Sulla scia di Guccini i rimpianti di Sandra

Il tempo chi me lo rende? – di Sandra Conticini

“Un formicaio di cose andate,  ingorgo di vita e morte, ma l’età all’improvviso disperde quel che credevo e non sono stato. Storie tragiche nate per gioco, troppo vicine o troppo distanti, ma il tempo, il tempo chi me lo rende, e gli amici persi? Il lento scorrere senza uno scopo di questa cosa…. che chiami…vita”

Era stata una giornata più pesante di altre, forse il tempo grigio e piovigginoso, le brutte notizie  non riescono a  farmi apprezzare le novità positive che ci potrebbero essere.  Sentire questa canzone, che non conoscevo, mi ha fatto venire il nodo allo stomaco e le lacrime agli occhi.

Ho quell’età di mezzo, né troppo giovane né troppo vecchia, che mi fa pensare spesso quanto e come sarà il resto della mia vita.

Il passato lo vedo come il formicaio di tante cose andate e un grande ingorgo di morte, più che di vita, così i sogni che avevo non si sono potuti realizzare come avrei voluto.

Ma il tempo, il tempo chi me lo rende, e gli amici persi? Questo, è quello che penso spesso quando mi fermo a riflettere sola in casa davanti a quel muro bianco con lo sguardo perso nel vuoto.

La mia vita futura la vedo scorrere lentamente senza sogni e senza scopi, sperando che anche a me tocchi un po’ di “culo tondo”.

Sulla scia di Guccini con Stefania

Lettera a Guccini – di Stefania Bonanni

Foto di StockSnap da Pixabay

Sapevo che sarebbe successo, ma ho dovuto aspettare il tempo dell’ascolto di me, del silenzio di fuori. Allora ho capito che la promessa si avverava: “i vecchi non sanno, nel loro pensiero, distinguer nei sogni il falso dal vero”. (Guccini). E aspetto con ansia quel magico momento un po’ chiaro, un po’ scuro, un po’ caldo, un  po’ freddo, un po’ sveglia, un po’ addormentata, nel quale vorrei avere braccia più lunghe e dita da strega, per acchiappare e stringere quello che se ne andrà comunque, ma vorrei fosse più tardi, più tardi, e sempre di meno, che lasciasse strascichi, ragnatele, piume. Dura poco, ma ci posso lavorare. Mi sento immersa nel formicolio, formica di un formicaio fatto di nomi dimenticati e facce che so di aver guardato e scordato ,ma che ritornano intatte, e magari erano figli della Cosa, parenti di Coso, nipoti di Cosino, presenze alle quali non si è dedicato un ricordo, un attimo, ma ritornano per magia, e chissà perché.

E poi, ogni mattina, aspetto la Francesca che salta sul mio letto, come sempre ha fatto finché ha vissuto qui. Io lo so bene che non c’è, ma ogni mattina mi sveglio con il suo calore addosso, e me la sento dentro, come quando c’è stata per davvero. E non lo posso dire, se non a voi che mi capite, perché la risposta è ovvia, e magari accompagnata dalla testa che si scuote. Invece per me è un momento fisico, e detesto le mattine nelle quali capita di alzarsi in fretta. Aspetto, aspetto…ma c’è davvero di meglio che aspettare l’amore?

Poi, saranno una decina di giorni, nel chiaroscuro della serranda semichiusa (o semiaperta?) vedo nettissima una persona seduta in fondo al letto. Stropiccio gli occhi, mi butto giù , mi tiro in su di nuovo, e ….accetto la situazione, e guardo. Non devo sforzarmi di indovinare, quel profilo severo e quella schiena dritta li conosco bene. La treccia di capelli che gira intorno alla testa, perfino il vestito ricordo. È la mia nonna, e mi piglia una gratitudine liquida che mi arriva dappertutto, una specie di consapevolezza di aver fortuna , di riuscire a vedere. Allora la studio, non si parla, potrebbe sparire tutto, bisogna accontentarsi. È uguale a sempre, le mancano gli occhiali. Forse si impara a vedere con qualcos’altro. Invece quella schiena dritta mi fa capire che porta sempre il busto con le stecche di balena, e questo francamente mi turba: non passano i dolori? 

Sulla scia di Guccini con Patrizia

Emozioni – di Patrizia Fusi

Pomeriggio trascorso nel vagone, con persone molto diverse tra loro ma con un obbiettivo comune che ci lega a Cecilia che è quello di farci esprimere scrivendo, io trovo delle difficolta nel farlo, ma questi incontri mi rendono viva.

Questa volta abbiamo ascoltato una canzone di Francesco Guccini, molto bella, ho trovato che scrive in maniera magistrale, con parole forti, piene di poesia e colme di significati, tutti noi in alcuni tratti ci siamo ritrovati.

Mentre la riascolto, mi scorrono nella mente spicchi della mia lunga vita, immagini del territorio, cieli azzurri, profumi, venti leggeri e accarezzanti, il quotidiano, passioni politiche, amori, amicizie, dolori, stati d’animo.

Questo ci ha fatto parlare e confrontarci fra noi, c’è chi ha scritto pensieri interessanti è stato un pomeriggio per me colmo d’emozioni e tenerezza e dolcezza per i cioccolatini di Silvana.

Tina si innamora della sua città

Si spengono i suoni del giorno – di Tina Conti

acquerello di Tina Conti

Le luci brillano nella piccola piazza,  brusio di parole,  le ultime del giorno,  si affrettano ragazzi dopo le corse nel parco,  chiude il chiosco  dei pasti veloci e soleggiati, quelli che in casa non si cucinano mai. Sorretto da un figlio  rientra a casa il nonno. Lentamente si spengono i suoni del giorno. Scende sulle  panchine. Il fresco e l’umido, una guazza leggera fa chiudere portoni e finestre. Autunno in ritardo consola i cuori. Mangeremo castagne bruciate sul fuoco,  indosseremo maglioni. Scaldati dal sole,  angoli riparati aiuteranno operai a discorrere con le briciole  di pane  di mezzogiorno sulle tute colorate. Giorni corti,  mattini freddi,  ore godute ai tiepidi soli. Pensieri,  tempo di pensieri. Ricordi,  l’autunno è  il tempo calmo senza la frenesia del fare,  del correre,  ma quanti acciacchi scopriamo ogni giorno,  la spalla,  il ginocchio,  la gamba, il collo,  caldo, massaggi,  consigli e pazienza con l’anno nuovo vi aiuterà la scienza.

Sandra innamorata della sua città ce ne regala un’altra

Senza un angolo buio – di Sandra Conticini

Bella Ruzzi questa città ben illuminata, con tanti  lampioni, senza un angolo buio e le persone, anche di sera, possono camminare  tranquillamente senza tenere la borsa stretta ed aver paura dei passi che sentono intorno. Di giorno nelle strade ci sono poche macchine, tante persone che ridono e scherzano felici di andare a lavorare perchè la sera torneranno nella loro famiglia e, mentre mangiano tutti insieme, anche i bambini, potranno  parlare di quello che hanno fatto durante il giorno e condividere i loro pensieri. I ragazzi vengono lasciati liberi, perchè non si è mai sentito dire che qualcuno abbia fatto del male a qualcuno di loro, così possono giocare a giochi semplici, stare all’aria aperta, confrontarsi e raramente, parte qualche moderata lite, ma poi, alla fine più amici di prima.  Mi ricorda un po’ la mia infanzia quando giocavo con i miei coetanei nella strada, a palla,campana, nascondino, le belle statuine, oppure scappavo in bicicletta. Ogni volta che passo da quella strada guardo i campanelli, ma ormai le persone che ci brontolavano per la confusione non ci sono più perchè molti erano anziani, altri hanno cambiato  zona, altri proprio città. Comunque le ricordo tutte: ognuno con i propri orari e le proprie abitudini. Passando sotto le  finestre  penso alla signora che stava sempre alla finestra e non usciva di casa. La mattina faceva due chiacchere con me, che ero bambina, poi mi mandava a comprare le sigarette sciolte, o l’altra che, dovendo lavorare, mi faceva comprare il pane, ed ero contenta di fare queste commissioni  perchè spesso mi davano qualche caramella o, addirittura, i soldi per comprare il gelato.

Quando mi sono spostata di poco,  il mio cuore è rimasto in quella strada che profuma di semplicità e della mia infanzia.

Comunque c’era anche tanta umanità, c’era la vicina che faceva la puntura, un’altra che  portava la polenta fritta o il dolcino fatto con le sue mani, se mancava qualcosa all’ultimo momento qualcuno che lo prestava lo trovavi sicuramente.

Purtroppo i tempi sono cambiati ed ognuno vive chiuso in casa e spesso non conosci neppure la famiglia che sta nel tuo stesso pianerottolo.

Gabriella innamorata della sua città ci regala la terza parte

3 – La città invisibile – di Gabriella Crisafulli

Era stata costruita su quattro livelli collegati fra loro.

Dopo la devastante alluvione poco a poco era stata resa vivibile.

Ne erano stati ripuliti fossi, condutture, giardini, ne erano stati risanati lastricati e mura.

Era stata resa abitabile e resistente.

Al primo livello c’era la parte storica, un fiume che scorreva dal passato.

Nel secondo si trovava lo spazio rinnovato, fatto dalle successive trasformazioni che ostentavano i segni di una rinascita.

Il terzo livello si era strutturato vivendola. Ogni angolo con la sua funzione, ogni angolo con la sua caratteristica, con i posti del cuore e quelli che scatenano emozioni e poesia.

Sul quarto si era generata l’energia propulsiva partorita dai sogni degli abitanti che faceva di quella città qualcosa di nuovo.

Poi vennero gli anni dei cambiamenti, della fatica, della resilienza, della trasformazione, delle scoperte, del dubbio, della paura.

E la città era cambiata.

Da molti anni si vociferava che fosse impraticabile.

Da molti anni nessuno entrava più al di là delle sue mura.

Vagavano al suo interno fantasmi che portavano sulle spalle dubbi e segreti indicibili.

“Principessa Lo-u-Ling
Ava dolce e serena che regnavi
Nel tuo cupo silenzio in gioia pura
E sfidasti inflessibile e sicura
L’aspro dominio, oggi rivivi in me!

Pure nel tempo che ciascun ricorda
Fu sgomento e terrore e rombo d’armi!
Il regno vinto! Il regno vinto…

E Lo-u-Ling, la mia ava, trascinata
Da un uomo come te, come te, straniero
Là nella notte atroce
Dove si spense la sua fresca voce!”

O Prìncipi, che a lunghe carovane
d’ogni parte del mondo
qui venite a gettar la vostra sorte,
io vendico su voi, quella purezza,
quel grido e quella morte! …


Mai nessun m’avrà!…
L’orror di chi l’uccise
vivo nel cuor mi sta!
No, no! Mai nessun m’avrà!
Ah, rinasce in me l’orgoglio
di tanta purità!


Straniero! Non tentar la fortuna!
Gli enigmi sono tre, la morte è una!

Zafferana Etnea che ritorna attraverso Turandot.

Stop, stop, stop.

Non rivive un bel nulla.

Adesso basta.

C’è una nuova città che si intravede.

Muoviti.

Cammina.

Senti lo swing nell’aria che soffia?

Sola me ne vo per la città

passo tra la folla che non sa

che non vede il mio dolore

cercando te, sognando te, felicità.

Ogni spazio guardo ma non c’è

ogni voce ascolto ma non è lei

Dimmi, dimmi dove sei perduta gioia

da rinnovar.

Tento e provo a cancellar

ma il dolore tende a riaffiorar

però io cerco un nome nuovo

un nome dal sapore di felicità.

Sola me ne vo di qua e di là

a cercare una nuova realtà

che diventi il mio castello

la mia dimora

la mia città

Dai e dai ci era arrivata al suo castello, alla sua dimora, alla sua città.

Era fatta di rifiuti, un vero e proprio mondo, un immenso giacimento di grande valore a costo zero.

Resti della sua e di altre vite, frammenti di altre storie che testimoniavano tanti diversi passati: in alcuni casi vere e proprie reliquie.

Erano il materiale attraverso il quale dare sfogo alla sua creatività.

Erano brutte cose da buttare sulle quali poteva lavorare per renderle interessanti se non proprio belle.

Gli scarti erano un qualcosa ricco di un potenziale divertimento che riempiva di umorismo la sua vita bruciata dall’ansia.

Proprio lei, emarginata e rifiutata dalla società per età e per idee, lei che era inutile alla collettività, aveva trovato nei rifiuti una mole di materiale a cui dare un nuovo valore e una nuova vita.  

E chissà, forse, quegli scarti potevano diventare lo specchio attraverso il quale prendere coscienza di sé.