella buca.

Lei non si chiudeva più in un autismo autolesionista perché c’era chi raccoglieva la palla e la rilanciava.

Così si era avventurata nella città nascosta, quella che era stata il nucleo della sua felicità.

Doveva solo riportarla alla luce per farla crescere e trasportare nelle città visibili.

Doveva cercare il nocciolo, tirarlo fuori, averne cura, farlo lievitare.

Ma questa era un’altra puntata.

Carla ha accettato di innamorarsi di un’idea

Aurora è anche altro – di Carla Faggi

Foto di Robert Kozak da Pixabay

Aurora è anche un’isola, una di quelle dove non esistono traghetti perchè quando si parte siamo già arrivati. Ci sono le colline ma senza le salite, le strade infatti sono tutte in piano ma ci portano sia sulla cima dei monti che alla spiaggia, spiagge sabbiose ma con l’acqua del mare sempre limpida come sugli scogli.

È una città che ama i suoi cittadini. Un giorno di metà ottobre scorso si era ingrigita, intristita, gli alberi non fiorivano, la Chiesetta non aveva colore, il cielo era senza stelle. Aurora stava perdendo una persona cara, una donna coraggiosa che aveva reso possibile l’impossibile, pur immobilizzata in un letto aveva seguito e guidato i suoi figli nella crescita, continuato le sue letture ed i suoi scritti, coltivato le sue amicizie. La città sapeva che i suoi abitanti sarebbero stati tristi di questa perdita, così come i figli, il marito, gli amici e gli amici degli amici. Per questo aveva spento i suoi colori e si era raccolta con loro.  Così come si era vestita di trasparenza quando la nostra amica aveva lasciato il dolore e la pesantezza della vita. Anche la città era diventata luce e leggerezza. Aveva accolto in sé la nostra amica che era diventata mondo.

In Aurora ci spostiamo continuamente pur restando sempre al centro di noi, possiamo visitarla tutta perchè sono le emozioni che ci fanno viaggiare e guidano i nostri occhi. La parte della città più bella è quella dove stiamo assieme alle persone a noi care e dove siamo felici, diventa così il viaggio più bello da ricordare, con fiori del nostro colore preferito, alberi accoglienti, mare luminoso, monumenti simpatici, libri da leggere, amici da incontrare, amori da vivere.

Non aver voglia di andarsene, questo è quanto scritto sul cartello d’ingresso alla città, infatti è un posto dove viaggiare è voler rimanere sempre qui.

La città che cura di Rossella B.

La città che cura – di Rossella Bonechi

La mia Città Invisibile vorrei che non fosse invisibile affatto, vorrei che la si potesse scorgere da ogni punto da ogni strada da ogni curva.

Dovrebbe essere la Città dove ognuno può fermarsi a sospendere il proprio tempo: per riposare, per ristorarsi, per riprendere fiato e sorridere. Si troverebbe accoglienza ovunque, sotto l’ombra di un gelso gigante, nel salotto buono della nonna che sta preparando il migliaccio, nella piazzetta che contiene un gran numero di chiacchiere e ricordi condivisi. Avrebbe spazi per lunghe passeggiate o piccoli rifugi nelle sue mura dove sentirsi protetti e al sicuro.

Vorrei che fosse sempre inondata della luce del mattino, quella che promette ogni volta una nuova giornata da scartare, ma siccome Sole e Luna se ne infischiano dei miei desideri, la Notte scenderebbe e la Città Visibile si accenderebbe di lumi e lucette, come un piccolo Presepe, in modo da farsi comunque vedere anche da chi si è perso nel buio. Allora ci sarebbe posto per i sussurri degli innamorati, per piccoli bilanci giornalieri, per una ninna nanna cantata in lontananza. Una piccola grande Città che popola un sogno, una Città che Cura