Il cubo del 1000: lunghezza, larghezza, profondità – di Gabriella Crisafulli

Un groviglio di tensioni è abbarbicato al volto.
Lo imprigiona in una smorfia senza sorriso.
Sul cuore gravano sentimenti contraddittori in conflitto fra loro.
Vivere il giorno che incomincia è una impresa.
Tutti quei fili che intralciano lo scorrere del tempo erano stati allentati e quasi del tutto attutiti da tanti anni di amore.
Nel gioco dell’oca della vita, senza quell’amore si ritorna alla partenza.
Nella prima casella c’è una giovane donna seduta e una bambina in ginocchio dinanzi a lei che bacia la mano per chiedere perdono.
In quel gesto la bambina colpevole smarrisce la propria dignità, l’autostima, la fiducia in sé, il riconoscimento dovuto dall’altro.
Tanto più che quella giovane donna è adorata da chi la supplica.
Il dolore della mente non è tanto in quel gesto che genera sofferenza, ma nel fatto che quella giovane donna agli occhi di chi la implora è oggettivamente una persona sensibile, affettuosa, gioviale, seduttiva … con gli altri, bambini o adulti che siano: ne è testimone.
Ma non con lei.
Nell’abisso generato da due realtà così dissimili fra loro si smarriscono nel tempo la logica, i sentimenti, il senno.
Anche perché in quella prima casella c’è anche un padre il quale, al rientro dal lavoro, su esortazione della madre che si rammarica del comportamento della figlia supplice, prende in braccio la bambina per picchiarla con vigore senza proferire parola.
E questa è una delle tante situazioni surreali.
Era nata cinque anni prima di quella supplica.
Il padre voleva chiamarla Regina.
Poi scelsero il nome di una principessa.
Nella mente manca il passaggio da principessa a paria: cos’era successo?
Perché era femmina?
Perché si ammalò subito?
Però era brava, assolutamente immedesimata nella parte di adepto convinto e devoto.
Seguace così osservante da guadagnarsi l’appellativo di “Pappagallo”.
Un marchio come nel motto dei Carabinieri: “Per sempre fedele”.
Le parole di madre e padre erano dogmi insindacabili al di là e al di sopra di qualunque ragionamento o patimento.
Una cosa erano le verità genitoriali indiscusse e indiscutibili, una cosa erano i sentimenti che forse provava ma di cui non era consapevole.
Un doppio binario.
Forse triplo, quadruplo, chissà.
Pensieri su percorsi che non si incontrano.
Certo per una mamma narcisista compulsiva deve essere stato faticoso l’arrivo di una figlia che il papà voleva come Regina.
E poi dover stare dietro alle sue continue malefatte costituiva un impiccio: infilava le forcine nella presa della luce, si tagliava il volto con una lametta, si faceva mordere da un cane proprio vicino all’occhio, si buttava giù da costruzioni precarie e muri alti, pedalava su una bicicletta senza freni con i pattini ai piedi finendo giù per le scale, …
Era tutto un andi e rivieni dagli ospedali.
A nulla servivano i bigliettini con scritte di aiuto sparpagliati per il giardino della scuola elementare di Varese.
Ma arriva un amore grande e potente che sa di vita, di gioia, di futuro.
Sul passato scende un velo, si dimentica, si va avanti spensierati.
La perdita di quell’amore fa collassare il mondo: riporta alla prima casella del gioco.
Approdare ad Antella dalle Matite poteva essere un tentativo per liberarsi dalla fatica di un’esistenza in bilico.
Pensa che sia come una scuola, invece è un viaggio.
Le Matite parlano, scrivono, commentano, ridono, polemizzano, mediano.
È un ping pong di idee, affetti, luoghi, persone, cose, fantasie.
È tutto uno svolazzare di visioni, suggestioni, amori, pene, passioni.
Per quella che forse non è mai stata una bambina è un rispecchiamento.
Scopre così che lei a sua madre non bastava.
Scopre che la mamma non ce la faceva a nutrirla e per questo si era ammalata.
Oggi le Matite saziano.
La colata lavica aveva bruciato tutto ma dopo alcuni anni si vede in qua e in là qualche rametto verde.
Oggi sa di non piacere e se ne fa una ragione: non è stata apprezzata per tanti anni malgrado tutti i suoi sforzi, adesso è il caso che si viva com’è.
Anche lei ha camminato nella bellezza della natura in un autunno a Nava lungo il sentiero che si snodava tra i filari di vite: uno scorcio di libertà al di fuori della caserma e del controllo.
Anche lei nel chiuso della sua cameretta, di nascosto a tutti, aveva un cerimoniale.
Adesso “Aveva la bellezza di cui solo i vinti sono capaci.
E la limpidezza delle cose deboli.
E la solitudine, perfetta, di ciò che si era perduto”