Resistere con Nadia sulla scia del Colibrì

Lettera – di Nadia Peruzzi

Cara Jane,
come vedi dopo tanto silenzio può capitare che ti scriva nuovamente e a distanza di poco tempo.
Ho rivisto Paolo, il tuo Paolo. È sempre il bell’uomo che era in gioventù, con qualche ruga e qualche capello bianco di troppo.
All’inizio non mi ha riconosciuta . Io, rispetto a lui, sono invecchiata davvero . Ma non è questo che lo faceva esitare nel farsi avanti . È l’ulteriore cambiamento che mi sono concessa . Capelli corti e ricci, con qualche ciocca di violetto, occhiali a specchio e sigaretta elettronica. Io che in gioventù mai ne avevo fumato neppure una.
Eravamo in treno, direzione Roma, lui salito a Bologna, io a Firenze.
Per un po’ ci siamo studiati, poi io ho rotto il ghiaccio. Abbiamo parlato del più e del meno, di cosa avessimo imbastito in tutti gli anni nei quali ci eravamo persi di vista .
Poi mi ha chiesto di te. All’improvviso! Non gli sei mai uscita di mente, lo si capiva dagli occhi mentre io raccontavo di te.
Sembra quasi strano che un amore mai vissuto come il vostro in lui possa essere rimasto sempre vivo dopo così tanto tempo.
A pensarci strano non è.
Vivo è rimasto il desiderio inappagato, quello che non ha mai dovuto fare i conti col risveglio del giorno dopo , con la noia dell’abitudine, con il tran tran che spesso si insinua in un rapporto, fino a farlo rinsecchire.
Fra voi difficile potesse succedere qualcosa. Troppo diversi da ragazzi e immagino anche adesso che siamo tutti ben oltre la metà delle nostre esistenze.
Tu tutta pepe , alla ricerca continua di mete ed obbiettivi, mai ferma. Quanti fusi orari hai cambiato in quegli anni. Lui che sembrava abbarbicato ai luoghi, pochi, dove arrivava per lavoro o per studio. Faceva il nido, ma non uno qualsiasi, come quelli delle cicogne che tornando ritrovano il loro e quasi se lo tramandano generazione dopo generazione.
Alle assemblee a scuola era quello che si sedeva sempre nella sedia più vicina alla porta, pronto a scappar via alla prima avvisaglia di casino .
Tu nel casino ti ci buttavi dentro, talvolta eri proprio tu a provocarlo.
Ricordo di quella volta che aveste una discussione forte , di quelle che lasciano il segno e non hanno il grigio del possibile compromesso.
Lo accusasti di stare in una trincea tutta sua. Da lì osservava il mondo che gli correva accanto in un turbine. Secondo te era un atteggiamento fin troppo passivo, statico, senza volontà.
Negli anni del riflusso aveva trovato il suo giaciglio preferito, gli urlasti.
Poteva vedere che tutto stava tornando sui suoi passi, scivolava all’indietro e nel tempo delle passioni fredde lui ci aveva sguazzato alla grande.
Troppa fatica il tempo delle passioni forti.
Il suo star fermo, facendosi raggiungere dagli eventi lo faceva un eroe ante litteram della resilienza, quella che va tanto di moda nel linguaggio comune ed in politica oggi e che noi abbiamo contestato e aborrito fino da quando l’abbiamo sentita per la prima volta.
Entrambe convinte che i nostri padri se avessero fatto resilienza invece di resistenza al fascismo, Mussolini sarebbe rimasto al suo posto, non avremmo mai avuto la Costituzione e tutto quanto il resto che ci ha permesso i grandi avanzamenti degli anni 60 e 70.
Chissà se vi trovaste oggi voi due.
Ancora stareste a discutere se sia più coraggioso uno che cerca in tutti i modi di cambiare, non si accontenta mai ed è sempre sul filo di una ricerca continua di qualunque cosa faccia sentire vivi e vitali. Oppure ci sia posto anche per un altro tipo di coraggio che è quello a cui Paolo ha cercato di aggrapparsi per tutta la vita.
Ricordi quanti corsi abbiamo iniziato e mai finito? Dopo la curiosità iniziale, veniva l’abitudine e il dover andare, la noia e l’abbandono.
Prima del viaggio in Iran anche un corso di Parsi ci mettemmo a fare. Non spiccicammo una sola parola, nemmeno per un banale saluto di cortesia.
Come in altri casi andammo a gesti e a gran sorrisi e il viaggio andò alla grande anche senza Parsi usando un po’ di tutte le lingue di cui avevamo collezionato termini che definivamo di mera sopravvivenza.
Lui questo vortice non lo capiva. Si sentiva scombiccherato anche solo a sentire che ci stavamo organizzando per partire e non veniva mai nemmeno a salutarci quando partivamo.
Allora ci faceva arrabbiare e non poco e glielo facevamo scontare tutto al nostro ritorno, raccontando anche avventure che non avevamo vissuto affatto.
Non ci siamo mai soffermate in verità , né a interrogarci allora su quanto quel vortice stesse prendendo campo eccessivo. Il movimento per il movimento, senza direzioni di marcia reali se non quelle che andavano per la maggiore e facevano figo.
Forse non avevamo gli strumenti, oppure tutto era così veloce che risultava complicato trovare un attimo per mettersi a riflettere e pensare. In fondo gli avvenimenti hanno travolto anche noi . Li abbiamo subiti anche se pensavamo di dominarli.
La Milano da bere, lo yuppismo, le notizie 24 ore su 24 , il villaggio globale venduto a spanne e bastava un click per raggiungere un pakistano in uno sperduto villaggio vicino a Peshawar. La trama era ben congegnata e la domanda banale ma il pakistano il computer ce l’ha e se lo può permettere? E la luce per accenderlo, nel caso, a quanti chilometri da casa sua poteva trovarla?
Eppure quanto è durata la storia del villaggio globale interconnesso.  E noi dentro veloci come schegge a comprare Ipad e smartphone e tutto il resto dell’attrezzatura.
Adesso, forse anche tu come me, ritrovando Paolo, potendolo riascoltare,  avremmo una possibilità di confronto che allora non cercammo. Forse avremmo potuto comprendere qualcosa in più di questo suo carattere spigoloso, ma saldo e per nulla rinunciatario.
Se poteste vedervi, parlarvi,  ti convinceresti che ci vuole coraggio ed energia anche a non lasciarsi travolgere dal mondo in ebollizione, anche nello stare fermi come scelse di fare lui.
Non dico che questo vi avrebbe avvicinato fino a farvi finalmente stare insieme, ma perlomeno avresti capito di quante scale di grigio può esser fatta un’esistenza.
Soprattutto avresti capito che non è affatto detto che queste scale di grigio non abbiano anche loro una loro vitale direzione di marcia che non porta per forza alla noia e all’abitudine che uccidono in genere parecchi rapporti.
Ti mando un abbraccio.
Paolo mi ha detto di salutarti. Mi ha chiesto il tuo indirizzo. Può darsi che un giorno o l’altro possa trovare il coraggio di scriverti o di venirti a cercare.

Il tavolo di marmo di Stefania guardando il colibrì

Il tavolo di marmo – di Stefania Bonanni

Questa, che non è una storia, cominciò su un tavolo di marmo, in cucina.

Perché non nel letto? Mai saputo. Forse perché c’era la cucina economica, davanti al tavolo. Forse era una Pasqua fredda, quell’anno. Forse perché aspettando, tutti speravano di riuscire a consumare anche il pranzo di Pasqua. 

. Comunque nacqui, primogenita dell’uomo più somigliante a Paul Newman che si fosse mai visto, e di una donna morbida e dolcissima. Vennero in tanti a vedermi, forse sbagliarono, non era Natale, non ero un maschio. Però ero bellissima, dicevano. Molti di quelli non ci sono più, alcuni di loro mi hanno sempre chiamato Pasqualina.

In quella casa si faceva tutto, sul tavolo di marmo. Si tirava la pasta, si impastavano le polpette. Si staccava un pezzo di carne dall’impasto grosso, e se ne faceva una polpettina. Si modellava la carne in piccoli pezzi. Carne, sangue, occhi, capelli, di casa.

 Nacqui, arrivai in un mondo dove non conoscevo nessuno.Questo l’ha detto Beatrice, e mi ha fatto tanto pensare. Ma il mio problema non fu la solitudine.

Nessuno si accorse che avevo una sorella. Una gemella, siamese, appiccicata addosso.

Una buccia, un guscio, e sotto, dentro, la polpa.

 Non so quale fu il momento in cui lo capii, ma da allora tutto è tornato. Questo sentirsi sempre un po’ altro, stonata, fuori posto . Io ero quella che si vedeva o quello”altra, nascosta….? O un po’ quella, un po’ quell’altra, secondo i momenti, le necessità, le convenienze?

 Da bambina no, sono stata una bambina felice. Bella, intelligente e molto amata. Somigliavo a tutti e due, m baciavano molto, mi abbracciavano sempre.Su quel tavolo di marmo facevo i compiti ed il bagno, dentro la tinozza, davanti alla cucina economica.Somigliavo a lui, e da allora continuo a cercare di somgliare a lei, la donna morbida ed accogliente che non sarò mai.

 Venne l’adolescenza, l’età difficile, il momento nel quale il corpo cambia e non ci si riconosce. Ecco, per me fu un momento magico. Il momento in cui credetti che il mio guscio bastasse. Avevo sempre occhi incollati addosso, pretendenti fidanzati che mi seguivano come ombre, che mi cascavano ai piedi, ragazzotti che più trattavo male e più mi orbitavano attorno. Mi sentivo potente, non dovevo fare niente, ed ero lo stesso capace di fare sognare con un sorriso. Che nella stessa maniera potessi anche fare star male non mi passava neanche nella mente. Naturalmente questo periodo fu il festival del guscio, il ripieno dormiva, cresceva inconsapevole. Ero sempre più convinta non ci fosse niente, dentro. Leggevo tanto, avevo sempre libri a mezzo e fantasie negli occhi, nei pensieri. Mi piacevano più i fratelli Karamazov dei ragazzotti del paese. Piano piano ma convinsi di essere presuntuosa, che tutto questo leggere, sognare, voler conoscere grandi pensatori, significasse voler essere più di quello che ero, un guscio di paese, e che anche chi mi viveva intorno mi giudicasse così .