Resistere con Nadia sulla scia del Colibrì

Lettera – di Nadia Peruzzi

Cara Jane,
come vedi dopo tanto silenzio può capitare che ti scriva nuovamente e a distanza di poco tempo.
Ho rivisto Paolo, il tuo Paolo. È sempre il bell’uomo che era in gioventù, con qualche ruga e qualche capello bianco di troppo.
All’inizio non mi ha riconosciuta . Io, rispetto a lui, sono invecchiata davvero . Ma non è questo che lo faceva esitare nel farsi avanti . È l’ulteriore cambiamento che mi sono concessa . Capelli corti e ricci, con qualche ciocca di violetto, occhiali a specchio e sigaretta elettronica. Io che in gioventù mai ne avevo fumato neppure una.
Eravamo in treno, direzione Roma, lui salito a Bologna, io a Firenze.
Per un po’ ci siamo studiati, poi io ho rotto il ghiaccio. Abbiamo parlato del più e del meno, di cosa avessimo imbastito in tutti gli anni nei quali ci eravamo persi di vista .
Poi mi ha chiesto di te. All’improvviso! Non gli sei mai uscita di mente, lo si capiva dagli occhi mentre io raccontavo di te.
Sembra quasi strano che un amore mai vissuto come il vostro in lui possa essere rimasto sempre vivo dopo così tanto tempo.
A pensarci strano non è.
Vivo è rimasto il desiderio inappagato, quello che non ha mai dovuto fare i conti col risveglio del giorno dopo , con la noia dell’abitudine, con il tran tran che spesso si insinua in un rapporto, fino a farlo rinsecchire.
Fra voi difficile potesse succedere qualcosa. Troppo diversi da ragazzi e immagino anche adesso che siamo tutti ben oltre la metà delle nostre esistenze.
Tu tutta pepe , alla ricerca continua di mete ed obbiettivi, mai ferma. Quanti fusi orari hai cambiato in quegli anni. Lui che sembrava abbarbicato ai luoghi, pochi, dove arrivava per lavoro o per studio. Faceva il nido, ma non uno qualsiasi, come quelli delle cicogne che tornando ritrovano il loro e quasi se lo tramandano generazione dopo generazione.
Alle assemblee a scuola era quello che si sedeva sempre nella sedia più vicina alla porta, pronto a scappar via alla prima avvisaglia di casino .
Tu nel casino ti ci buttavi dentro, talvolta eri proprio tu a provocarlo.
Ricordo di quella volta che aveste una discussione forte , di quelle che lasciano il segno e non hanno il grigio del possibile compromesso.
Lo accusasti di stare in una trincea tutta sua. Da lì osservava il mondo che gli correva accanto in un turbine. Secondo te era un atteggiamento fin troppo passivo, statico, senza volontà.
Negli anni del riflusso aveva trovato il suo giaciglio preferito, gli urlasti.
Poteva vedere che tutto stava tornando sui suoi passi, scivolava all’indietro e nel tempo delle passioni fredde lui ci aveva sguazzato alla grande.
Troppa fatica il tempo delle passioni forti.
Il suo star fermo, facendosi raggiungere dagli eventi lo faceva un eroe ante litteram della resilienza, quella che va tanto di moda nel linguaggio comune ed in politica oggi e che noi abbiamo contestato e aborrito fino da quando l’abbiamo sentita per la prima volta.
Entrambe convinte che i nostri padri se avessero fatto resilienza invece di resistenza al fascismo, Mussolini sarebbe rimasto al suo posto, non avremmo mai avuto la Costituzione e tutto quanto il resto che ci ha permesso i grandi avanzamenti degli anni 60 e 70.
Chissà se vi trovaste oggi voi due.
Ancora stareste a discutere se sia più coraggioso uno che cerca in tutti i modi di cambiare, non si accontenta mai ed è sempre sul filo di una ricerca continua di qualunque cosa faccia sentire vivi e vitali. Oppure ci sia posto anche per un altro tipo di coraggio che è quello a cui Paolo ha cercato di aggrapparsi per tutta la vita.
Ricordi quanti corsi abbiamo iniziato e mai finito? Dopo la curiosità iniziale, veniva l’abitudine e il dover andare, la noia e l’abbandono.
Prima del viaggio in Iran anche un corso di Parsi ci mettemmo a fare. Non spiccicammo una sola parola, nemmeno per un banale saluto di cortesia.
Come in altri casi andammo a gesti e a gran sorrisi e il viaggio andò alla grande anche senza Parsi usando un po’ di tutte le lingue di cui avevamo collezionato termini che definivamo di mera sopravvivenza.
Lui questo vortice non lo capiva. Si sentiva scombiccherato anche solo a sentire che ci stavamo organizzando per partire e non veniva mai nemmeno a salutarci quando partivamo.
Allora ci faceva arrabbiare e non poco e glielo facevamo scontare tutto al nostro ritorno, raccontando anche avventure che non avevamo vissuto affatto.
Non ci siamo mai soffermate in verità , né a interrogarci allora su quanto quel vortice stesse prendendo campo eccessivo. Il movimento per il movimento, senza direzioni di marcia reali se non quelle che andavano per la maggiore e facevano figo.
Forse non avevamo gli strumenti, oppure tutto era così veloce che risultava complicato trovare un attimo per mettersi a riflettere e pensare. In fondo gli avvenimenti hanno travolto anche noi . Li abbiamo subiti anche se pensavamo di dominarli.
La Milano da bere, lo yuppismo, le notizie 24 ore su 24 , il villaggio globale venduto a spanne e bastava un click per raggiungere un pakistano in uno sperduto villaggio vicino a Peshawar. La trama era ben congegnata e la domanda banale ma il pakistano il computer ce l’ha e se lo può permettere? E la luce per accenderlo, nel caso, a quanti chilometri da casa sua poteva trovarla?
Eppure quanto è durata la storia del villaggio globale interconnesso.  E noi dentro veloci come schegge a comprare Ipad e smartphone e tutto il resto dell’attrezzatura.
Adesso, forse anche tu come me, ritrovando Paolo, potendolo riascoltare,  avremmo una possibilità di confronto che allora non cercammo. Forse avremmo potuto comprendere qualcosa in più di questo suo carattere spigoloso, ma saldo e per nulla rinunciatario.
Se poteste vedervi, parlarvi,  ti convinceresti che ci vuole coraggio ed energia anche a non lasciarsi travolgere dal mondo in ebollizione, anche nello stare fermi come scelse di fare lui.
Non dico che questo vi avrebbe avvicinato fino a farvi finalmente stare insieme, ma perlomeno avresti capito di quante scale di grigio può esser fatta un’esistenza.
Soprattutto avresti capito che non è affatto detto che queste scale di grigio non abbiano anche loro una loro vitale direzione di marcia che non porta per forza alla noia e all’abitudine che uccidono in genere parecchi rapporti.
Ti mando un abbraccio.
Paolo mi ha detto di salutarti. Mi ha chiesto il tuo indirizzo. Può darsi che un giorno o l’altro possa trovare il coraggio di scriverti o di venirti a cercare.

Il tavolo di marmo di Stefania guardando il colibrì

Il tavolo di marmo – di Stefania Bonanni

Questa, che non è una storia, cominciò su un tavolo di marmo, in cucina.

Perché non nel letto? Mai saputo. Forse perché c’era la cucina economica, davanti al tavolo. Forse era una Pasqua fredda, quell’anno. Forse perché aspettando, tutti speravano di riuscire a consumare anche il pranzo di Pasqua. 

. Comunque nacqui, primogenita dell’uomo più somigliante a Paul Newman che si fosse mai visto, e di una donna morbida e dolcissima. Vennero in tanti a vedermi, forse sbagliarono, non era Natale, non ero un maschio. Però ero bellissima, dicevano. Molti di quelli non ci sono più, alcuni di loro mi hanno sempre chiamato Pasqualina.

In quella casa si faceva tutto, sul tavolo di marmo. Si tirava la pasta, si impastavano le polpette. Si staccava un pezzo di carne dall’impasto grosso, e se ne faceva una polpettina. Si modellava la carne in piccoli pezzi. Carne, sangue, occhi, capelli, di casa.

 Nacqui, arrivai in un mondo dove non conoscevo nessuno.Questo l’ha detto Beatrice, e mi ha fatto tanto pensare. Ma il mio problema non fu la solitudine.

Nessuno si accorse che avevo una sorella. Una gemella, siamese, appiccicata addosso.

Una buccia, un guscio, e sotto, dentro, la polpa.

 Non so quale fu il momento in cui lo capii, ma da allora tutto è tornato. Questo sentirsi sempre un po’ altro, stonata, fuori posto . Io ero quella che si vedeva o quello”altra, nascosta….? O un po’ quella, un po’ quell’altra, secondo i momenti, le necessità, le convenienze?

 Da bambina no, sono stata una bambina felice. Bella, intelligente e molto amata. Somigliavo a tutti e due, m baciavano molto, mi abbracciavano sempre.Su quel tavolo di marmo facevo i compiti ed il bagno, dentro la tinozza, davanti alla cucina economica.Somigliavo a lui, e da allora continuo a cercare di somgliare a lei, la donna morbida ed accogliente che non sarò mai.

 Venne l’adolescenza, l’età difficile, il momento nel quale il corpo cambia e non ci si riconosce. Ecco, per me fu un momento magico. Il momento in cui credetti che il mio guscio bastasse. Avevo sempre occhi incollati addosso, pretendenti fidanzati che mi seguivano come ombre, che mi cascavano ai piedi, ragazzotti che più trattavo male e più mi orbitavano attorno. Mi sentivo potente, non dovevo fare niente, ed ero lo stesso capace di fare sognare con un sorriso. Che nella stessa maniera potessi anche fare star male non mi passava neanche nella mente. Naturalmente questo periodo fu il festival del guscio, il ripieno dormiva, cresceva inconsapevole. Ero sempre più convinta non ci fosse niente, dentro. Leggevo tanto, avevo sempre libri a mezzo e fantasie negli occhi, nei pensieri. Mi piacevano più i fratelli Karamazov dei ragazzotti del paese. Piano piano ma convinsi di essere presuntuosa, che tutto questo leggere, sognare, voler conoscere grandi pensatori, significasse voler essere più di quello che ero, un guscio di paese, e che anche chi mi viveva intorno mi giudicasse così .

L’empatia di Rossella B. sulla scia del Colibrì

La differenza – di Rossella Bonechi

Nell’erba alta un fruscio improvviso, un movimento inaspettato e poi più niente. Ho visto male? I miei sensi erano stufi di sola contemplazione? No: ecco che intravedo due punte pelose che sembrano tremolare un po’. Scosto piano con le mani il sipario d’erba e appare una piccola lepre, immobile, solo il suo nasino freme e le zampe posteriori sono in tensione pronte allo scatto.

Lei si immobilizza tentando di ingannare il predatore e dargli ad intendere che non ne vale la pena. Ma chissà come trema il suo cuore, chissà se il suo istinto le sta continuando a suggerire l’immobilità o la prepara alla fuga improvvisa. Anche io trattengo il respiro, non voglio che scappi ma vorrei comunicarle le mie buone intenzioni. 

E d’un tratto lei non c’è più, è quasi volata con un salto liberatorio che mi ha lasciata impreparata, sorpresa, quasi delusa. Le deve essere costato parecchio rimanere ferma ferma in preda al terrore, come pure sarebbe stato faticoso lanciarsi in una corsa con la paura di non farcela.

Perché ci vuole la stessa energia sia a muoversi a vuoto che a rimanere saldamente fermi. Il risultato cambia solo se si sa guardare anche con il cuore, solo  se si mette in moto l’empatia e la gentile curiosità, così da scoprire cosa cela l’altro dietro la scelta tra il Masso e il Vortice; potremmo accorgerci che alla fine forse non c’è differenza tra noi e la lepre.

Sulla scia del Colibrì una storia in una storia di Gabriella

Colibrì 2 e Colibrì 1 – di Gabriella Crisafulli

Era fortunata, era molto fortunata.

Doveva assolutamente riconoscerlo.

Stava male ma se lo poteva concedere.

Era libera di vivere le sue paturnie senza doverne rendere conto ad alcuno.

Aveva quel grande spazio a sua disposizione che era la rappresentazione plastica di ciò che aveva passato e che stava attraversando.

Era capace pure di mascherare all’esterno quel che provava con impeccabili recite che attingevano alle sue interpretazioni passate.

Cosa poteva desiderare di più?

È vero, aveva un problema: c’era quell’animalino che le dava fastidio perché le ricordava che non era ancora finita. Dopo tanti anni che si era data da fare per essere splendida splendente, tenace resistente, non era ancora finita e cominciava a domandarsi se sarebbe mai servito a qualcosa il lavoro di scavo che la impegnava giorno dopo giorno.

Tutti le ripetevano di buttare via tutto il ciarpame che la circondava ma fortunatamente non l’aveva fatto e dalla montagna di roba vecchia era venuto fuori quel reperto significativo: la inchiodava ad una storia che ciclicamente si ripresentava e lei poteva solo prenderne atto. Tutte le energie profuse per anni nel tentativo di una trasformazione, di un cambiamento non erano bastate: lei si trovava punto e a capo davanti ad uno specchio che le rimandava l’immagine di un mostro con cui doveva convivere.

Il colibrì le ricordava con fastidio che fin da un mese dopo la nascita aveva dovuto considerarsi come un adulto. Si era adattata e aveva imparato a battere le ali sessanta volte al minuto per rimanere assolutamente ferma, per non incorrere nelle ire di chi la circondava. Dopo settanta e più anni era ancora lì, immobile in “sur place”.

Le sue amiche le chiedevano come mai era sempre stanca: forse le era toccato in dote dalla vita un continuo consumo di energie, sempre avanti e indietro fra un compromesso e un altro con il risultato di risultare ambigua e deludente. Si era sempre barcamenata ma adesso la scialuppa era malconcia e non sapeva quale direzione prendere.

L’aveva fregata l’imprinting: le rammentava che non era Konrad Lorenz.

Per evadere a tutto ciò aveva incominciato a scrivere una storia sul dio Serpente che distruggeva mondo terreno e mondo divino per la rabbia di non essere stato preso in considerazione dagli uomini e dagli dei.

Aveva cercato di convogliare su qualcosa di diverso dalla sofferenza tutto il dolore che provava e la invadeva come melma.

Non sapeva ancora se sarebbe riuscita.

Sapeva solo che era fortunata, era molto fortunata.

Il suo mondo era popolato da altro, oltre ai rifiuti.

C’era chi le offriva un viaggio negli Stati Uniti e chi gliene proponeva uno ad Instanbul.

C’era chi ascoltava le sue geremiadi e chi rifiutava un caffè salvo poi pregarla di assaggiare i suoi dolcini.

C’era chi le suggeriva di indossare il rosso e chi le offriva un posto sul suo banco al mercato.

C’era chi le inviava almeno una canzone al giorno e chi le stava vicina nella sua fatica.

C’era il nipote che dall’Australia si rivolgeva a lei per ricostruire l’albero genealogico della famiglia.

D’altro canto Elena di Vacchereccia glielo aveva detto: “I parenti sono come le scarpe: più stretti sono, più male fanno.”

Colibrì 1

Nel fitto della foresta, al riparo dagli sguardi umani, molti e molti anni fa viveva il dio Huitzilopochtli con la consorte Kwakwaka’wakw. Aveva scelto quel posto perché era il luogo della felicità assoluta. Il cielo, la terra, le acque, gli animali, le piante, i colori, tutto era lussureggiante. Per rendere quel territorio ancora più ricco di vera gioia perenne il dio aveva creato i colibrì che dipingevano i giorni e illuminavano le notti con la loro danza perpetua.

Gli uccelli avevano la possibilità solo di sostare brevemente di tanto in tanto fra i capelli di Kwakwaka’wakw. Nella sua grande chioma proliferavano fiori di ayahuasca: generavano un nettare carico dell’acido lisergico che dava loro la vitalità per non stare mai fermi.

Nella capigliatura della dea i colibrì costruivano i nidi dove depositavano le uova che Kwakwaka’wakw covava con amore. Chiedeva ai colibrì, in cambio dell’ospitalità, le piume del manto fatte da un misto di turchese, lapislazzuli e ametista, per adornare le vesti e la chioma.

Erano gli uccelli più piccoli del creato, i più belli, i più leggiadri ma anche i più guerrieri che il loro becco a forma di spada combattevano per proteggere dai nemici. Il loro movimento continuo sosteneva ideali di forza, resistenza, perseveranza e dominanza sui nemici. Per questo motivo Huitzilopochtli li aveva mandati anche in mezzo agli uomini a cui donavano pure fertilità e abbondanza, allegria e resistenza, cura e aiuto, acqua e fuoco.

Il re Tizoc era grato agli dei di quel dono e venerava il colibrì a tal punto da immortalarlo nella Pampa di Ingenio con un enorme disegno visibile solo dall’alto.

In onore di dei così generosi, il sovrano sacrificava i giovani della propria stirpe e uomini e donne delle città vicine, bottino di conquista, immolandoli vivi sull’ara votiva.

Folle straboccanti si riunivano per vedere come le vittime venivano trucidate.

Durante il rito alcuni sacerdoti suonavano i sacri tamburi generando vibrazioni profonde che procuravano esaltazione mentre altri soffiavano nelle conchiglie scandendo un ritmo incalzante. Tutto intorno venivano alimentati incensari sulle cui braci sacre bruciavano le foglie di ayahuasca producendo il fumo che diffondeva esalazioni allucinogene.

La moltitudine si lasciava andare alle danze mentre il sangue colava dall’ara votiva giù giù lungo il piano inclinato della piramide fino alla gente che se ne bagnava i piedi ballando nella polvere.

La danza cerimoniale, all’inizio, si sviluppava in cerchi concentrici generando un movimento cosmico e poi si estendeva in una catena umana, in un serpente infinito.

Una volta però, all’inizio della fine di quei giorni, il ballo ossessivo generò nel suo snodarsi un vero serpente, un rettile gigantesco e mostruoso che divorò la gente e nel contorcersi si fece prima arco e poi freccia lanciandosi nel territorio degli dei. 

Era Quetzacoalt, il dio serpente, che era stato mandato nel mondo sotterraneo perché la sua orrida figura spaventava Kwakwaka’wakw di cui era innamorato.

Quella volta, i balli ossessivi nel corso dei quali si inneggiava al re Tizoc, avevano creato una fenditura nel terreno e Quetzacoalt ne aveva approfittato per venire fuori dal sottosuolo: voleva dare sfogo alla sua rabbia, alla sua gelosia, alla sua violenza.

Era l’ora della resa dei conti e non se la fece scappare. Voleva punire il sovrano perché non gli aveva dedicato sacrifici umani, voleva dominare il mondo dell’abbondanza e voleva che Kwakwaka’wakw fosse sua.

Ma il dio serpente, però, non sapeva che rabbia, gelosia e violenza, nel momento stesso in cui mettevano piede nel luogo della felicità assoluta, ne cancellavano l’esistenza insieme a lui ed a tutti gli uomini che veneravano Huitzilopochtli e Kwakwaka’wakw.

Di tutta quella magnificenza dopo tanti secoli rimane una radura nella foresta che, vista dall’alto, disegna un colibrì e migliaia migliaia di microscopici uccelli colorati diffusi in tutta la foresta.

Con il movimento delle ali simboleggiano l’infinito, l’eternità e invitano gli uomini a lasciar andare il passato per fare spazio ad un nuovo ciclo di vita.

Il Colibrì di Cecilia

Siamo tutti colibrì – di Cecilia Trinci

Un uccellino in frenata libera, che vola all’indietro, in retromarcia. Sarebbe più naturale, più facile dispiegare le ali e andare, come va va, verso le aperture e i destini infiniti, giocando con il vento.

Resistere. Rimanere è segno di grande forza e di potente volontà. La forza dei “padri fondatori”, dei difensori delle famiglie, dei procreatori di nuove genie. Degli scienziati, degli ecologisti, dei naturalisti.

Ci sono i passi degli scarponi e i salti delle scarpette. Chi vola e chi resta.

Ci vuole forza per rimanere. Per trovare la bellezza nei passi già fatti.

Ci vuole forza per rimanere.

Rimanere amici,

Rimanere sposati,

Rimanere accanto.

Ci vuole forza per difendere le mura della città, gli affetti conosciuti, le idee di libertà, le case dei fantasmi.

Per difendere la terra dai cambiamenti e dai capricci di morte.

Ci vuole forza per onorare la propria idea, rimanere in un posto…. il proprio posto sulla terra.

Rimanere nonostante.

Nonostante chi si volta, chi si perde, chi non vede, chi dimentica, chi offende, chi calpesta, chi ride, chi piange, chi parla parla, chi stride, chi canta, chi muore, chi cade, chi inciampa, chi si fa male sui sassi del viale, chi….chi ….e cosa….

Rimanere, da un latino ri-manere, stare comunque, esserci.

Con Silvana volando con Il Colibrì

Pensieri liberi – di Silvana Castaldi

Dopo il nostro incontro di giovedì scorso su Sandro Veronesi, nei giorni successivi, per una di quelle combinazioni che mi sembrano piccoli “miracoli”, ecco che nella vetrina del mio libraio appare la seconda edizione de Il Colibrì che volevo cercare in biblioteca … e così lo compro, vedo che da questo romanzo è stato tratto un film e trovo che ci si riferisce a un libro su De André scritto da Dori Ghezzi in collaborazione con due linguisti. Leggo dunque la lettera che ha letto Cecilia per intero, sottolineo col lapis le tante frasi accattivanti

Sempre nei giorni seguenti e durante le mie ricerche  sulla EMMENALGIA mi arriva un post di mia sorella che si interroga sul concetto di EMPATIA … secondo Platone (un bel libro di Andrea Pinotti, Edizioni Laterza, che non si troverebbe più)…

“Mettiti nei miei panni!”. Quante volte ce lo siamo sentito dire; quante volte noi stessi lo abbiamo preteso dagli altri. Quante volte ci è sembrato di riuscirci; quante volte abbiamo dovuto riconoscere che non ce la si fa. ‘Empatia’ è una parola per questo sforzo, per questo desiderio, per questo bisogno. Una parola che dà nome a un problema: Come faccio a sentire quel che senti tu? Come posso immedesimarmi, io che non sono te, nei tuoi vissuti, nella tua vita? È possibile che io vi riesca, e che mi apra così all’altro, che a sua volta si apre a me? O sono invece destinato a rimanere rinchiuso in me stesso come in una bolla impermeabile? Questo libro racconta la storia, complessa e affascinante, di una questione che ricorre in campi disciplinari differenti: dalla filosofia alla psicologia e alla psicoanalisi, dall’antropologia alla storiografia, dall’estetica all’etica, dagli studi culturali e di genere alle neuroscienze. Andrea Pinotti, con un linguaggio accessibile al lettore non specialista, stila una mappa esaustiva dei territori del sapere in cui è implicato il problema della relazione con l’altro da sé. Relazione che non riguarda solo gli esseri umani ma anche il mondo degli animali e delle cose: che non sono mai cose e basta, ma hanno un carattere, un’anima propria, che entra in consonanza o dissonanza con noi. Stare dunque insieme con gli altri e con le cose: questo libro non ci insegna come dobbiamo farlo, ma ci aiuta a comprendere come lo facciamo.

Infine, per vie traverse, arriva dalle mie corrispondenze anche casuali il ricordo di alcuni versi di Pascoli: C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico … Felice te che al vento non vedesti cader che  gli aquiloni… finivano con “adagio per non farti male” e così lascio scorrere i pensieri …. a conclusione di questo ragionare su due o tre pagine proposte per un qualche misterioso motivo che non conosco ma che così bene si intreccia col divagare della mia mente …

La forza dell’immobilità di Carmela sulla scia del colibrì

Senza muoversi mai – di Carmela De Pilla

Non si era mai chiesta cosa avrebbe fatto nella vita, si lasciava trasportare dalle onde in uno spazio straniero o amico, si era trovata vecchia senza avere il tempo di contare il tempo e ora, indiscussa protagonista di tutta la  famiglia se ne stava ancora lì, nella stessa casa che l’aveva vista bambina.

 Quando si sposò fece di tutto per rimanere aggrappata a quelle mura, lì aveva visto nascere e crescere i due figli, aveva ricamato giorno e notte in quella piccola stanza buia consumando gli occhi, aveva litigato, amato e aveva conosciuto la morte negli occhi del marito.

Tutto veniva deciso tra la cucina e la stanza adiacente che assomigliava a un soggiorno soltanto perchè c’era un divano, era lei che con la sua placida tranquillità muoveva i fili delle marionette, a volte spinta da necessità a volte dal suo piacimento.

Una donnina si direbbe, esile e piuttosto bassa, ma con una forza neghi occhi che la faceva resistere ai venti più impetuosi, sicura nel prendere decisioni, ma altrettanto fragile, quando si trovava nella solitudine della sua casa aveva paura perfino della sua stessa ombra  e ritardava fino a notte inoltrata il momento di andare a dormire perchè, diceva, dormire è come morire.

Mai andava a fare visita a qualcuno eppure tutti passavano ore con lei, mai raccontava i fatti suoi, ma lei sapeva tutto di tutti, non credo che sia mai uscita dal suo paese, è rimasta sempre lì tra la cucina e quella stanza adiacente, ma la sua storia è stata un sussulto continuo in un mondo gonfio di tanta vita.

Diversi da chi si credeva di essere con Tina sulla scia del Colibrì

CONOSCERSI, RICONOSCERSI – di Tina Conti

Serve una vita intera per farlo, poi, si rimane sorpresi quando ci  si scopre  diversi da quello che si  credeva essere e diversi da quello che ci piace essere.

Come possiamo conoscere gli altri?

Solo   vagamente e a volte   inaspettatamente.

:- non credevo che tu fossi così!

Quante volte   ci siamo trovati   a dire questa frase…..  perché?

Non lo sapremo mai, caratteristica della grandezza dell’uomo e della sua mente.

Sulla scia del Colibrì riflessioni di Patrizia

Colibrì – di Patrizia Fusi

Pensando al colibrì che rimane quasi fermo e si nuove in un ambito ristretto, lo sento più vicino a me, lui non va lontano ma sta col suo nucleo famigliare.

Per me sentirmi un colibrì non vuol dire non muoversi ma apprezzare quello che mi circonda, accudendo a me stessa e alle persone care, con tutte le dinamiche caratteriali che ci sono nei nuclei familiari.

Forse si potrebbe vivere con molto meno cose materiali e godere di più dei contatti umani.

Il nostro vivere attuale in una parte del mondo è una corsa sfrenata al continuo cambiamento nei consumi di oggetti in tecnologia, amicizie, affetti, siamo sopraffatti dalle notizie.

Mi chiedo se il nostro cervello sia veloce come questi cambiamenti.

Sui giovani di questa parte di mondo, tutto questo correre che effetto avrà?

Quali valori stiamo passando con questo modello?

Mi chiedo: della nostra vita scegliamo forse il venti percento.

Una storia di Vanna sulla scia del Colibrì

La passivita` attiva – di Vanna Bigazzi

La posatezza ed equilibrio di Maria, doti ereditate dalla nonna materna, vennero messe a dura prova nel far crescere il suo Carlino. Fin da piccolo, ancora infante era stato difficile da sostenere. Quando arrivo` il momento di svezzarlo, rifiutava il cibo e sputava completamente le pappe preparate da Maria e somministrate nel modo piu` delicato possibile unitamente a cantilene e sorrisi, giochetti a sorpresa. Man mano che cresceva aveva difficolta` a dormire: estenuanti i tentativi per farlo addormentare, con favole, promesse, affettuosita` ricambiate spesso con bizze disumane. La stanchezza di Maria si mutava in grande sconforto, sola a dover allevare quella creatura disperatamente amata. Non aveva nessuno Maria, ne` genitori, ne` marito, solo qualche amica che in casi urgenti si prestava a darle il cambio. Carlino crebbe sano e terribilmente ostile. Contestava ogni parola della madre e con poche frasi riusciva ad umiliarla, a farla sentire indegna di essere una mamma. Molto raramente quando la sofferenza riusciva a raggiungerlo, piangeva e si avvicinava a Maria in cerca di consolazione. Erano solo quelli i momenti in cui lei poteva abbracciarlo e la commozione faceva piangere anche lei. La donna, esasperata, non sapeva piu` come contenersi, chiese aiuto a Pediatri e Psicologi con scarsissimi risultati, intanto la sua solitudine aumentava non intravedendo una via d’uscita.

“Al ragazzo e` mancata una figura paterna” dicevano, oppure: “Avete casi di nevrosi conclamate in famiglia? Parenti ossessivi, isterici, aggressivi?”

Nella sua ignoranza Maria lo condusse anche da una guaritrice che prescrisse bagni caldi con erbe speciali rilassanti del sistema nervoso e che allontanavano anche il male. Forse il male delle persone invidiose? E chi la invidiava quella povera Maria, esasperata, depressa eppure combattiva? Difronte alle aggressivita` di Carlino a volte reagiva in modo isterico, a volte piangeva e si chiudeva in camera sua. Stendiamo poi un velo pietoso sull’adolescenza del ragazzo, la situazione spesso diveniva insostenibile. Ricorse allora agli Assistenti Sociali, uno peggio dell’altro, finche` non incontro` Stella, anche lei Assistente Sociale ma diversa, come illuminata da una sapienza che quasi spaventava Maria. Penso` che le fosse stata inviata dal cielo perche` non morisse insieme al suo bambino. Stella insegno` a Maria un grande esercizio, quello della passivita` attiva. Difficilissimo: non doveva piu` inquietarsi di fronte alle perfide provocazioni di Carlino, doveva tacere, ascoltare, intervenire pacatamente solo quando intravedeva uno spiraglio nel quale potersi inserire; ingoiare, rinunciare ad ogni tipo di ribellione, capire quando la fragilita` del ragazzino poteva permetterle qualche frase, controllata, ben studiata pur nell’immediatezza del frangente, intelligente come lo era Carlino, lenitiva, terapeutica. L’apprendimento di tutto cio` fu lento e difficile per Maria ma non impossibile per una madre che amava cosi` tanto la sua creatura come era lei. Passo` qualche anno e Maria si accorgeva di alcuni miglioramenti. A volte Carlino riusciva a dimostrarle un po` di umanita`. A quel punto Maria ancora di piu` rinuncio` a se stessa, la sua sola gratificazione era osservarne i progressi. Viveva solo per lui in un binomio di amore corrisposto e contrastato. Ormai quella era divenuta la sua missione e, con il passare del tempo, sempre meno le pesavano rinunce e frustrazioni. Carlino era divenuto quasi un uomo e l’innamoramento per Carmela addolci` anche il suo comportamento verso la madre. Che dire, un miracolo in virtu` d’amore? Anche, forse ma fondamentalmente il riconoscimento, pagato a peso d’oro, di essere riuscita ad integrare tutte le parti ombra, congenite ed ambientali, di suo figlio: saggezza e pazienza, intelligenza e tempestivita`, tutte doti che Maria possedeva pur non sapendolo e che le difficolta` della vita le avevano insegnato. Oggi Maria, con qualche ciocca bianca sulla testa ed un’espressione del volto pregna di santita`, continua a seguire il suo Carlino, ma a distanza, adesso il giovane abita per conto proprio, visitato dalla sua ragazza e da alcuni amici. Capira` mai il sacrificio della mamma? Forse no, ma che importa, chi ama non deve aspettarsi ricompensa e credo non ci sia amore piu` grande di quello di aver saputo offrire comprensione, consapevolezza, quella passivita` attiva che sa ricostruire la` dove il destino ha distrutto.     

Volare con Rossella G. sulle ali del Colibrì

Uccellino – di Rossella Gallori

Uccellino di marmo

Un battito d’ali, mosse baci mai dati.

Uno stare fermi, senza letti uniti.

Materassi gemelli, distanti, ma caldi di noi.

Io che non conosco, non sono.

Tu che non sai, non sei.

Potevamo e siamo stati insieme, per sempre.

Minuti, ore, giorni, anni, per non toccarsi nemmeno con gli  occhi?

Con gli, occhi si, ci siamo sempre amati, leggendo libri diversi, facendo figli con altri, baciando altre bocche.

Anche quando eravamo ciechi ci siamo visti fuori, guardati dentro. Anche quando io volevo, tu no, io forse, tu si…..

….quel battito d’ala, quella piuma color cenere, non è riuscita ad abbattere il muro sottile di nebbia inesistente.

Ti amo, come so amare chi non c’ è, come so amare chi ama me,  che non esisto e se vivo è  solo per te….

Il panìco caduto dalla gabbia…

Ci colse impreparati e distanti…

Restammo insieme, se pur lontani a guardare la gabbia aperta ……

un piccolo uccello di marmo, cercava di spiccare il volo……

Sandra e l’emmenalgia sulla scia del Colibrì

Emmenalgia – di Sandra Conticini

Emmeno: rimanere saldi.

Ci vuole coraggio ed energia per rimanere fermi.

Tutti e due i protagonisti del libro hanno la tristezza nell’anima per non essere stati capaci di stare insieme e non essere andati l’uno incontro all’altro per tutta la vita.

E’ forse una colpa essere immobili?

Ognuno la sua vita la deve vivere come meglio crede.

Già  è abbastanza complicata, almeno scegliamo quello che più ci sembra adatto per noi. 

Anche io mi sceglierei l’“emmenalgia”, (vocabolo che prima di leggere questo libro non conoscevo) perchè i cambiamenti positivi mi fanno  paura… figuriamoci quelli negativi.

Penso che, stando ferma, non ci siano cambiamenti importanti, ma questo è vero fino a quando non ci mette lo zampino la “vita” ed allora bisogna muoversi per  riuscire a gestire la nuova situazione.

Questa è la forza di andare avanti che si può chiamare desiderio, piacere o anche responsabilità.

Carla ci porta da Pirandello a Veronesi passando da una lettera

Da Pirandello a Veronesi – di Carla Faggi

Iniziava così una lettera che a quindici anni scrissi ad un ragazzo conosciuto al mare:

“ Pure io ho letto Pirandello!

Così ho capito perchè mi volevi e non mi volevi, perchè io sono tornata a Firenze e tu a Pescia, perchè non hai saputo rispondermi se avresti voluto rivedermi l’anno prossimo al Lido di Camaiore oppure no…”

Mi è tornata in mente grazie alla lettera che ci ha letto Cecilia.

I libri ispirano, le parole fanno riflettere… magia dei ricordi.

Sottrarsi alle decisioni quindi al cambiamento è come non volersi togliere mai la maschera.

Nel momento in cui il mio ragazzo di allora e Marco di Colibrì decidono di stare fermi, di non muoversi, scelgono di non togliersi mai la stessa maschera, di non accettare di mostrare le proprie diversità cambiando volta volta le legittime infinite maschere di cui ognuno di noi ha bisogno per vivere. Ci cambiamo maschera ogni volta che ci rapportiamo con persone diverse perchè diversa è la percezione di noi e diverse sono le emozioni.

Pure quando prendiamo una decisione cambiamo maschera perchè ci prepariamo al cambiamento. Solo stando fermi non cambiamo mai la maschera che stiamo portando e che invecchia con noi. Questo avrei voluto scrivere continuando la lettera.

E lui cosa mi avrebbe risposto, forse come Marco di Colibrì?

“ ti rispondo. Forse sto bene con la mia cara maschera che invecchia con me. Forse scegliere di non decidere è già una decisione importante, è lasciare che sia il proprio istinto a imbattersi in quello che è importante per noi senza forzature senza decisioni , nella staticità dell’attesa.

Cambiare non sempre ci porta al meglio.

Quindi vai per la tua strada, cambia tutto, sempre e comunque se questo è il tuo bisogno ora. Quando verrà il momento che ti fermerai ti accorgerai di stare bene.

Incontro alla Carrozza 10 del 17 novembre 2022

con Cecilia Trinci

Il Colibrì di Sandro Veronesi: “Emmeno: rimango saldo”

Interessante discussione su: MOVIMENTO, da cui CAMBIAMENTO, ispirandoci a Il Colibrì, libro e film in sala in questi giorni.

foto di Cecilia Trinci, Lucia Bettoni, Rossella Gallori

Sono guizzate fuori, dal nostro discorrere, le parole e i concetti pieni di altre sfaccettature:

Esperienze – Coraggio – Sicurezza – fretta – Treno in partenza – “non ci siamo mancati, ci siamo incontrati” – Direzione di marcia – Libertà di esserci – muovere il proprio stato vitale – guardarsi intorno – osservare – irrequietezza – insoddisfazione – occasione e conoscenza – amore non vissuto – energia – maschera di Pirandello – immobilità – necessità – prova di amore – protezione – trasformazione – un correre inutile e faticoso – essere duttili – stare saldi – muoversi per realizzarsi, per conoscersi – adattarsi – adeguarsi alle situazioni – resistere – “Ci vuole parecchio coraggio per essere stronzi”.

Sulla scia di Guccini i dubbi di Gabriella

Il ciliegio era morto – di Gabriella Crisafulli

… ma l’età all’improvviso disperde quel che credevo e non sono mai stato … (Guccini)

Il ciliegio era morto.

Della neve di petali che ogni anno stendeva ai suoi pedi, era rimasto solo un tronco.

Sembrava un Cristo in croce.

Lei aveva perso la sua incrollabile speranza.

Il glicine che aveva piantato a fianco perché lo abbracciasse e ricoprisse la sua cruda nudità, stentava ad attecchire.

Sperava che gli avrebbe dato nuova vita.

Si era comportata come una fata turchina, con lui così come con tutti gli altri.

Ma quella fantasia si era frantumata e davanti le appariva, impietoso, il pagliaccio dalle mille sembianze che era stata, a sua insaputa.

Nel formicaio di cose andate che le turbinavano nella mente, pungeva il rovaio di continui dubbi mentre la scuoteva il libeccio di una serie di domande.

Si era spenta la boria del “tutto va bene” davanti alla scoperta che tutti stavano male.

Aveva attraversato a fatica lo specchio e guardava la realtà.

Si era trovata a gestire cose mai scelte.

Aveva cercato di compensare questo con un’inutile sarabanda tra rincorse verso ideali astratti, sogni ambigui, fantasie illusorie, nella speranza di appagare un’insaziabile sete di giustizia.

Non aveva realizzato quello in cui credeva e sperava.

Era stata ambigua con sé stessa e con gli altri.

Avrebbe voluto salvare capra e cavoli: adesso erano cavoli davvero.

Si ritrovava così a dipanare una matassa di affetti complessa e multiforme.

Per smarrirsi era bastato un attimo, per ripartire l’aspettava un percorso in salita.

Sapeva solo che c’era un compito che l’attendeva.

La forza le veniva dalla sua stessa vita, finché ci sarebbe stata.

La vita che ancora le rimaneva, fatta dal quotidiano acciottolio dei piatti e dai panni stesi al vento.

Pezzo a pezzo metteva un mattone dopo l’altro, per tentativi ed errori successivi, con la consapevolezza che l’inferno è lastricato di buone intenzioni.

Lasciava in eredità la sua tenacia nel ricominciare sempre da capo.

Un testamento che invece di fine poteva sapere di un nuovo inizio.

Ma rimaneva pure in eredità il suo essere così, improbabile anche ai suoi stessi occhi.

Portava in sé la sofferta umanità di una madre che ha sacrificato i figli sull’altare degli ideali, quelli in cui credeva e non ha realizzato.

Quelli che avrebbero dovuto costruire un sentiero luminoso e invece sono miseramente crollati.

Si era così ritrovata nel mondo di sotto a esplorare oscurità e contrasti in mezzo ad ombre pesanti.

Stava riemergendo ma pativa le conseguenze che aveva generato.

E aspettava, aspettava, aspettava, grata a sé stessa dell’oggi, il suo giorno preferito.

Lettera di Rossella B. a Guccini

Lettera a Guccini – di Rossella Bonechi

Caro Francesco,

se senti il Tempo che stringe la borsa vuol dire che è passata molta vita dai tuoi occhi, quella che tu credi presa di striscio e che invece ci ha investito in pieno, fortunatamente.

Ti scrivo per tentare di rispondere alla tua domanda: non siamo creditori di nessuno, nessuno ci rende niente, né amici né anni né passioni mai più vivibili. Questo ti preoccupa? Non dovrebbe: se li hai persi vuol dire che li hai avuti, nel cuore nella testa nel corpo nei sorrisi, non importa dove, fosse anche in quelle finestre in cui gli altri vivono la propria vita acciottolando i piatti.

Ciao Francesco, goditi l’erba che ancora ti fa regali e impara dai ciliegi e dalle rose che fioriscono e appassiscono con incrollabile speranza.

Ti mando un saluto, rimanendo per sempre con te

La Tua Vita 

Scia di luce di Anna sulle note di Guccini

La “lettera” di GUCCINI – di Anna Meli

            Un insieme di immagini  che si accavallano nel bene e nel male. Una musica ne accompagna il corso in un lento volo nel tempo che si chiama vita.

            Sono emozioni forti e contrastanti: forza, dolcezza, gioia e rimpianto camminano insieme. Ricordo anch’io giornate di sole al mio paese. E, magari affacciandomi alla finestra ho ascoltato con pigro piacere suoni di parole, di musica, insieme a quello dell’acciottolio di piatti che mia madre sciacquava in casa.

            Mi sentivo rassicurata da quei rumori familiari misti fra fuori e dentro casa. La vita scorre veloce se sei costretta a viverne gli eventi belli o brutti che siano. Spesso gli schiaffi del destino ti atterrano, ma non ti distruggono se riesci a cogliere il tutto che ti circonda ed a sentirti confortata dalla bellezza semplice e tutta da scoprire o da ricordare.

            Basta un cielo azzurro con soffici nubi bianche, un melo in fiore e…mio padre seduto sul retro della casa che fa colazione. Una grossa ciotola di latte e pane e i suoi gatti che aspettano di condividere qualche boccone e lo guardano con occhi gialli di sole.

            Poi la sorte avversa, i desideri irrealizzati e la sconfitta nella corsa con il tempo che inesorabilmente procede implacabile. E ancora, la forza di volontà che ti spinge a sperare  per cogliere l’attimo propizio che ti realizza o ti delude ancora rubandoti attimi importanti che nessuno ti restituirà. Ma c’è sempre un domani…

Sulla scia di Guccini la cavalcata di Rossella G.

Ciao Fra… di Rossella Gallori

Ci eravamo incontrati, la prima volta, nel 65/66, ricordo solo che ero a  Bellaria, dopo l’ippodromo a Cesena, la piadinata, in orari che per noi era notte fonda, ed oggi è appena buio, io 15 anni, sfacciata e appariscente, scelgo di sedermi accanto a te, gigante cupo, mollando il pischellino, quasi coetaneo, di turno.

La bocca sporca di squacquerone, e tu che mi porgi un fazzolettone di cotone grosso, un po’ da campagnolo, io che  molto scemotta ed un po’ allegra di lambrusco, ti invito a ballare.

Non ballo, canto…

…e ti alzi, alto, finalmente alto, penso…Forse più di 1metro e novanta….

La tua  pronuncia non mi piace, pronunci il mio nome storpiandolo, senza R ed alle S aggiungi le C .

Alle prime note mi addormento, qualcuno ha spento la luce, altri hanno acceso candele già vestite di cera vecchia, piena di ideali ricamati …mi sveglio, sobbalzando, le frange del mio vestito impigliate in qualcosa o qualcuno…Dio è morto, nei campi di sterminio….

Credo di aver perso molto,  forse  troppo, erano gli anni in cui volevo scordare, Dio era morto? Non lo avevo ucciso io!

Ci si riaccompagna, uno con l’ altro, il mare biascica la spiaggia, le giostre frullano con Casadei, poi la Mara mi sussurra: ma lo sai chi era?

Chi era chi?

Quello che cantava!

Nooooo!

Era Francesco !

Francesco chi?

Erano anni in cui, avevo perso la guerra e cominciavo, nuove battaglie, il lavoro al posto  dello studio, tanti casini, cercati, voluti, capitati….l’ importante era un qualcosa che portasse soldi a casa, dove c’era una busta paga sicura, “ segnata” si diceva, dove non c’era chi ti toccava il culo, se non lo volevi anche tu, che non era di madre in figlia, ma cmq ad 1 metro da terra, il mio…..erano ore, mesi, tempo, un ingorgo di vita……

95/96

Ci siamo rincontrati,  trenta anni dopo, a Modena,  non ci siamo riconosciuti?  tu non mi hai riconosciuta, io si,  eri seminascosto da un capannello di gente, una camicia inguardabile, gli occhiali un po’ più spessi, ingrassato, ero sola aspettavo, non ricordo bene cosa, ah si un’amica mai arrivata forse, facevo  una sosta per qualcosa di caldo…

Mi sono avvicinata, stringendo un cappotto, bello e stretto….e: un autografo, mi chiamo Rossella, sono di Firenze…

Mi hai sorriso, sei diventato quasi bello.

 Rossella con r….  E la tua lingua si è ingarbugliata?

Abbiamo riso, felici di esserci, gli amici sono spariti, ci han apparecchiato, un tavolo in disparte, tortelli e lambrusco, io più tortelli, tu più lambrusco, i fogli un po’ macchiati di sugo, io con il cuore a mille a quasi 60 anni, tu quasi 70, forse rivoluzionario, forse compagno, celebre, io una qualunque che aveva avuto belle gambe, capelli lunghissimi, sfacciataggine da vendere, e Bellaria? Hai fatto finta di ricordarlo, anche attore.

Cosa scrivi?

Una llettera!

A chi ?

A …Victor…a Franco…

A chi non c’ è più?

A chi ha condiviso, ma mi rattrista….troppi, chiasmi….

Francesco scusa, chiasmi vuol dire intreccio?

Gli amici persi…..la fede cieca dei falsi miti…

Non ho coraggio di controbattere, do uno sguardo voluto ai fogli scritti… penso, si amici persi, anche i miei … troppi, poco più  grandi di me…quel Geoffrey  dai capelli rossi, che preparó il suo the,  aprendo il gas senza fiamme, morì così come voleva con il libro aperto ed una bustina di bevanda al limone, mai usata…e Gabriele bello come il sole che il bagno lo fece in Arno con la macchina e tutto, e Luciano e la Diana, il tempo chi lo rende a loro, a loro che hanno avuto il coraggio di non farcela, di non accettare una vita di lotta, che non avevano miti, falsi o veri che si siano rivelati…

Riprendo la parola, mentre riaggancio, alzandomi, un cappotto nero di rabbia, immagino di avere quelle  stagioni di vetro  e sabbia, in tasca….di graffiarmi le mani, con i ricordi….

Scrivilo Fra, scrivilo: Ma il tempo chi me lo rende?? A te lo ha reso il successo, l’ istruzione, il canto, il modo di porgere parole a chi non ce l’ha, a chi non le sa trovare, la musica dei sogni, quella campagna che ami e che fa casa. Forse Fra hai bisogno di occhi nuovi, ma riesci ancora a vedere!!

Io ho visto poco, ma il tempo mi ha reso cose diverse, tra gioie e dolori, ho fatto famiglia, ho fatto casa, ho fatto amici……diversi e belli

Ci siamo salutati in fretta, sfiorandoci appena le labbra, non ricordo, ma poi   nel 66 ci eravam baciati davvero?

Tu hai ripreso i tuoi fogli la tua lettera.  Io, il mio treno….

Novembre2022 

Ti ho ritrovato dopo 25 anni , in un treno fermo pieno di donne dai capelli d’ argento d’ oro e rame, pieno di parole buone, da mangiarle, poi una di noi, mentre il vagone sembrava muoversi, al ritmo del caffè caldo, una di quelle che il tempo l’ ha reso con gli interessi a chi non ne aveva,  a volte l’ aveva perso :

   Francesco, guardate, ascoltate, c’ è Francesco….

Sei entrato tu con tanti fogli tutti uguali, un po’ più curvo, con la solita camicia brutta, il berretto di lana, gli occhiali scuri…la tua voce inconfondibile ed il tuo metro e novanta, che non ti faceva  sembrare poi, così tanto alto:

…..le tv sono rombi di tuono per l’ indifferenza scostante dei gatti….