Finisce ancora una volta il nostro viaggio annuale con le Matite.
Quest’anno abbiamo iniziato con timide uscite in presenza (con molta prudenza!!!) abbiamo proseguito con le nostre videoconferenze settimanali a distanza e a marzo siamo finalmente uscite dalle “grotte” in cui il Covid ci aveva relegato per DUE ANNI.
Questo tempo non lo abbiamo perduto, ma lo abbiamo investito in conoscenza, confidenza, creazione e fantasia e abbiamo continuato a sentirci sempre LE MATITE CHE SCRIVONO IL CIELO
Hanno contribuito a raccontarci le foto di Alessandra Biagianti, Cecilia Trinci, Lucia Bettoni, Mimma Caravaggi, Nadia Peruzzi, Rossella Gallori, Patrizia Fusi
Benvenute a Silvana Castaldi, Rita Angeloni e Rossella Bonechi
Ognuno dei 15 autori ha scritto un pezzetto di storia, tutti in contemporanea, senza mettersi d’accordo, in 20 minuti e con unica guida l’argomento rigoroso da seguire senza uscire dalla cornice data.
I 15 pezzi sono rimasti UGUALI all’originale, sono stati cuciti da Cecilia ed eccoli qua in un’unica, logica storia. La sorpresa sta proprio nell’essere risultata, alla fine, coerente e con una inattesa interiorità dei personaggi, al di là dei fatti contingenti.
foto di Lucia Bettoni su idea grafica di Silvana Castaldi
Se lo chiedeva, ogni tanto. E ancora di più ora che era giunto alla maturità. Si chiedeva se aveva realizzato le aspirazioni di un tempo, quel tempo in cui avrebbe voluto una vita tranquilla, una famiglia serena, un lavoro poco impegnativo che lasciasse spazio per i suoi passatempi e soprattutto per lo sport, per poter mantenere quel suo corpo che amava tanto. Invece eccolo lì, impegnato qua e là, sempre fuori casa, sempre in alberghi anonimi, a volte addirittura squallidi, che non hanno niente di familiare. Anche le donne non si fidavano di lui e del suo lavoro e dopo un po’ lo hanno sempre mollato.. “I rappresentanti non sono seri” dicevano, e oggi il bilancio non era dei migliori, troppo solo e con quel fisico poi, che da dietro poteva sembrare ancora accettabile se non fosse stato per quelle gambette a dir poco arcuate (tutta colpa di quei cavalli adolescenziali che lo avevano rapito nei maneggi di mammà) ma se leggermente si metteva di profilo emergeva non una leggera pancetta, ma una vera e propria pancia perché non voleva dire pancione. Era nervoso e mangiava senza rendersene conto. Meno male restavano gli occhi, che non avevano subito modifiche e conservavano quello sguardo un po’ a faina, maliardo e birbante. Le donne lo guardavano per quello, restavano incantate per un po’ e poi lo lasciavano sempre per lo stesso sguardo, perché dicevano di non fidarsi di uno così. Lui comunque era sempre insoddisfatto e solo, in attesa di una impossibile fata che lo portasse con sé. (Vanna)
Non abitava più da tempo nella vecchia casa di famiglia ma ogni tanto gli piaceva tornarci. In realtà non era più neppure quella di quando era bambino perché era stata ristrutturata quando genitori si erano separati. Erano rimaste solo le mura principali e la scala che andava al piano superiore, fuori un gran parco che prima era coltivato a tabacco con alberi da frutta, fichi e noci altissimi. Negli ultimi anni, era rimasto solo un misero orto che metteva tristezza a guardarlo. Erano rimasti gli olivi. Erano rimasti anche tutti i camminamenti inframmezzati da pezzi di pietra e erba, che amava calpestare per poi risalire i 5 o sei scalini per arrivare al terrazzo con una grande vetrata colorata. Da lì si entra in casa ancora oggi: una stanza che sembra una sala da ballo da come è grande, lì c’è il camino originale a cui è tanto affezionato pieno di ricordi di bambino e di adolescente C’è un lungo tavolo con diverse sedie ricoperte di seta verde una vetrina con piatti e bicchieri e tazze, anche quelli oggetti datati, tre divani e diverse poltrone. Dalla sala si entra in cucina: un tavolo di marmo bianco ed una madia sempre bianca, accanto c’è un bagno e un ripostiglio poi si salgono le scale e si trova la camera con un letto a baldacchino un armadietto a due ante un cassettone e due comodini con il marmo, accanto un’altra camera che era dei nonni ma ora praticamente è il magazzino dei mobili rimasti, poi la camera sua e di suo fratello con le due reti e una specie di cassetta per comodino e con tavolo per studiare. All’inizio stava bene in quella casa, poi è stato preso dalla solitudine e dalla voglia di scappare. (Sandra)
Fu così che rimase incantato da quella donna apparsa all’improvviso nella sua vita.
Lei era sempre stata bella fin da ragazza ma allora ne era meno consapevole di oggi perché con l’esperienza e la sicurezza delle proprie capacità era diventata sicura di sé. Gestiva il suo fascino alternando dolcezza e sensualità, affettività, alterigia e distacco. Arrivava persino a picchiarli, gli uomini, e li teneva in pugno. Tanto era il desiderio della sua dolcezza e del suo sesso che tutti facevano tutto quello che lei voleva. Con le donne invece si mostrava complice, remissiva, stimolava il sentimento di sorellanza, il suo corpo e il suo volto si trasformavano fino a sembrare quasi bruttina: suscitava quindi nelle donne tenerezza. Ma era tutto studiato per poter manovrare tutti, uomini e donne a suo piacere. Era sempre curata nell’abbigliamento, i vestiti mettevano in evidenza la sua sensualità e gli sceglieva per gli uomini, ma non erano mai grandi firme per non suscitare l’invidia nelle donne. Era molto colta ma non lo faceva pesare anzi parlava in maniera molto semplice, anche questo per non suscitare gelosie che avrebbero minato il suo potere sugli altri. (Carla)
Lei, la sua casa l’aveva scelta su due piedi, senza pensarci tanto. Quando era andata a vederla per prenderla in affitto, già arredata, le era piaciuto quel soggiorno pieno di luce, la porta finestra che dava sulla terrazza piena di fiori e piante officinali, un dondolo sotto una pergola di glicine e un tavolo. Avrebbe arredato proprio così quel soggiorno, proprio con quei mobili moderni, essenziali, bianchi, un divano blu e diversi cuscini colorati, e quei poster di molte città straniere. La cucina un unico grande piano di lavoro, la finestra su un grande giardino pieno di grida di bambini. La camera spaziosa non ha pieghe: un grande cassettone sotto il materasso e armadio a parete con porte scorrevoli. Lei, di suo, aggiunse solo le luci formate da vetri di tanti colori che si accendevano in enormi caleidoscopi e restavano sempre accese. (Patrizia)
Aveva paura del buio e non voleva ammetterlo. Di notte, appena chiudeva gli occhi, tornava sempre quella stessa scena, ormai lontana nel tempo, ma ancora viva e sanguinante.
Quel giorno lontano in quell’automobile viaggiavano in quattro: l’autista, il nonno, le due sorelline: la strada che porta da Noci a Fasano era piena di curve e gobbe d’asino ma Nicola era un guidatore esperto. Tutti gli anni a inizio di settembre il nonno accompagnava la nipotina al collegio dove veniva accolto con grande rispetto grazie anche alle tante donazioni che faceva in favore dell’istituto. Le bambine erano contente: avrebbero rivisto le amiche lasciate a giugno e sarebbero state aggiornate di fatti e misfatti delle varie zone di provenienza e avrebbero saputo come andavano le faccende di duchi e Marchesi, a cominciare dai Romanazzi che erano strettamente imparentati con loro, ma al solito, prima della salita per Fasano, il passaggio a livello era chiuso e Nicola addirittura spense il motore mentre aspettava il passaggio del convoglio. Il treno, sferragliando, si fece sentire da lontano con un lungo fischio che rafforzò al passaggio a livello, ma al fischio si unirono uno scoppio e un boato: un rumore indescrivibile e incancellabile nella memoria che di quelle quattro persone salvò solo la minore delle bambine. (Gabriella)
Non sapeva spiegarsi cosa avesse trovato di affascinante in lui, forse il fatto che si vedevano poco e lavoravano in città diverse. Da soli potevano pensarsi e parlarsi a distanza. Sia lei che lui hanno un angolo preferito, dove vanno a coccolare i loro pensieri.
Lei, nel centro di Firenze, ama particolarmente la passeggiata da piazza Tasso a Marignolle ed anche per via di San Vito fino a Bellosguardo col ritorno al punto di partenza per un caffè al Conventino con foto ai Villini Liberty di fronte. Chissà se lui c’era mai stato, anche da solo, chissà se si era attardato a immaginarla, chissà se era a conoscenza che ora lei la percorreva con particolare piacere. Anche lui a Venezia ama prendere il vaporetto nelle prime o nelle ultime ore della giornata e fumarsi qualche sigaretta leggiucchiando a Torcello oppure ascoltando il rumore delle vetreria di Murano, oppure facendo foto alle facciate colorate di Burano. Sono rimasti pochi, ma sia a Firenze sia a Venezia ci sono ancora dei telefoni pubblici davanti a qualche tabaccaio residuale, specializzato più che altro in cartoline per turisti e da lì adoravano telefonarsi con la scheda e raccontarsi i rispettivi colori del cuore, quelli della propria città. Tutti e due non sopportano vedere i turisti che cercano sul cellulare le notizie sull’arte, guardando a testa bassa senza quasi mai alzare la testa per una verifica per conto proprio. Tutti e due adorano quei vecchi telefoni, quelle cabine così intime. (Silvana)
Raramente si incontravano in quegli anni di grande lavoro. Ma quando accadeva trovavano una grande serenità in quella casa di periferia ai margini della campagna, il loro nido d’amore, che regalava atmosfere e colori, quasi un miracolo per loro, che da piccoli si erano sempre immaginati, quando fossero cresciuti, di poter cavalcare mucche e correre e nascondersi nel granturco alto. Appena entravano in casa il desiderio di incontrarsi e i momenti di attesa l’uno dell’altro si scioglievano nella quotidianità di gesti semplici dentro quello spazio che si caricava sempre di magia e di desiderio. (Daniele)
E fu una di quelle sere che avevano potuto ritrovarsi che arrivò la bomba. Lei aveva scelto uno come lui proprio perché le dava sicurezza e stabilità e aveva bisogno, lei così irrequieta, sballottata dal lavoro, di vedersi intorno la sua placida serenità. Quella sera sembrava uguale a tante altre e lo sentì aprire la porta con un insolito anticipo. “Prepara i calici dobbiamo festeggiare: si cambia vita! sono sicuro che sarà una scoperta per tutti e due, ne vedremo delle belle!” Le sue parole la incuriosivano ma allo stesso tempo lei era allarmata: quando esordiva con tanto impeto con quel sorriso stampato e quegli occhi curiosi di un bambino: “ i calici li prendo sì ma prima voglio sapere il motivo di questo brindisi e così inaspettato se mi è concesso!” “eh certo certo non sto nella pelle allora andiamo con ordine sono sotto shock anch’io sai, a dire il vero, ma voglio raccontare tutto con calma. Stamattina mi hanno confermato che partiremo per una spedizione in Africa per consegnare medicinali alla Missione di Angal e tu verrai con me”. (Carmela)
A lei caddero i calici di mano e quella notte nessuno dormì. Lui per l’eccitazione, lei per la contrarietà. Il pensiero di quel cambiamento non la fece dormire, le dette una sorta di angoscia sorda che non l’abbandonò neppure a notte finita.
La mattina lei camminò a lungo assorta, quasi in trance, attraversò sulle strisce pedonali, ma non arrivò mai dall’altra parte della strada. Per molto tempo non ricordò perché decise di attraversare, chiudeva gli occhi e scoppiava il mondo intorno, poi le dissero che fu una grossa moto, una che rombava come un tuono che la travolse e poi le passò sopra. Per molto tempo dormì poi visse un periodo sospeso tra sonno e veglia, non era mai troppo sveglia e non si riposava quando dormiva, era confusa mescolava, a fatti vecchi, ricordi e pezzi di metallo che le volavano dappertutto intorno. Non ebbe grandi dolori, viaggiò nei colori, conobbe un mondo che le fu difficile abbandonare; quando le dicevano che sarebbe finito, che sarebbe tornata alla normalita ebbe tanta paura: la normalità non le piaceva neanche prima, ora poi era una parola vuota, non aveva nessun significato, era sicura che non avrebbe dimenticato la paura, la solitudine del letto d’ospedale e il dolore e il terrore del futuro, non avrebbe più camminato, le dicevano che con le cure, la volontà, la terapia sarebbe migliorata…. non dicevano mai del dolore, dell’ansia, del bisogno che avrebbe avuto di qualcuno che la sorreggesse…Passarono i mesi, venne il momento di tornare a casa davvero: doveva arrivare prima o poi l’ora di guardare in faccia la vita perché comunque era vita, con l’invalidità, la seggiolina per salire le scale, il bisogno di qualcuno per infilare calzini e via e via, comunque vita, un’altra dimensione, una vita diversa ma per una stessa persona era sempre la solita, sempre le fantasie, la meraviglia delle piccole cose, viaggi di carta nei libri che per fortuna non finivano mai, non poteva più stare da sola, non ci voleva né credere né pensare, non c’era nessuno con cui volesse dividersi, era già così a pezzi che un’altra divisione non se la poteva permettere e le venne da ridere da sola senza motivo come prima …. più di prima. Fu allora che decise di cancellare dal suo vocabolario le parole prima – dopo – e sfortuna e li sostituì con la parola VITA. (Stefania)
Fu infatti una nuova vita.
Diversa ma non meno intensa. Lei imparò subito a viverla. Attrezzature e tecnologia la aiutarono perfettamente. Anche lui fu trascinato dalla sicurezza di lei, dall’amore immenso per la vita che lei dimostrava ogni giorno.
Continuarono a vedersi nella casa ai margini della campagna. Lunghe passeggiate, tramonti, cene a lume di candela. L’amore trovò nuove strade anche fisiche.
Era lui che col tempo cominciò a cambiare. Si sentiva inadatto, incapace, cominciò a tremare spesso senza motivo, senza spiegazione. Invece di affrontare il problema lo nascose a tutti, anche a se stesso.
Successe di notte, una notte apparentemente normale: il pigiamone di pile, il berretto in capo, la tisana sul comodino, una notte di “finalmente solo” senza pigiama di seta, niente profumo intenso, candele accese, torso nudo, una notte “di partita e patatine e birretta ghiacciata”, di cazzate tra amici, poi l’uscio chiuso finalmente, uno sciacquamento di denti, piumone e via e forza viola comunque sempre. Qualche fitta forte ai testicoli coinvolse tutto l’ambaradan, il tutto lo indusse a pensare ai soliti boxer sintetici, tolse l’intimo senza risolvere, i dolori proseguirono a mo’ di parto inoltrato: 5 minuti tra uno e l’altro, si alzò davanti allo specchio guardò ciò che più gli serviva sfumare in un’alternarsi di nuances violacee, gonfiando gonfiando ed assumendo l’aspetto di un anomalo melone marcio, le gambe ed il cervello diventarono pappa in un flash. Arrivare al telefono per chiamare il 118 fu un inferno, “Medico a bordo!!” gridò e svenne…. si risvegliò nel gelo di una sala operatoria privo di forze e non solo, la suora gli teneva la mano sinistra, con la destra snocciolava il Rosario, i medici dondolavano il capo cercando un sorriso tra i fogli della tesi ormai quasi dimenticata, sentì poche parole: se ne farà una ragione, vivrà anche senza, il signore lo aiuterà…. Svenne nella totale incertezza di cosa sarebbe davvero accaduto..(Rossella G.)
Tornato a casa dall’ospedale i giorni furono difficili: la loro relazione divenne affannosa, fatta di accudimento reciproco, di dedizione e sacrificio. Lui divenne cupo e silenzioso. Anche se i medici avevano assicurato che era stato un episodio legato allo stress degli ultimi mesi.
Una contraddizione nuova, angosciosa, insinuante e maligna sembrava morderlo in tutti i momenti e anche nella notte, in fondo la domanda a cui portava questa contraddizione che lo stava tagliando letteralmente in due era semplice: amava questa donna oppure la odiava? luce e buio, piacere e dolore sembravano convivere, ma bisognava trovare qualcosa, oggettivizzare queste spinte, chiarire in che modo lei guardata da lui le esprimeva. Ma qual era la radice dove si era bloccata la lunga notte? vagliò episodi, avvenimenti,sorprese, tutto il vissuto, se lo studiò con metodo, con ossessione, passò al setaccio tutte le immagini reali e mentali, ma c’era luce e buio in ugual misura. Finalmente, nel mezzo di una notte insonne resa ancora più insopportabile dal senso di colpa legata al dubbio su se stesso che si inoltrava senza volerlo come un serpentello, tutto fu chiaro, la scoperta lo sconvolse: era geloso, geloso dei successi di lei, della soave indifferenza che aveva verso i riconoscimenti che le erano dovuti e la sicurezza con cui gestiva il loro rapporto. E lei ma davvero si vedeva così? sarebbe bastata una carezza per restituirgli il sole, ma da lei non veniva o era lui che non lo vedeva? (Luca)
Lei invece se ne rese conto una mattina. Al suo risveglio tutto le fu più chiaro. La sera prima si erano visti e non era stato come avrebbe voluto. Era tornata a casa con un peso sul cuore, ma senza la lucidità necessaria per fare i conti con ciò che le si era presentato davanti e forse c’era sempre stato, senza che riuscisse a vederlo. Gli occhi di lui freddi, i gesti bruschi, un atteggiamento scostante e lontano mille miglia. Non era lei il centro del suo mondo. Si chiese per quanto tempo era riuscito a mascherarsi dietro la facciata bonaria di uomo generoso e brillante . Era gretto e meschino, avaro anche nei sentimenti. Ora non aveva più neanche un dubbio. Che stupida era stata a perdersi in quegli occhi azzurri fatti di mare e in quelle carezze che aveva preso per sincere, mentre erano vestite di finzione. (Nadia)
Prima di arrendersi volle tentare il tutto per tutto in un colloquio chiarificatore. Lo affrontò: Vedi caro, io posso anche capire la tua delusione nei miei confronti. Però la vita è fatta di tante sfaccettature, non sempre tutto torna. Io avrei voluto che tu fossi stato più fermo nelle tue posizioni, che le tue aspirazioni fossero state esposte chiaramente. Io molte cose non le avevo capite di te, però, sono pronta a ricominciare. Parliamo di più. Confidiamoci. Che tutto finisca tra noi per me è un gran dolore. Ti ricordi quando eravamo giovani, ci sdraiavamo sul prato e guardavamo le nuvole e ci divertivamo a vedere delle figure. Un profilo di uomo, un animale. Figure fantastiche. Ci divertivamo ad interpretarle e da lì nascevano storie che avevano tutte un lieto fine. Facciamo ore la stessa cosa. Attraverso i sentimenti di oggi e la nostra esperienza, guardiamoci dentro con lo stesso spirito di allora. Interpretiamo le nostre angosce, approfondiamo le nostre incomprensioni e cerchiamo di ricostruire la nostra vita insieme. (Rita)
Ma lui non riusciva a rispondere. Un nodo alla gola lo soffocava.
Parlò invece con se stesso: ho cercato guardandomi dentro che cosa possa aver determinato le incomprensioni sorte da parte mia mi è sempre sembrato di essere conciliante e comprensivo ma forse questo non è bastato: non avevo gli stessi suoi gusti, non condividevo come vestirmi, come intervenire nelle conversazioni, credevo che questo riguardasse la libertà di ognuno, ma mi sbagliavo, credendo che le diversità in fondo fossero ricchezza. E così oggi mi ritrovo a cercare ancora come fare perché un rapporto sereno e costruttivo possa finalmente rinascere fra noi, dovrò senz’altro parlare meno e ascoltare di più, conoscerla più nel profondo, non dare per scontato cose che lei ritiene importanti anche se per me sono irrilevanti. (Anna)
Ma di tutto questo non riuscì a dire nulla: l’aria nella stanza si era fatta pesante, lei si avviò per aprire la finestra, ma fuori pioveva a dirotto e cambiò idea, si avviò verso la porta con l’idea di fare un giro nel corridoio, ma era come se qualcosa le suggerisse di non lasciare la stanza: sembrava quasi che una sua minima assenza potesse cambiare l’evolversi delle cose. Lui la osservava e intanto, con gesti lenti e misurati, aveva tirato fuori la pipa dal taschino della giacca: un forte profumo di tabacco dall’aroma sensuale forse sarebbe servito…. chissà. La vita si era protratta senza vinti né vincitori ma con tanti tanti feriti. Entrambi erano riusciti a tirar fuori il peggio di se stessi, le distanze erano diventate abissali e adesso c’era il silenzio ,un manto pesantissimo, tangibile eppure lei era ancora bella eppure lui era ancora interessante… Alla fine lei si decise: aprì la finestra, una folata di vento la investì insieme a una miriade di goccioline di pioggia, forse una purificazione. Lui continuava a fumare e la osservava e intanto pensava come far valere se stesso, frugando fra incomprensioni e torti subiti. Alla fine fu lei a rompere il silenzio e lo fece in un modo così violento che lui sobbalzò nella poltrona. Gli urlò la sua paura di rimanere sola, la frustrazione di tutti quegli anni dedicati a un compagno che non era mai stato davvero un compagno e pianse, ruppe qualche suppellettile e si rifugiò nel suo angolino. Lui la guardò con attenzione, ma non vi trovò niente di conosciuto, non urlò che anche lui aveva cercato una compagna che non c’era mai stata. Con calma infilò la porta, tirandosi dietro l’aroma di un tabacco troppo sensuale per il loro presente. (M.Laura)
Buon Compleanno a Rossella, Maria Laura e Daniele!!
Fiori, piantine, dolci, prosecco e sorrisi alla Carrozza 10 del Teatro Comunale di Atella, in vista della serata finale……… Sarà un arrivederci a presto!
Dalla fine dell’inverno e per tutta la primavera, nello spicchio in angolo della mia terrazza, c’è il sole la mattina. Mi piace uscire nell’aria fresca ancora in camicia da notte. Calda di letto, assonnata, dolcemente mi sveglio, nel fresco e nella luce, e mi riscuoto dai pensieri e dai sogni, che quando restano tra le ciglia sono brutti sogni.
Mi piace quando un po’ di vento trema tra le frasche del cipresso che tocca la mia terrazza. Profuma, scuotendosi. E ascolto. Tortore, merli, piccioni, mi chioccolano intorno. In questo periodo di tarda primavera sono molto indaffarati. Volano con bastoncini nel becco, e li guardo affascinata mentre li intrecciano nel folto del cipresso qui sotto. L’altro giorno, con grande emozione, ho visto due tortore innamorate. Camminavano zampettando sul filo della luce, uno in una direzione, uno nell’altra. Ad un certo punto uno ha invertito il senso di marcia, e quando sono stati l’uno di fronte all’altro, hanno preso a baciarsi col becco. Mi sembrava un po’ di essere un guardone inopportuno, ma con la consapevolezza di assistere ad uno spettacolo emozionante. Tenerissimo amore con le ali. Gli uomini mi sono sembrati sciocchi e presuntuosi a dare tanta importanza alle situazioni, ai discorsi. Poi però la fine, naturale e che certo si poteva immaginare, non me l’aspettavo. Come succede tante volte anche tra gli uomini, lui, evidentemente lui, le è salito sulla coda, ha vibrato un secondo, e se ne è andato.
Ed io ho ricominciato a leggere. Perché in terrazza vado a leggere, in pace. E questa settimana ho ripreso il ritmo antico. E mi sono letta tre libri, come un tempo. Il fiume era in secca, per fare tornare l’acqua. Chissà colombi, merli, tortore, cosa pensano di me che consumo le mie ore immobile al sole, e faccio un piccolo movimento per girare le pagine, ed un altro per tirare su gli occhiali che scivolano sul naso. Devo sembrare una specie di statua, di certo di una noia mortale e nessun interesse.
Mi piace attaccare discorso e scherzare con persone sconosciute, per tante e tante ragioni che ci vorrebbe un romanzo (o uno psicanalista … o meglio ancora il romanzo di uno psichiatra sul tipo di Le emozioni ferite di Eugenio Borgna, Feltrinelli 2009, che sto leggiucchiando prima di dormire) …
Forse la ragione principale è che ancora non siamo tutti chiusi, vinti dal reciproco cupo SOSPETTO. Mi ha molto impressionato, in questi continui resoconti delle schifezze della guerra in corso, sentire parlare da radio e TV di ‘guerra di SPIE’ … Ogni passante può essere Alleato del Nemico per stanare le nostre difese… Va fatto parlare con qualsiasi tortura, niente di nostro deve essere rivelato … E nelle città questa guerra di spie potrebbe durare anni e anni anche parecchi anni dopo un raggiunto compromesso…
Un’altra ragione felice è che il mio è un quartiere vivibile (BellAriva), in una città (la nostra Firenze) ancora percorribile con profitto e diletto e non solo per i celebratissimi Monumenti (che comunque erano e restano BELLI).
Oppure mi GRATIFICA credere di rendermi simpatica, raccattare un complimento o una confidenza. E anche mi AFFASCINA che ogni incontro casuale riveli più o meno nascosta una STORIA.
Lo racconto sempre a tutti, amici parenti e conoscenti (anche casuali) e le INTERPRETAZIONI che raccolgo (e porto a casa !!!) sono le più varie. Mi piace analizzare queste interpretazioni e vedere che, proprio perché sullo stesso fatto sono le più DISPARATE (alcune affatto benevole), rispecchiano i problemi dell’Altro e delle nostre dinamiche.
A proposito: mi interessa anche l’Etimologia o meglio (conosco poco il latino e per niente il greco) le ASSONANZE delle parole (ad esempio sto leggiucchiando anche Etimologiario di Maria Sebregondi, Quodlibet Compagnia Extra 2015). E così ‘disparate’ richiama ‘disperate’ o anche ‘si spera di dire ancora’…
Insomma, avrete già capito che mi piace parlare, mi piace ascoltare ed essere ascoltata. Mi piace conoscere gli ALTRI quanto farmi conoscere IO. Sui ‘social’ mi piacerebbe che nessuno avesse segreti… Ricordo con nostalgia (fra le tante frasi gentili della Mamma) : “Silvana, sei un libro aperto!” …
In una parola sola? Mi piace COMUNICARE !!!! Forse, ancora meglio, proprio mi piacerebbe … SCRIVERE !!! E scrivere BENE sarebbe più meglio ancora (anche se ‘più meglio’ non si deve né scrivere né dire)!!!!
Però scrivere non è soltanto capacità di aprirsi e cercare di capire cosa stiamo dicendo di noi e capiamo dell’Altro spontaneamente… è anche un LAVORO che richiede tempo, applicAzione, Silenzio, apProfondimento e forse (anche se lo accetto meno volentieri) studio di tecniche e molta lettura dei cosiddetti Maestri …
Allora non so (classe 1943) se ancora mi resta il tempo per arrivare a scriVere qualcosa di BUONO che lasci ai ‘Miei’ una Testimonianza utile della mia esperienza, così da dare un SENSO alla VITA. Nel senso di cercare di non essere SOLI e darsi anche solo la possibilità di confronto e conforto, perché nulla può spiegare le cose se non l’averle vissute … Perché “Tutto è già stato scritto”, e “la Vita continua”, sempre Nuova e Particolare per Tutti …
Alla vigilia degli ottant’anni… ho tanti anni e mi sto convincendo che non devo temere le parole troppo semplici e abusate, né avere paura della retorica e del RISAPUTO. Mi divertono sempre di più i proverbi. Tutto il Mondo è Paese. Si citava che Tutto è già stato scritto, ma anche tutto ci è nuovo davanti.
Ora, in questo cerchio di persone (tutte desiderose di esprimersi ed è per questo che sono qui accanto a un vagone così evocativo) quanto posso imparare! E come mi piace leggere a Voi ad alta voce gli appunti che ho scritto di getto (magari per rifletterci-scriverci poi) …
Sono riflessioni al volo perché ‘sento’ che con il tipo di persone che formano questo cerchio ho da condividere anche più di quanto potranno permettere nella realtà i 2 soli INCONTRI ULTERIORI che restano…
Noterò poi che più d’una delle persone invitate a scrivere “ciò che piace loro fare” hanno invece parlato di “cosa riesce loro fare” … Chi sente profumi, chi sferruzza, chi fotografa, chi si trucca, chi taglia e cuce, chi cucina, chi parla alle piante… Anche ad alcune attività tradizionali della donna viene data una singolare autonomia di svolgimento…
Forse piace fare quello che dà sicurezza, Autostima, RealizzAzione… Sono queste le nostre Ritualità ? Questi i nostri BISOGNI (i nostri Doppi Sogni ??? e anche questa è una citAzione…), da svolgere con un preciso Nostro Cerimoniale, intimo quanto interiore. Ognuna delle cose che saranno lette è una storia particolare magari per me impensabile o insensata ma ognuna con qualcosa che si riallaccia a qualche sensazione mia, dandomi la sensazione finale di uscire da questo incontro A L L A R G A T A ….
Qualcuna di Voi ha parlato di parole che possono “riempire il fiume che si seccava” … PAROLE BENE DETTE !!!! Grazie a tutte, a tutti
Le nuvole di vapore saturano l’aria di un caldo avvolgente nel quale mi muovo ripetendo gesti che fanno stare bene. Le dita ricolme di crema seguono con movimenti lenti la muscolatura del viso mentre la pelle si scalda sotto i polpastrelli e diffonde un profumo penetrante. La mano si ferma sui punti dolenti che massaggia più a lungo e sui quali fa pressione per attivare la circolazione. Così a poco a poco si sciolgono nodi e tensioni, dapprima sul volto e poi in tutte le parti del corpo.
A questo punto mi immergo in quel tepore che sa di liquido amniotico e rimango a lungo in un calore che ferma il tempo e attutisce i dolori. Intorno a me i personaggi disegnati dalle venature degli infissi della finestra: sono lì da anni ormai e li ritrovo ogni volta con stupore, quasi come se li vedessi per la prima volta.
Quando avevo nove anni, a Varese, il locale dedicato ai servizi igienici era enorme: diviso in più settori, aveva un unico soffitto.
Lo spazio riservato al bagno aveva una vasca di grandi dimensioni e, meraviglia delle meraviglie, un cilindro di rame che luccicava nello scuro di quell’ambiente senza finestre: lo scalda acqua.
Il giorno dedicato alla pulizia di tutta la famiglia era la domenica.
Ci voleva parecchio tempo e molta legna per riscaldare l’ambiente e per produrre acqua calda a sufficienza per noi quattro, ma quel marchingegno infuocato con mille serpentine al suo interno, era uno spettacolo. Fiammeggiava rispecchiandosi nel rosso del metallo e sputava acqua bollente destando tutta la mia meraviglia.
Il primo a lavarsi era mio padre.
Per chi veniva dopo rimaneva nella vasca l’acqua che lui aveva utilizzato.
Io ero la seconda.
Forse quella schiumiccia che galleggiava dove venivo immersa mi faceva un po’ ribrezzo ma poi, dopo essere stata insaponata e sciacquata con acqua pulita dalla mamma, venivo avvolta in teli di spugna caldi dal mio papà e portata via in braccio lungo un corridoio che non finiva mai, in cucina, vicino alla stufa di terracotta ad asciugarmi.
Mi piace fare cose con le mani di tutti i generi, con il legno, le stoffe, i colori, mi attraggono gli oggetti che si possono inventare e usare nella vita, non tutti questi interessi però persistono nel tempo.
Riflettendo capisco che erano le cose che osservavo fare da bambina in casa dai miei genitori, capaci di realizzare manufatti e oggetti di ogni genere.
Si trattava per quei tempi anche di un aiuto alla numerosa famiglia.
La mamma , sarta, diceva che stare alla macchina da cucire era un gran piacere, e cosi per noi: pantaloni, vestiti, grembiuli da lavoro e tante riparazioni anche per i clienti si facevano con facilita.’
Il babbo sapeva curare l ‘orto e costruire con il legno, fare il muratore, rinnovare i materassi dei letti e perfino mettere le suole alle scarpe.
Insieme non si scoraggiavano mai, e spesso lavorando discutevano.
La mamma non faceva in tempo a accomodarsi sulla sedia a sdraio per riposare che veniva interrotta dal cesto di verdura che arrivava dall’orto. Aver visto in casa tutto questo daffare mi ha condizionato, così le mie mani sono sempre in movimento, per necessità e per piacere.
Ma una cosa che continua a entusiasmarmi e appassionarmi tanto e che ho sempre fatto e sento come una attrazione irresistibile è quella di fare composizioni di fiori: raccogliere, sistemare, ricercare il verde da accostare per creare insiemi cromatici e profumati .
Oggi sono rientrata in casa con un bel ciuffo di caprifoglio, passando vicino alla siepe, ho visto un rametto che dondolava al vento, il profumo si sentiva intenso e dolce, i fiori a grappolo che vanno dal bianco al giallo si arricciavano agli steli ricoperti di verdi foglioline.
La forma del fiore incanta a guardarla, chiusa appare come un grappolo rosa quando e in piena fioritura ha tromboncini disposti in cerchio con lunghi pistilli gialli sparati dall’Interno, tanto bella quanto pericolosa perché, velenosa.
C’è sempre un vaso in casa ad accogliere fiori, rami e potature.
Se vado a trovare un amico, penso a lui mentre mi aggiro per il giardino alla ricerca di soggetti: rotonda, allungata, sparpagliata, esce sempre una composizione da regalare. Segue poi la ricerca della carta, del nastro o i nastri di colore intonato e confezionato con fiocchi e riccioli. E’ tanta la passione che non mi lascio sfuggire neppure allestimenti per feste, anniversari, appuntamenti di famiglia.
I mazzetti per le giovani spose amiche, sono la mia sfida più grande.
Riesco sempre a incasinarmi e alle cerimonie corro in anticipo a sistemare e controllare il risultato, arrivando all’evento accaldata e spettinata.
Nelle occasioni più importanti, mi ritrovo la casa invasa da secchi e contenitori per i fiori, una volta il frigorifero era pieno di rose che aspettavano di essere sistemate e data la temperatura alta, dovevano rallentare la fioritura al fresco.
Una grande soddisfazione mi è arrivata dalla direttrice del palazzo dove mio figlio ha celebrato il matrimonio.
Mi ha chiesto se ero disponibile a fare gli allestimenti di fiori per gli eventi perché aveva apprezzato il mio lavoro, io soddisfatta ma sicura di voler essere libera di scegliere di giocare a modo mio con i fiori.
Quasi ogni giorno mi preparo una gustosa insalata.
Prima ancora di aprire il frigorifero per cercare gli ingredienti necessari ne immagino i colori, ne pregusto la croccantezza e il fresco che mi lascerà in bocca, ne percepisco il profumo nella testa anziché nelle narici.
Prendo il contenitore giallo che custodisce le foglie già lavate e lo apro. Se dentro c’è della lattuga ne apprezzo le sfumature di colore, dal bianco latte al verde chiaro passando per il giallo canarino.
Prendo qualche foglia con le dita, una per volta, e le spezzo con un gesto delicato e deciso insieme.
Non uso mai il coltello per tagliare le foglie dell’insalata, mi sembrerebbe di ferirne e offenderne la carne. Le poggio via via in una scodella, mai in un piatto, perché la sua forma quasi a ciotola è più accogliente di quella di un piatto senza bordi, è quasi protettiva.
Una volta sistemata una discreta quantità di foglie, proseguo con gli altri ingredienti: pulisco appena la superficie talvolta liscia, spesso bitorzoluta, di una carota, ne taglio le estremità e dopo averne valutato al tatto la consistenza, non sempre così croccante, la poggio sul tagliere e con un coltellino dal manico di plastica rossa ben affilato la taglio a fette in diagonale.
Le losanghe sottili e quasi trasparenti che ottengo volano tutte insieme sul verde giallo bianco della lattuga, rendendola subito più vivace. Poi è la volta dei pomodorini, che taglio a metà per il lungo prima di disporli intorno al bordo della scodella. Infine passo ai capperi, quelli grossi, che ruzzolano sulla montagnola centrale divertendosi un sacco. Se mi va affetto sul tagliere sottili anelli di cipolla di Tropea bianco rosata e subito qualche lacrima scende sul viso.
D’estate non posso fare a meno di aggiungere del melone maturo. Prendo una fetta bella succosa e la faccio a cubetti squadrati e precisi. Condisco con aceto balsamico e olio d’oliva fragrante e profumato, fatto con olive colte da noi; subito la mente si apre ai ricordi di giornate di sole, lavoro, fatica, acquazzoni improvvisi e mani imbrattate. Infine, scaldo due fette di pane e appena i bordi si fanno dorati le poggio nel cestino, sulla tavola ben apparecchiata.
Niente sale, semmai erba cipollina, foglie di basilico e menta che colgo sul balcone. Nella mia bocca, il sale forza il sapore delle verdure, che mi piace assaporare così, per quello che sono, in un momento di reciproca sincerità.
Finalmente posso sedermi e gustare la mia preziosa insalata. Ringrazio il Cielo e la Natura prima di prendere la forchetta e, cominciando dall’esterno, raccogliere un po’ per volta quelle delizie, che mi riempiono non solo la bocca e lo stomaco, ma anche lo spirito, colmandolo di serenità.
Vorrei, vorrei…….vorrei saper fare tante cose e nella mia mente nascono mille idee che non riesco a concretizzare. Provo con l’uncinetto, il punto croce, la maglia…poi disegno …no, scarabocchio, proviamo a colorare, macché imbratto. Allora mi scoraggio e lascio tutto lì in attesa di tempi migliori.
La cosa che mi realizza di più e che faccio con tanto piacere è stare fuori all’aria aperta, nel mio fazzoletto di giardino dai cento vasi. Orchidee, gerani, ciclamini, mammole dal delicato profumo, mi sono amiche, non chiedono niente solo un minimo di attenzione e di cure. Parlo con loro, ne accarezzo i petali, tolgo delicatamente tutto quello che può esser loro nocivo, ne condivido i ricordi.
So chi me le ha donate e quali sono quelle che ho fatto nascere io. Passo così qualche ora della mattina quando l’aria e ancora fresca e puoi sentirne i profumi. In tal modo mi sento soddisfatta in pace con me ed il creato senza chiedere nulla di più.
E’ una buona base per vivere il resto della giornata in modo positivo e ricordare che tutto ciò che ci circonda è vivo, dal filo d’erba al fiore più prezioso, dalla formica indaffarata al cane del vicino che abbaia furiosamente alla vista della mia tartaruga che se ne va lentamente per i fatti suoi. In queste piccole cose mi perdo e mi sento contenta.
Lui si scalda, mi scalda, mi consola, lo preparo per altri, altri che forse appariranno, busseranno, entreranno direttamente in cucina, altri che non ci sono piú e sono lì seduti con me….
Ė l’ora di oggi, l’ora di sempre, lui bolle, spesso esplode, schizza fuochi d’artificio color caramello, io sorrido perché lo amo, San Giovanni sempre, se non sempre, spesso!
È una tradizione di famiglia, un Gallori D O P una certezza, un antidolorifico per cazzate, dispiaceri piccoli, per ricordi belli, un asciugalacrime.
Ho guardato l’acqua con amore, cercato la polvere più nera, acceso il silenzio della mattina, il mio scacciasogni brutti! Il mio ci sono e ce la faccio, bene o male….
Poi arriva, è pronto, c’è la macchinetta di ieri fredda, quella di oggi caldissima, quella di domani, che una volta era rossa, apro le braccia di vetro e legno, le rose mi guardano in un buongiorno stropicciati, vedo facce lontane già cotte dalla fatica, quasi grido:
Un caffè????
Dice a me, a noi???
Si ve lo porto!
Ed esco con un pigiama che non lo è, con il sogno che qualcuno mi sorrida, mi guardi negli occhi e dica grazie.
Io Dimitri, dice lui
Io no, dico confusa, io Rossella, aggiungo.
Io Lenno, tu Rosella…e la mia esse si perde, tra labbra straniere.
Saluto, mentre incontro lo sguardo del mio vicino, che era un bimbo bellissimo, 50 anni fa ed è un uomo niente male: vieni da me per un caffè?
Annuisco, nascondendo tazzine colorate, tra le foglie d’alloro!
Lo raggiungo e giù caffè, amori, divorzi, vecchi troppo vecchi, figli giovani a vita, mogli scadute, mariti beh mariti, spezzatini bruciati, idee politiche…e quel profumo di caffè che ci unisce e ci lega se pure per pochi minuti, tra un suo ieri più recente tra lego e bici, ed uno mio così lontano che quasi non ricordo.
Caffè una magia per tutti, una cosa semplice, che quando non c’era era un’ altra epoca ed ora che c’ è, è oggi, ed io ci sono!
Un caffè?
A che ora vieni?
Zucchero?
Salgo?
Scendi?
Caffè sempre, nel silenzio di ricordi agitati, nel rumore di pensieri inchiodati con lucidi chicchi profumati di terre lontane…..
L’ho chiesto anche a Marco, ma io cosa so far bene?
Tutto quello che decidi di fare, mi ha risposto, e per il tempo che vuoi continuare a farlo.
È vero, però questo non mi serve per il momento.
Pensa e ripensa mi sono ricordata che alle medie nelle ore di matematica ero molto soddisfatta delle mie performance.
Quindi mi sono immaginata di essere ancora seduta a quel banco e di fronte a me c’era…
….2x+(3.6y)+4x=100-5x….
mi sono messa a risolvere quell’enigma, ma non ci sono riuscita perchè non mi ricordo più come si fa, però mi ricordo bene che iniziavo a risolvere prima le parentesi tonde, poi quelle quadre poi le graffe. Con metodo, non arruffando, seguendo l’ordine, ed arrivavo alla soluzione. Sempre!
Era una gran botta di soddisfazione pura, l’orgoglio che si beava della propria superiorità.
Ero brava! Arrivavo sempre alla soluzione, ed era perchè seguivo con tecnica le varie procedure, non mi facevo sopraffare dalla voglia di finire subito ma ponderavo bene i vari passaggi con ordine e con calma.
La soddisfazione del risultato era una esaltazione inebriante, oggi la chiamerei una canna di seratonina, una sniffata di adrenalina, una ubriacatura di consapevolezza.
La mia ultima passione: la fotografia Fotografare per me vuol dire stare in compagnia, in compagnia con una parte di me attenta, quella parte di me che osserva e che va oltre il primo sguardo È quella parte di me che mi aiuta a fermare ogni attimo di bellezza e ogni luogo nuovo È quella parte di me dalla buona memoria, compagna fidata che non mi fa dimenticare Desidero non perdere neppure un attimo di un’emozione bella o lo stupore per una bellezza inaspettata, desidero non perdere il sorriso di una persona cara in un giorno speciale o semplicemente un sorriso La macchina fotografica o anche soltanto il mio telefono sono il mio secondo paio di occhi, mi sento esattamente come se avessi quattro occhi Questa sensazione mi dona un piacere infinito insieme a una sorta di calma e gioia che forse è di difficile comprensione Con la macchina fotografica non sono mai sola anzi direi che è proprio con lei che mi piace tanto essere sola, un piacere interno di pura serenità Ogni mio viaggio, ogni mia passeggiata iniziano solo quando scatto la mia prima foto: inquadro e scatto e tutto ha inizio Ogni giornata ha inizio con una o più foto Esco in giardino a raccogliere il regalo di ogni giorno, lo cerco in ogni metro quadrato di terra, è come giocare a nascondino con la vita e la vita si fa sempre trovare perché la sua generosità è infinita
Il cubo del 1000: lunghezza, larghezza, profondità– di Gabriella Crisafulli
Un groviglio di tensioni è abbarbicato al volto.
Lo imprigiona in una smorfia senza sorriso.
Sul cuore gravano sentimenti contraddittori in conflitto fra loro.
Vivere il giorno che incomincia è una impresa.
Tutti quei fili che intralciano lo scorrere del tempo erano stati allentati e quasi del tutto attutiti da tanti anni di amore.
Nel gioco dell’oca della vita, senza quell’amore si ritorna alla partenza.
Nella prima casella c’è una giovane donna seduta e una bambina in ginocchio dinanzi a lei che bacia la mano per chiedere perdono.
In quel gesto la bambina colpevole smarrisce la propria dignità, l’autostima, la fiducia in sé, il riconoscimento dovuto dall’altro.
Tanto più che quella giovane donna è adorata da chi la supplica.
Il dolore della mente non è tanto in quel gesto che genera sofferenza, ma nel fatto che quella giovane donna agli occhi di chi la implora è oggettivamente una persona sensibile, affettuosa, gioviale, seduttiva … con gli altri, bambini o adulti che siano: ne è testimone.
Ma non con lei.
Nell’abisso generato da due realtà così dissimili fra loro si smarriscono nel tempo la logica, i sentimenti, il senno.
Anche perché in quella prima casella c’è anche un padre il quale, al rientro dal lavoro, su esortazione della madre che si rammarica del comportamento della figlia supplice, prende in braccio la bambina per picchiarla con vigore senza proferire parola.
E questa è una delle tante situazioni surreali.
Era nata cinque anni prima di quella supplica.
Il padre voleva chiamarla Regina.
Poi scelsero il nome di una principessa.
Nella mente manca il passaggio da principessa a paria: cos’era successo?
Perché era femmina?
Perché si ammalò subito?
Però era brava, assolutamente immedesimata nella parte di adepto convinto e devoto.
Seguace così osservante da guadagnarsi l’appellativo di “Pappagallo”.
Un marchio come nel motto dei Carabinieri: “Per sempre fedele”.
Le parole di madre e padre erano dogmi insindacabili al di là e al di sopra di qualunque ragionamento o patimento.
Una cosa erano le verità genitoriali indiscusse e indiscutibili, una cosa erano i sentimenti che forse provava ma di cui non era consapevole.
Un doppio binario.
Forse triplo, quadruplo, chissà.
Pensieri su percorsi che non si incontrano.
Certo per una mamma narcisista compulsiva deve essere stato faticoso l’arrivo di una figlia che il papà voleva come Regina.
E poi dover stare dietro alle sue continue malefatte costituiva un impiccio: infilava le forcine nella presa della luce, si tagliava il volto con una lametta, si faceva mordere da un cane proprio vicino all’occhio, si buttava giù da costruzioni precarie e muri alti, pedalava su una bicicletta senza freni con i pattini ai piedi finendo giù per le scale, …
Era tutto un andi e rivieni dagli ospedali.
A nulla servivano i bigliettini con scritte di aiuto sparpagliati per il giardino della scuola elementare di Varese.
Ma arriva un amore grande e potente che sa di vita, di gioia, di futuro.
Sul passato scende un velo, si dimentica, si va avanti spensierati.
La perdita di quell’amore fa collassare il mondo: riporta alla prima casella del gioco.
Approdare ad Antella dalle Matite poteva essere un tentativo per liberarsi dalla fatica di un’esistenza in bilico.
Pensa che sia come una scuola, invece è un viaggio.
Le Matite parlano, scrivono, commentano, ridono, polemizzano, mediano.
È un ping pong di idee, affetti, luoghi, persone, cose, fantasie.
È tutto uno svolazzare di visioni, suggestioni, amori, pene, passioni.
Per quella che forse non è mai stata una bambina è un rispecchiamento.
Scopre così che lei a sua madre non bastava.
Scopre che la mamma non ce la faceva a nutrirla e per questo si era ammalata.
Oggi le Matite saziano.
La colata lavica aveva bruciato tutto ma dopo alcuni anni si vede in qua e in là qualche rametto verde.
Oggi sa di non piacere e se ne fa una ragione: non è stata apprezzata per tanti anni malgrado tutti i suoi sforzi, adesso è il caso che si viva com’è.
Anche lei ha camminato nella bellezza della natura in un autunno a Nava lungo il sentiero che si snodava tra i filari di vite: uno scorcio di libertà al di fuori della caserma e del controllo.
Anche lei nel chiuso della sua cameretta, di nascosto a tutti, aveva un cerimoniale.
Adesso “Aveva la bellezza di cui solo i vinti sono capaci.
E la limpidezza delle cose deboli.
E la solitudine, perfetta, di ciò che si era perduto”