Viaggio nella Luce: Anna

UN BREVE VIAGGIO – di Anna Meli

            Era un settembre inoltrato di tanti anni fa. Mio figlio era rientrato da poco da Serravalle in Casentino dove durante il suo servizio civile aveva accompagnato i “ ragazzi” dell’ANFASS in vacanza. Aveva portato con sé la mountaibike per i momenti liberi e pedalando era venuto a conoscenza di molti luoghi particolari.

            Al suo ritorno, raccontandomi con entusiasmo la sua esperienza, mi aveva invitato ad accompagnarlo a riprendere la bici che per ovvi motivi aveva lasciato al paese. Acconsentii volentieri e di lì a pochi giorni in una bella giornata di sole andammo.

            L’autunno dipingeva il paesaggio con i suoi caldi colori e così, senza l’impegno di guidare, mi godevo ogni piccola cosa ascoltando rilassata i suoi racconti legati a questo o a quel paese.         Giunti nei pressi dell’Eremo di Camaldoli, per una strada per lo più sterrata, siamo transitati dal Passo “I Fangacci” e ci siamo fermati su una curva dalla quale al di là della vegetazione e delle fronde degli alberi abbiamo potuto ammirare in lontananza il lago di Ridracoli che raccoglie le acque dell’appennino tosco-romagnolo. In quel momento, il profumo del bosco, lo stormire delle foglie e l’azzurro del lago si sono uniti in un’unica piacevole immagine-senzazione di pace.     Abbiamo proseguito il viaggio e recuperato la bici. Poi dopo aver mangiato un panino all’ombra dei castagni abbiamo preso la via del ritorno. Passando da Pratovecchio e attraversato l’Arno, dopo un breve tragitto, ecco mostrarsi ai nostri occhi la bellissima Pieve di Romena del XII secolo che fortunatamente era aperta consentendoci di visitarla: è stata una cosa bellissima!

            Un grandissimo tappeto di iuta ricopriva il pavimento della navata centrale, nelle due navate laterali separate da colonne scolpite, solo qualche antica panca e alcune sedie impagliate e su i tre scalini di accesso all’altare un’icona in legno raffigurante il volto di Cristo.

            In quel momento, un raggio di sole penetrando dal rosone sopra la porta si è diretto come una freccia su quel volto illuminandolo di un pulviscolo dorato. C’era un silenzio profondo interrotto solo da qualche cinguettio proveniente da fuori e noi lì consapevoli di vivere quasi un momento magico.

            E’ entrato un uomo e ha deposto con umiltà un fiore vicino all’icona. Poi in punta dei piedi è sparito. Siamo usciti di lì a poco turbati ma estremamente calmi e sereni. A distanza di tanti anni ricordo ancora la sensazione di energia positiva donatami da quel viaggio e condivisa con mio figlio allora poco più che ventenne e… ogni tanto ritorno a Romena.     

Scarpe e fiabe: Stefania

Scarpe che non portano da nessuna parte – di Stefania Bonanni

Fossi un  inventore, o uno scienziato, o meglio uno scienziato inventore, vorrei produrre gli stivali delle sette leghe, che sarebbero una magica soluzione per i miei pochi, incerti passi.

Però non è mondo da magie, e le scarpe che si trovano funzionano solo se le gambe muovono i piedi. Per cui, se non funziona una gamba, e neanche il piede sua appendice, non funziona neanche la relativa scarpa, ed ho provato per esperita esperienza, che su una gamba sola, e su un piede solo, non si può fare affidamento di stabilità. Tantomeno si può pensare di percorrere chissà che distanze. E poi…..pianissimo….pianissimo….come la lumaca di Pinocchio.

Ho voglia di fiabe.

C’era una volta, e per grazia di Dio c’è ancora, una donna zoppa. Forse le serviva una zeppa, ma quando la chiese fu capita male. Le portarono una zuppa. Lei non aveva fame, e non la mangiò.

Paolino si offese, le disse che era diventata difficile. Tornò con un pacco, sicuro che fosse la cosa che serviva alla sua donna zoppa. Scarto’  una zappa. Lei si mise a ridere. Era sempre zoppa, ma con un sorriso zeppo di denti, amore e voglia di camminare. Lui le portò anche una pezza, una pizza, una pozza, una tazza ed una tinozza. Era contento di farla ridere come una pazza.

Viaggio nella storia vicina: Stefania

Vorrei uscire di casa – di Stefania Bonanni

Vorrei uscire di casa ed incontrare gente che mi conosce da sempre, che mi ha tenuto sulle ginocchia quando ero piccola, che ritrova nei miei occhi altri occhi, che mi chieda se ricordo quel giorno che successe quella disgrazia, o quando si sposò Tizio,  o la processione di quell’anno che quella sera c’era la finale dei Mondiali di  calcio e quando il corteo passò davanti alla Casa del popolo tutti si voltarono , smisero di cantare e tentarono di sentire il risultato, per poi tutti esplodere in un boato. Solo le vedove, tutte vestite di nero, che chiudevano la sfilata, ,continuarono a cantare a bassa voce, come si conveniva educato, una nenia tipo Salve Regina, che nell’occasione faceva molto ridere. La mia nonna, che faceva parte di quel gruppo, disse non so quanti rosari per la nostra anima, per noi che si rideva. Vorrei giornate piene di anziani che raccontano di quando passò la guerra, o ancora l’alluvione, che scalzò dalla lista molti racconti di uomini e disgrazie. Diventò la guerra di noi che non l’avevamo visto, quel nemico, lo spartiacque. Spesso cominciavano così: “Ma come pioveva…Non si erano mai visti così tanti giorni grigi, nei quali non c’erano speranze smettesse, e non si poteva uscire perché le strade sterrate erano fango liquido e le uniche scarpe da mettere erano gli sciantilli’. E quella cappa di grigio che non si apriva mai entrava nei pensieri, nei polmoni, si sapeva sarebbe sparita lasciando il segno.” E poi giù a dire di muri antichi che avevano trattenuto l’ Arno, perché “prima” si costruiva bene. E poi gesta eroiche di salvataggi, non tutte provate, e di pericoli corsi da gente che forse non se n’era accorta…..La leggenda, l’Odissea sull’Arno….parole che pagherei per sentire ancora, personaggi interpreti di una commedia che aveva tutti i ruoli assegnati. E quelli che a veglia raccontavano avevano le seguenti caratteristiche: gomiti poggiati sul tavolino tondo del bar, gambe allungate sotto, in primo piano scarponi che a volte dovevano aver visto la guerra, e magari chissà quale, fiasco di vino impagliato in mezzo al tavolo, livello della bevanda: sotto l’orlo della paglia. Dita indice e medio gialle, sigaretta incollata alle dita ed anche alle labbra, stagnante fumo puzzolente a mezz’aria.. E parole, parole, e non c’erano professori, solo saggi ignoranti che forse sapevano che, stringi stringi, pochi tesori valgono più di una bella storia. I pensieri vanno, ritornano agli occhi  le facce, nelle orecchie  i passi, le voci, i dialetti, i modi di dire, soprannomi tramandati dai nonni, dai padri, che hanno perso il senso. E questo misura il tempo. Ne è passato talmente tanto che di quel paese non resta che il campanile ed il ricordo dolce e romantico di personaggi forse migliorati dal ricordo. E un lampo, e capisco. L’effetto di dolcezza struggente che piano piano ha soppiantato il dolore che provavo in quel cimitero dove conosco le facce delle foto che raccontano le tombe. Amici come fratelli, parenti, vicini di casa, conoscenti, tutti lì. Come aver fatto un viaggio nella macchina del tempo: il paese di cinquant’anni fa adesso è lì. Da un po’ sento carezze e abbracci, come continuare a tirare fila e trovare continuazione nei ricordi e nei racconti. Come avere la sicurezza che finché ci sarà un pensiero, una storia, un racconto, non ci saranno buchi neri , non si rischia di vagare nello spazio sconosciuto

Avrai sempre scarpe per andare: Rossella

Troppi passi sono stanca… – di Rossella Gallori

Avrai sempre scarpe, ci sarà chi le cuce per te

Nabuk colorato lunghi lacci di raso sottile….

Inizio anni 50 quella macchina che io chiamavo “ ippotanino” e non era che una giardinetta grigia, piedini grassi,a puntaspilli, diceva il babbo, a saponetta diceva la mamma…e quei sandalini di cencio bleu bordato di bianco che pulivo con le dita dopo averle ben succhiate….e noi cinque insieme, una famiglia ancora intera, diretti a Napoli…il mio primo viaggio…del quale ricordo: palle di neve da mangiare, che poi eran mozzarelle, la mano forte del babbo….ed i sandalini pieni di sabbia….che felice così non sono stata più…

Poi cominciammo a far coppia fissa, il babbo io, gli stivalini di gomma e la 1100 grigia, lui rappresentante io il portaborse, che tanto non ce la fai diceva la mamma salutandoci…poi era quasi Pisa, quasi Lucca, quasi Arezzo, quasi  Livorno e quando il viaggio era più lungo vicino a Grosseto..perchè i laboratori eran sempre fuori città, qualche volta c’era il tempo, per vedere il mare, le mura, una torre che ciondolava….altre volte manco capivo dove ero, il bello era fermarsi, stendere il plaid fare un gioco, mangiare, un pezzo di schiacciata….e togliere li stivalini, che mi stavan sempre più stretti…crescevo io, loro no.

 Poi venne l’ estate e quell’ ultima vacanza insieme, cominciavo ad essere altina, lui si poteva appoggiare, andammo a Montepiano, un viaggione, una valigia in due i suoi mocassini belli belli, le mie ciabattine di paglia comprate  al Porcellino le Superga bleu con la pallina, ci lasciaron tre settimane li, il babbo riprese un po’ di fiato, io lo persi a chiamar le ciabattine che galleggiavano nel Bacino del Brasimone…e tornai scalza a Castiglion dei Pepoli..che mi sembrava una chicca, alla Storaia Lui mi prese i sandali di cuoio, il commerciante disse : macchè bambin…a…ha il 38…! Ma belli così non li ho avuti mai.

Avrai sempre scarpe per andare, tornare, restare

Zoccoli di legno, imbottiti di morbida pelliccia bleu….

Poi subentrò mia zia arrivarono le vacanze a Viareggio, al principe di Piemonte, e le scarpe come pure i sandali eran  sempre più belle, più costose, non le ho mai sentite mie, sapevano di elemosina, Viareggio ricca ed io nipote povera e mezza orfana, da vestire e calzare come un cavallo, rozza dai finimenti evidenti…Non mi piaceva la Versilia ed ancor meno le scarpe prese del Cresti, prima della partenza.

Poi ci fu quella libertà forzata: il lavoro, le scarpe con i tacchi per andare a ballare…e con la tredicesima le scarpe di ken Scott  da Beta in San Lorenzo pagate in due volte…

Poi Castiglioncello da sola e più le gonne si accorciavano più le zeppe si alzavano….poi non importava se per scappar da qualche casino, dovevi camminare scalza, per poter correre.

Poi Londra, gli stivali sopra il ginocchio, ho visto più locali che Tamigi, più pub che palazzi reali…a briglia sciolta tacco 10..

Poi la quiete un matrimonio con le scarpe verde mela….la Sardegna, i sandali dorati…Cala Luna, Santa Teresa, Villasimius, ciabatte di sughero….ed in giro come zingari per tutta la Gallura.

Al lavoro tacchi bassi, fuori poi ci vai come ti pare, diceva il mio principale. Una soluzione: le espadillas  davano colore, ma i piedi bollivano…

 Poi, poi Champluc, gli scarponi….e lo Stelvio e Bormio..

Per un po’ ho perso il filo: anonime ballerine, le scarpe importanti eran per mia figlia, fiocchi, cuoricini,  amore di piedini…da mangiare..

E poi Salisburgo e poi Pantelleria…poi Stromboli…poi Calabria e poi perché no  l’ Adriatico….in lungo ed in largo e le mie Birkestock  che comode così non le ho mai avute, i piedi deformati da calci sbagliati, da troppe ore in piedi, dal peso mio e quello delle cose…

Ora scarpe comode per non andar quasi da nessuna parte, per non cadere, per andare avanti, scarpe sorellastre, di giorni diversi.

 Poi…poi…arriva un momento che è ieri l’altro ed una amica capobranco, vuol parlare di scarpe, prendo quelle che mi ha regalato un angelo, verdi, sfacciate,  cercandole  ho trovato dei granelli di sabbia ed ho sperato di ritrovar i sandalini di Napoli, di cencio blu bordata di bianco….che felice così non sono stata più…ho sentito una voce:

Avrai sempre sandalini di velluto  pe volare sulla sabbia, per non calpestare l’erba

Ti cuciremo stivalini patchwork per farti sorridere sempre……..

Cammineremo su un tappeto di mughetti color luna…

Ps: un po’ poesia (non tutta× fortuna vostra) un po’ scarpe, un po’ viaggi…molto casino

Sui ghiacciai in Val D’Aosta: Carmela

Con i piedi per terra – di Carmela De Pilla

Eppure non era nei miei programmi, io vissuta nell’acqua cristallina di quel piccolo lembo del Gargano, acqua che ti accarezza quando sei triste, ti accompagna quando sei sola o ti consola quando sei afflitta con i suoi colori, le sue canzoni dolci o urlate, insomma non era proprio nel mio DNA pensare di raggiungere vette inimmaginabili eppure è successo perché a volte la vita va e ti porta dove vuole, senza chiederti il permesso e così mi lasciai trascinare in un’impresa di cui poi ho apprezzato la sua ricchezza inestimabile.

La meta era il ghiacciaio Rutor, 3.500 m. circa, sicuramente la mia incoscienza mi ha spinta a raggiungerlo perché mentre i miei amici erano atletici e nerboruti io, al contrario ero l’unica a non aver mai fatto sport, è vero ero quasi giovane e così con la stessa ingenuità e curiosità di una bambina fui trasportata in quel sogno.

Avevano organizzato, loro, un trekking in Val d’Aosta da rifugio a rifugio per una settimana, l’eccitazione era alle stelle, l’armonia e l’allegria che aleggiava nel gruppo ci faceva star bene e io, ignara della fatica che mi  aspettava, sembravo una bambina che incomincia a fare i primi passi.

Niente macchina, niente negozi, niente lavoro, niente caos, solo una natura benevola che ama senza alcuna condizione e io che avevo un’impellente necessità di bellezza mi lasciai prendere per mano.

Mi avvolgeva l’azzurro intenso del cielo della montagna riflesso nei laghi, i mille verdi diversi di quei prati immensi e della vallate, il bianco spumeggiante delle cascate e quello delle vette innevate che quasi le toccavi, l’ocra o l’ambra delle rocce, tutt’intorno una danza di colori s’intrecciava con le nostre risate.

Sul Gran Paradiso siamo stati accolti dai camosci e stambecchi che girellavano senza alcun timore intorno al rifugio, qui fui rapita dalla vetta regina che spiccava il volo verso il cielo senza alcuna presunzione col solo intento di donarci serenità.

E poi verso il Col Rossè, la magia dei laghi inginocchiati ai suoi piedi, azzurri come il cielo che li sovrastava e la corona dei tanti monti innevati mi tolsero il respiro, nel mezzo spiccava il monte con i suoi colori bruciati, aspro e nemico per la difficoltà che provai nel raggiungere la cima, da una parte la bellezza del luogo dall’altra la paura di non farcela, ma nessuna cosa è bella se non si assapora la fatica della conquista e io ero fiera di avercela fatta.

Cime innevate e nubi s’intrecciavano quasi a far sparire il confine fra loro.

E ancora tanto cammino fra la magnificenza della natura incontaminata, tra il bianco accecante e il verde smagliante delle valli, c’era un’armonia accogliente tra noi e tutto sembrava meno stancante.

E poi quella cascata fragorosa costretta a tuffarsi nel vortice per frantumarsi in mille gocce che bagnavano i nostri volti allegri e spensierati.

E poi l’urlo allarmato della marmotta che faceva da sentinella sul masso per avvertire i suoi simili del pericolo.

E poi finalmente dopo la “sindrome della meta” l’arrivo al rifugio Deffeye dove ci ha accolto un signore d’altri tempi che con tanta generosità ci aveva preparato una calda cena ristoratrice, da quella terrazza naturale si ergeva fra tutte la vetta del ghiacciaio Rutor, come un imperatore sembrava ordinasse ai suoi servi di donarci pace, serenità, bellezza…

E poi la camminata fra i calanchi del ghiacciaio, fra le grotte che assorbivano l’intenso azzurro del cielo diventando azzurre esse stesse, come per incanto nessuno parlava, ognuno ascoltava il proprio silenzio con gli occhi pieni di meraviglia.

E poi il ritorno a La Thuile, punto di partenza, qui ci siamo spogliati e cambiati nascosti dalle macchine di un qualunque parcheggio tra le nostre risate e la sorpresa dei passanti.

Un viaggio durato sette giorni, ma lungo una vita tanto che ancora oggi lo porto dentro di me, ho imparato a superare ostacoli insormontabili, a resistere alle difficoltà senza spezzarmi, ho imparato a credere di più in me stessa ed essere orgogliosa per come sono accettando anche i tanti difetti.

Ho consumato la suola degli scarponi, ma ho scoperto gli angoli oscuri della mia anima.

La vecchia Jugoslavia: Anna

VIAGGIARE – di Anna Meli

                  Non ho viaggiato molto nella mia vita e devo dire che non so se mi sarebbe piaciuto. Sono stata solo una volta all’estero nella vecchia Jugoslavia di tanto tempo fa quando ancora circolavano i dinari e Tito era ancora in auge.

                  Ricordo paesi abbastanza poveri dove gli Italiani non erano ben visti e anzi, accolti con una certa diffidenza. Il bello lo si trovava solo in una natura verde di boschi e di prati dove molto spesso vecchi autobus colorati erano adibiti ad alveari e spostati via via dove si trovavano sole e fiori. Ricordo in particolare la città di Otocac e i suoi tetti abitati da cicogne che sbattevano le ali e gli appuntiti becchi arancioni come per salutarci e soprattutto i laghi di Plitvice.

                  Parlare di questi laghi dopo tanto tempo è quasi impossibile tanto erano vari e belli ricchi di cascate, di piante altissime di specchi d’acqua dove i pesci sembravano giocare e topolini che si rincorrevano poco più in là , fra i rami caduti di qualche pianta e lasciati così a ricoprirsi di muschi ed erba strisciante.

                  Ci fermammo, ricordo, per qualche giorno a Otocac presso una casa privata messaci a disposizione da una signora gentilissima in grado di offrirci colazione, cena oltre a camera con bagno e fu lei a dirci che una volta quei laghi venivano chiamati il Giardino del diavolo tanto erano fitti ed impenetrabili.

                  Fu proprio questo che ci spronò a tornarci per tre giorni consecutivi, mai stanchi di quel Paradiso terrestre! Un’altra curiosità fu che quando ci congedammo, questa signora ci chiese gentilmente di essere pagata in lire che sarebbero servite a far studiare sua figlia a Trieste e questo ci fece capire l’idea di libertà che esisteva in quel paese. La guerra ha distrutto molti di questi luoghi. Chissà se i laghi si saranno salvati da questi stravolgimenti? Voglio sperarlo!

Scarpe solide: Patrizia

Le scarpe e lo scorrere del tempo – di Patrizia Fusi

La scarpa del cuore per me è una calzatura che mi fa sentire libera nel camminare confortevole e calda nella stagione fredda.

Ricordo che quando ero piccola qualche volta camminavo scalza ma non mi piaceva, perché sulla ghiaia sentivo male, nei campi dove era stato tagliato il grano gli spunzoni mi ferivano i piedi e dovevo stare attenta a metterli nei solchi.

Nella mia gioventù non ho avuta molta scelta: un paio per la domenica e un paio per andare a lavoro, le cose cambiarono quando iniziai a lavorare, ricordo che mi comprai un paio di scarpe rosse bordò avevano un po’ di tacco, la suola era tutta di gomma, mi piacevano molto e ci stavo comoda e calda.

Una sera tornando da lavorare pioveva tanto e mi si bagnarono dentro, quando arrivai a casa le asciugai con uno straccio e poi, per averle pronte la mattina successiva, le misi nello scomparto inferiore della stufa a legna per asciugarle.

La mattina quando andai a prenderle la gomma si era ritirata e non mi entravano più nei piedi, dovetti mettermi le scarpe della domenica, un decolté nero con il tacchetto fine, molto scomode e fredde per fare tutta la strada da casa mia all’autobus.

 La domenica quando andavo a ballare, fino al circolo mettevo le scarpe dei giorni feriali e le cambiavo con il decolté alla fine della strada, le lasciavo a casa di una mia amica.

Da quel periodo mi viene di pensare che quando ho le scarpe comode e asciutte e più di un paio mi sembra una ricchezza.

Ricordo il piacere che provavo da piccola ad andare nella cesta sotto il letto dove erano riposte le scarpe della famiglia, prendevo le scarpe di mia mamma con il tacco e ciabattavo per il piccolo appartamento, la mamma mi diceva “Patrizia mettile a posto perché sono quelle di Gesù dopo queste non ce n’è più”.

Quando potevo indossare scarpe alte o zatteroni mi sentivo più carina, mi rendevano più slanciata.

Ho avuto un modo di camminare costante e deciso né troppo lento né troppo veloce, una camminata solida con scarpe comode e invece con il tacco più lenta e più femminile.

A settanta anni il mio modo di camminare è cambiato, è diventato diverso, sono diventata più lenta e incerta nei passi, anche se con alcuni accorgimenti e scarpe adeguate ho un po’ recuperato.


 [P1]

Scarpe lucide d’amore: Lucia

Scarpe lucide – di Lucia Bettoni

foto di Lucia Bettoni

Uomini belli nei loro mantelli
Si librano leggeri come uccelli
Scarpe lucide d’amore
Al galoppo lungo il fiume
Sono gli uomini diversi
Quelli con la luce dentro
Mani piene di coriandoli
Sogni da respirare
Vi aspetto per ballare
Laggiù vicino al mare
Una danza senza suoni
La bellezza di un momento
Da portare sempre dentro.

Disegno e foto di Lucia Bettoni

Tacco o non tacco?: Sandra

Scarpe – di Sandra Conticini

Quando era piccola in casa dicevano: – Le scarpe bisogna comprarle buone perchè per un bambino che deve crescere sono importanti- Cosi ogni anno all’inizio dell’autunno la portavano in uno dei negozi migliori della città e le compravano un paio di scarpe allacciate, con un po’ di gomma per la pioggia e le pantofoline scozzesi per casa. In estate invece sandali con gli occhi di pelle blu. Questo andò avanti per diversi anni, poi iniziò a crescere e quel tipo di scarpe non le voleva più, le  amiche iniziavano ad avere  scarpe da ragazzina e così in casa iniziarono le discussioni. Un giorno il babbo tornò da un viaggio di lavoro e le portò un paio di ciabatte di gomma azzurre, erano le prime che si vedevano, tanta fu la sua contentezza che  le aveva sempre ai piedi. Aveva una vera passione per le scarpe, quando tornava da scuola spesso si metteva quelle con il tacco della mamma, ma lei non voleva  perchè diceva che gliele sciupava,  ma come faceva ad interrompere quel gioco così divertente. Si sentiva grande, sognava di poter avere un giorno un paio di scarpe come quelle per poter correre correre e forse anche volare. Quando la portavano a comprare le scarpe, lei aveva le idee chiare e, se  non le compravano quelle che voleva, trovava il modo di cambiarle. Poi ha iniziato a comprarle da sé e la passione è rimasta. Scarpe basse, alte con il tacco, rosse, bianche, nere, mai marroni, dorate, argentate, bronzo, camoscio, pelle lucida, zoccoli vertiginosi, stivali, sandali, ciabatte insomma di tutto di più. Il tacco le piaceva molto perchè la slanciava si vedeva più snella, però  era scomodo, non si poteva camminare tanto svelti, e poi si poteva rimanere impigliati nei buchetti dei  marciapiedi. Ora che è passato qualche anno e che il tipo di vita è cambiato, anche le scarpe che compra sono cambiate. Ha sempre diverse scarpe, , ma le sue calzature sono sportive,  non  da ginnastica perchè il suo piede non le vuole. Ora cerca la comodità e la protezione per poter camminare in sicurezza. Comunque nella sua scarpiera ci sarà sempre un paio di scarpe e di sandali un po’ più eleganti per le occasioni. 

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…e nel cuore una foresta: Stefania

Il Pratone e la Foresta – di Stefania Bonanni

Pixabay foto

Aspettavo, aspettavo le parole giuste, e nn le ho trovate. È come quando si parla dei figli, e parlarne non restituisce l’amore, la meraviglia, l’incredibile bellezza, l’unicita’ rara, che siamo consapevoli siano solo per la mamma, e le parole non rendono, banalizzano, in fondo i figli sono tutti uguali, muovono le medesime corde tra ifili del cuore. Per questo, non trovo le parole, ed anche perché i motivi profondi del mio grande amore per certi luoghi non li conosco. Potrebbero essere mille, e nessuno nello stesso tempo: un caso, un fulmine, un giorno più sereno, un ricordo che  ho avuto bisogno di costruirmi. Certo, mio nonno era di Pratovecchio, la mia nonna di Pelago, ed io queste radici le sento profondissime, uscire dalle mie mani, dai miei piedi, sprofondare, e riconoscere il terreno. Quando mi stendo in estate sul pratone d Vallombrosa e chiudo gli occhi, riesco ad allentarmi, ad abbandonare nervi e muscoli, tento sempre di sprofondare un po’, di respirare al ritmo delle foglie che ballano sui rami, così in bilico, anche se poi cadono solo quando è il loro momento. Se fosse possibile costruirsi un paesaggio della pace, vorrei una montagna sullo sfondo, che non  finisca a punta, ma si infili tra la terra ed il cielo inchinandosi in un enorme prato, sulla vetta. Lo chiamerei, pe esempio, Pratomagno. Subito sotto, sulle pendici, una meravigliosa foresta di alberi dritti come frecce, come giovani con folti capelli e gambe dinoccolate, tutti protesi a cercare il sole, ma senza salire addosso agli altri, né pestar loro i piedi per avere più spazio. Come un esercito di sentinelle. Un esercito profumato di resina, canterino di uccelli, che al massimo potrebbe tirare una pina, avesse bisogno di difendersi. L’unico esercito che m piace. La chiamerei, per esempio, foresta di Vallombrosa. Anche lì un grande, accogliente prato , tappezzato di verde, più chiaro dove la gente come me passa le giornate distesa, più scuro all’ombra di giganteschi alberi, la sola vista dei quali regala certezza. Loro hanno visto e sentito, c”erano e ci saranno, solidi, stabili, hanno un senso in estate, e  in inverno, l’acqua, il freddo, la neve, portano loro salute e foglie. Fanno a nascondino con il sole: le foglie ed il vento lo spezzettano alla vista e lo restituiscono in mille raggi brillanti, di quelli che fanno strizzare gli occhi alle persone,  che non hanno sensi adatti a tanto abbaglio. Tra la montagna e la Valle Ombrosa farei scendere centinaia di torrentelli con le acque nervose che ridacchiano mentre saltano sassi e tronchi, magari portandosi dietro qualche piccola trota che ridaccha anche lei. Poi, nel mio paesaggio del cuore, disegnerei l’Arno, proprio sotto il pratone, e la mia pescaia preferita. Così, tutto   infilato nello stesso scenario, non dovrei più scegliere.

La mia mamma ogni volta che si parlava di andare da qualche parte, diceva che voleva andare a Vallombrosa. Io sono diventata anche lei, la porto sotto la corteccia. La cerco in ogni posto, e la trovo in quei prati. Lui in pescaia al sole, lei all’ombra. Ed il tronco cresce, le foglie cadranno, passerà l’inverno e torneremo sul pratone.

Comprate apposta per andare lì: Carla

Le scarpe nuove – di Carla Faggi

Siamo entrate dalla porta aperta al primo piano, belle, nuove, comprate apposta per andare lì, ciao ciao ciaociao! abbiamo fatto insieme e affiancate una decina di passi convinte che tutti ci guardassero,e ci siamo appostate sotto il tavolo per quasi due ore. Un po’ allineate, un po’ accavallate , a volte appoggiate l’una all’altra. Abbiamo ascoltato, assecondato facendo di si con la punta, abbiamo detto la nostra quasi affiancate sulla piante come pronte al salto. Poi le due ore come sempre sono volate via.

Ciao ciao ciaociaociao ancora nella stanza, prego ciao buonasera sulla porta, un’occhiataccia a tutte quelle scarpe che fremevano per entrare e a cui magari con soddisfazione avevamo rubato qualche minuto. Scendemmo prima l’una e poi l’altra le scale sempre convinte che tutti ci guardassero.

Riposte nell’armadio ci siamo rimaste tanto tempo, poi di colpo ci siamo di nuovo sentite al centro dell’interesse e sia state fotografate e commentate.

Abbiamo scoperto che eravamo proprio come dovevamo essere al momento, un po’ vanitose con il nostro musino a punta, particolari con la nostra grande fibbia e comode per il tacco di un centimetro. Però abbiamo  anche scoperto che le nostre rivali erano bellissime rosse decolté tacco dodici punta stretta, snob e con la puzzina sotto il naso. Però fortunate perchè in love story con un paio di scarponi da caccia motosi, sgaruffati ma tanto tanto affascinanti.

Va bè il tempo passa e noi nella nostra elegante sobrietà siamo a disposizione.

Sperando presto di ritornare in quella stanza ciao ciao ciaociao e starci per ben due ore sotto il tavolo.

Viaggio all’indietro nel tempo: Nadia

Un viaggio..nei ricordi – di Nadia Peruzzi

Mosella – foto Pixabay


Dopo due anni non ne poteva più di quella palude dell’anima. Aveva voglia di uscire da quell’angusto anfratto nel quale si sentiva costretta.
Il segno zodiacale non l’aiutava di certo. Segno di fuoco il Sagittario. Indisciplinato quanto basta, il segno viaggiatore per antonomasia, un’anima errante che non amava imposizioni e costrizioni, e aveva un gran bisogno di libertà. La routine la viveva peggio di una condanna all’ergastolo. Cose che doveva tenere a bada in quella forzata stagione di divieti, distanziamenti e fin troppe regole a ritmo incalzante, tendente al parossistico.
Anche il sogno e il pensiero ne uscivano rattrappiti , se non addirittura castrati.
Le mancavano il poter pensare a mete da raggiungere, il passare ore in libreria a sfogliare guide e carte che l’aiutavano poi a concretizzare itinerari e viaggi.
Sempre più spesso era il passato che chiamava e la faceva annegare nella nostalgia.
Rivedeva lui senza il quale ogni meta, ogni itinerario di viaggio aveva perso molto del suo significato.
Pensava alle sue mani. A come le piaceva stringerle quando abbandonate le guide e le loro indicazioni si lasciavano sospingere dalla sola curiosità di scoprire angoli e scorci particolari che dopo sarebbero stati per sempre e solo i loro.
Rivedeva i suoi occhi curiosi di scoperte e pensava a come l’aveva sempre assecondata anche quando lo spunto per un luogo da vedere poteva derivare dal caso.
Il retro della banconota da 500 marchi fu quello che li portò fino al Castello di Burg Eltz vicino a Coblenza e al corso della Mosella.
Stava in un nulla, sperduto in un bosco, senza alture in posizione strategica o passaggi fluviali da dover sovrastare e proteggere. Stava lì da secoli a raccontare la sua storia di dimora signorile del principe che aveva deciso di abitarci. Non li deluse. Non succedeva mai che la realtà, anche quella a cui si era arrivati per caso, portasse delusione.
Telç,fra Brno e Praga, l’avevano vista per la prima volta sulla copertina di una rivista di viaggi. Ci arrivarono in un pomeriggio di fine estate e si ritrovarono in un mondo a parte, senza auto e senza rumori molesti, circondati solo da case merletto dai colori pastello datate 1600.
Con i loro abiti e i loro atteggiamenti da ventesimo secolo erano loro a sentirsi fuori dimensione.
La notte fu magica. La piazza era illuminata da lampioni a gas di vecchia foggia. Cenarono all’aperto, sotto quella luce tremolante e naturale, coccolati da un firmamento di stelle che sembrava di poter toccare.
Qualche figura si aggirava nella piazza, sulle facciate delle case ombre, che apparivano e scomparivano rapidamente. Con un po’ di fantasia si poteva sentire arrivare un rumore di passi felpati e di broccati che frusciavano a contatto con le pietre. Il gran ballo alla Residenza del principe doveva avere avuto inizio e i nobili ritardatari si stavano affrettando.
Non ricordava come avevano scoperto Giethoorn in Olanda. Ormai non aveva più alcuna importanza.
C’erano arrivati e ne erano rimasti conquistati. Era un paese piccolo piccolo, quasi un’oasi nel piattume della campagna olandese.
Da lontano si vedeva solo il ciuffo degli alberi che faceva corona al villaggio. Da vicino ad attrarre l’attenzione erano i canali, i piccoli ponti di collegamento fra le case, i giardini ricchi di fiori colorati che arrivavano fino a lambire l’acqua. Un piccolo angolo di paradiso. Fuori dal mondo e dai suoi ritmi incalzanti. I canali erano le strade, piccole barche silenziose al posto delle auto che correvano lontano, sulla strada principale alle nostre spalle.
Chiudendo gli occhi lo rivedeva mentre scattava le foto. Era lui che le faceva, lei pur non avendo perso la passione gli aveva lasciato di buon grado campo libero. Non servivano parole fra loro per dirsi che avevano fatto la scelta giusta arrivando fino a lì. Si intendevano con uno sguardo. Un gesto era un racconto e un commento.
Tutti e due avevano momenti in cui erano troppo emozionati per riuscire a trovare parole all’altezza di ciò che sentivano. Quindi si affidavano a silenzi in grado di dire tutto.
Sarebbe stato bellissimo pensò poter riannodare insieme i frammenti staccati di quella pellicola. Era una altalena di ricordi nella quale per fortuna erano le immagini gioiose e dolci a sgomitare per mettersi in mostra.
La colazione in una quasi alba sulla Promenade des Anglais con delle “tartes à la francaise”spropositate visto che ognuna valeva almeno 3 paste delle nostre .
La 500 ormai stremata sulla salita di Serravalle, con sulle spalle quasi 6000 chilometri, con cui tentammo di sorpassare un camion che pure andava lento, e dovette abbandonare l’impresa visto che tossiva e procedeva a scatti non sopportando più la differenza di ottani nella benzina con cui avevamo fatto il pieno in Spagna.
Avrebbe rivissuto tutto volentieri. Anche l’ansia e lo stress della vigilia. Era sempre elettrica mentre faceva le valigie e spesso e volentieri finivano di litigare. Era una di miccia corta, lei.
La mattina , saliti in macchina, lui doveva fare affidamento a tutta la sua pazienza. Lo sapevano entrambi.
Ogni volta era una litania di “guida con prudenza, vai piano, stai attento!”,che lui accoglieva in silenzio per poi ignorarla durante il viaggio. Tanto sapeva che arrivati a circa metà percorso , varcata la linea di confine fra il certo e l’incerto, il prima e il dopo da scoprire, lo stress sarebbe sparito come per magia .
Così era stato sempre. Ad eccezione di una volta.
Fossero stati insieme sul quel divano ne avrebbero riso ancora, mentre lo raccontavano ai nipoti. Lui sicuramente con lo sguardo bonario che gli apparteneva e l’espressione sorridente che non lo abbandonava mai.
Lo immagino mentre dice : ”Vedete questa nonna? Delle volte mi ha fatto proprio perdere la pazienza. Una volta più di sempre. Eravamo sull’autostrada fra Roma e Napoli e lei era agitata come non mai. Era tutto un vai piano, corri troppo, attento qui, attento là. Mi dava il tormento. Non ressi più. Mi diressi ad un’area di sosta , fermai la macchina e scesi dicendo.”Se vuoi arrivare a Napoli guidi tu , così la smetti pure di parlare e di rompere.”
Arrivammo a Napoli con la nonna che guidava e io che dormivo. Lei non era andata piano e per di più aveva continuato a parlare ancora per un bel po’.”
Uno sguardo di intesa con i nipoti avrebbe suggellato il tutto e l’attenzione si sarebbe spostata sulla merenda che li attendeva. 
Nell’ombra della sera che stava avanzando le sembro’ di sentirli ridere beati attorno a quella tavola e a quelle fette di torta.

Incontro del 19 gennaio 2022

con Cecilia Trinci

Ringrazio l’amica Caterina Del Panta per l’ispirazione e la consulenza

Il colore e la forma dei nostri passi:

Scarpe sognate, portate o desiderate, il rumore e la lunghezza dei nostri passi, passi incerti, decisi o lenti e pensati, passi scattanti o diversi l’uno dall’altro, passi conquistati, passi faticosi e affaticati, passi di quando il tempo era leggero o passi bagnati di pianto.

La vita nelle scarpe, nel camminare nel tempo con fatica o con leggerezza.

I passi della fuga e del gioco.

I passi senza scarpe, nudi e liberi sulla terra, fredda o calda, secondo le stagioni della nostra vita.

foto e oggetto di Lucia Bettoni

Una valigia per amica: Sandra

L’importante è partire – di Sandra Conticini

La valigia è stata la mia migliore amica. Non importava dove, ma l’importante era partire, il mondo è grande e  per girarlo tutto ce ne vuole! Ogni viaggio mi ha dato emozioni diverse  in base all’età, alle aspettative, al desiderio che avevo di andare in quel posto. Ricordo quando andai in Egitto ed andammo a Luxor alla valle dei Re, entrare dentro le  piramidi vedere, così da vicino, la sfinge e tantissime altre meraviglie  mi sembrò impossibile. Li avevo visti sui libri, alla televisione, ma non avevo mai pensato di poterci andare e, per me, fu un’emozione così forte che ancora oggi non riesco a descrivere.

Anche la Tunisia mi è piaciuta con i suoi colori, i suoi mercati con spezie di tutti i tipi e per tutti i gusti. L’isola di Djerba con la sua spiaggia di sabbia bianca le palme e il suo mare cristallino. Mi sembrava di essere in paradiso, ma quando andavamo in giro per le oasi o nel deserto la povertà si toccava con mano. Quello che mi metteva più tristezza erano i gruppi di bambini magrissimi con quegli occhioni neri,  tutti polverosi, malvestiti, con i denti sciupati che, quando vedevano i turisti, chiedevano caramelle, e soprattutto penne per scrivere. Queste immagini mi sono rimaste nel cuore, non posso pensare  che possa esistere tanta miseria e mi ritengo fortunata per essere nata in un’altra parte di mondo.

Poi, prima di morire, volevo andare a  New York e ce l’ho fatta. Un giorno fui presa in contropiede da mia figlia   che aveva dei giorni di ferie e mi disse che se volevo si poteva andare. Io non me lo aspettavo e dopo averci pensato, direi poco, accettai. Avevo la curiosità di vedere l’America con i grattacieli, le strade grandi, i magazzini di tre o quattro piani di profumi, Times Square, il ponte di Brooklin, il MET, Central Park, e mille altri posti dei quali ho sentito parlare o visto in televisione. Abbiamo camminato tanto, avrei voluto vedere tutto e anche di più in quella città viva, che ti prende, è tutto così grande in confronto a quello a cui siamo abituati noi. Sono tornata proprio soddisfatta e contenta di esserci potuta andare.

Ho visitato capitali europee, ho fatto trekking itinerante, ho visitato città italiane, non per forza lontano da casa, ma credo che ogni posto in cui vai  ti lasci un colore, un profumo, un fiore, un rumore, insomma qualcosa di speciale, l’importante è saperlo cogliere e portarlo via.

Un viaggio da ospite: Tina

Tunisi speciale – di Tina Conti

Nella vita si affrontano diversamente le scoperte del mondo nei vari periodi .

Chi è molto curioso, sente in modo indispensabile  confrontarsi con i mondi   e le tradizioni degli altri  e quindi  vuol partire.

Eccitazione e paura, azzardo e  incoscienza , sfida dei limiti caratterizzano le prime esperienze di un giovane. Così e stato  per me: andare, vedere, rincorrere senza soffermarsi molto, accumulare sensazioni. Nel tempo, però, il viaggio ha assunto caratteristiche molto più profonde.

A volte mi basta cambiare  percorso  nella mia città per avvertire il senso della scoperta, poi, di fronte a partenze impegnative, mi documento, faccio ricerca su cosa  osservare, sulle tradizioni e eventi, leggo testi che narrano la vita e i modi di un popolo, il clima,  le usanze, la storia. Questo è quello che in teoria posso fare  oggi per godere dell’esperienza del viaggio, ma quella vacanza fu molto sorprendente.

Si partiva per un mese, ospiti di un diplomatico tunisino.

L’appartamento che ci accolse si trovava al piano terreno della loro casa, una villa  in collina, a Sidi bes said, la Fiesole di Tunisi. La giovane coppia con due bambini ci aspettava.

Non avevo avuto quelle emozioni nei precedenti viaggi, ma il cuore, i miei sensi si accesero in modo sorprendente.

Sentivo odori, profumi, suoni che mi svegliavano prestissimo  il primo  mattino.

I piedi delle persone che si recavano in città si posavano sul terreno con suoni ovattati e morbidi , leggeri chiacchiericci si sentivano in lontananza, mentre si svelava il territorio ai miei occhi, la luce filtrava, brillante e calda e si posava sulla sabbia.

 Dai minareti arrivavano lamenti per la preghiera, che risuonavano  con ritmi diversi.

Sotto un limone in giardino mi tuffai in un mare di emozioni che mi incantò, poi, la spesa al mercato con  la grande sporta di paglia dove, senza incartare i vari prodotti, si mescolavano con armonia luci e colori.

La richiesta dell’aglio molto prezioso fu accolta con circospezione.

 Il venditore  mi accontentò rovistando da sotto il banco come  offrendo un tesoro. La moglie del diplomatico, di origine tedesca, si faceva rispettare e ascoltare in arabo perfetto. Una sera a cena, l’arabo con il suo abito da casa, lungo e bianco ci accolse nel giardino, il tavolo, i cibi profumati, il the alla menta molto zuccherato. Conclusero la serata, piena di luci lontane e di suoni che non mi facevano staccare l’attenzione del piacere dalla curiosità scatenata.

Il giro per la città con chi   ci vive ha aspetti molto più coinvolgenti e intensi. Fu una cosa  davvero indimenticabile l’incontro con gli amici della coppia che ci ospitava  e la visita al tramonto nel loro negozio di  oggetti e arredi  nel quartiere del mercato vecchio.

Salimmo sul terrazzo   sopra al negozio, il sole  era calato da poco, e tutto assumeva toni aranciati e rosa -viola, la sabbia rimandava bagliori di fasce luminosi e ricchi di sfumature. 

Aspettammo il buio completo , sotto di noi la moschea di alabastro si illuminò, mostrandoci la sua bellezza e la sua unicità, si sentivano suoni di preghiera .

Le pareti con la luce interna riflettevano tutti i toni del giallo, arancio, ocra, marrone dell’alabastro. Rimanemmo in silenzio incantati per tanto tempo.

Di sotto, ci furono mostrati oggetti antichi e tappeti e prendemmo il the  con i dolci al miele. A me piaceva molto un manufatto di tessuto  ricamato  molto vecchio, con colori caldi.  Insieme ad altri regali, alla partenza mi ritrovai quel drappo che ancora oggi conservo insieme alle emozioni.

 I nostri amici ci condussero nella parte del paese più aspra e  rurale, dove vivevano le popolazioni berbere, scoprimmo una realtà diversa dalla città e ancora molto legata alle tradizioni. Si parla di un viaggio che risale a circa quaranta anni fa.

Naturalmente  il paesaggio e i fiori mi appassionarono molto, le collane di gelsomini regalate ovunque per le feste  e le ricorrenze  mi stordivano cosi come il tripudio di ibiscus di tutti i colori nei parchi e giardini privati. Le buganvillee ricoprivano cancelli e prati, sfavillavano rigogliose e esuberanti.

Anche i mercati di generi vari furono fonte di attrazione e curiosità.

Le mani abili degli artigiani che lavoravano sotto  le tende davanti alle botteghe ci facevano sostare incuriositi, ricordo quanto dura fu la ricerca di una teiera che secondo la nostra amica doveva avere impresso il marchio dei tre minareti alla base per essere di buona qualità. Un viaggio accompagnato dalla passione di chi vive in quella terra è davvero diverso dai soliti.

Dopo questa esperienza mi pongo in modo diverso quando ospito amici  da fuori,

Cerco di scoprire con loro aspetti del nostro paese  vicini alle cose reali e emozionanti che provo a condividere con loro.

Viaggio verso se stessi: Carla

Parigi o cara- di Carla Faggi

Il mio primo viaggio, vent’anni o poco più, è stata una sfida e un’avventura verso l’indipendenza.

Poteva essere qualsiasi posto, non aveva importanza, ho scelto Parigi perchè conoscevo la lingua francese, solo per quello.

Volevo sfidarmi, fare qualcosa di diverso, vincere la mia timidezza e insicurezza. Un viaggio da sola in un paese straniero. 

Mollai il fidanzato dell’uscio accanto e partii per Parigi au pair presso una famiglia francese.

Dovevo guardare due bambini in cambio di vitto e alloggio e “argent de poche”.

Le priorità erano io e la scoperta di me stessa, poi i francesi e tutta la gente del mondo che sembrava fosse tutta venuta lì, e infine veniva la scoperta della città.

Spesso mi ripetevo “sono a Parigi, io, la Carlina di Settimello sono a Parigi da sola!”

Ero orgogliosissima e fiera di me. Ero finalmente l’italienne che parlava abbastanza bene il francese, anzi il parigino, e non la settimellese che parlava un povero italiano da provinciale di  un periferico comune oltre Firenze.

Ho avuto tanti amici, conosciuto tante persone, di tante e tante nazionalità. Ma più che altro mi intesessavo a me, a come mi comportavo, a come ero, a come potevo sbagliare e sbagliare ancora senza che nessuno lo sapesse, almeno non i miei genitori ed il mio paesino.

Comunque qualche volta feci anche la brava, mi ricordo che andai alla festa de L’Humanité a sentir parlare l’allora segretario del PCF Georges Marchais. Erano i primi anni settanta. Lo scrissi naturalmente a tutti gli amici ed ai compagni della sezione, anzi la cellula del PCI di Settimello. Perchè quello che stavo facendo non era solo per me ma anche per farlo sapere agli altri.

Inutile dire che al paesello diventai un mito.

La città l’ho scoperta di più nella seconda parte di questo viaggio, si, perchè dopo i tre mesi trascorsi in Francia rientrai a casa ma dopo pochi mesi ripartii e mi trasferii di nuovo a Parigi, vivevo in un appartamentino in affitto nel Marais e lavoravo come guardarobiera presso un ristorante.

Parigi all’epoca era tutto, era l’irraggiungibile, era essere al centro del mondo.

E io c’ero, ero lì, al centro del mondo, da sola. Non mi sentivo più quella di provincia, quella  timida, che si sentiva non all’altezza sempre, e per di più fidanzata con uno dell’uscio accanto.

Ancora qualche mese, poi rientrai e ritornai di nuovo, in tutto ci rimasi nove mesi.

Quel viaggio fu lo spartiacque della mia vita, mi accorsi che nulla, se vuoi, può essere impossibile, difficile sì ma non impossibile, basta provare a farlo.

Fu quindi un viaggio più che verso un luogo, verso me stessa, verso l’avventura il non conosciuto, l’imprevedibile.

Oggi naturalmente viaggio diversamente, vado a scoprire le bellezze di un posto la sua storia e la storia dei suoi abitanti, la mia curiosità si è spostata da me al mondo.

Viaggio turchese verso la Turchia: Vanna

                                                                 Marmaris – di Vanna Bigazzi

Della Turchia, solo il mare posso ricordare, ne ho un po` di rammarico, comunque non e` poco. Fu un viaggio in barca che non prevedeva soste in citta` o luoghi non vicini alla costa. Il porto di Marmaris fu il nostro punto fermo. Ricordo quindi il turchese delle acque, splendide colline quasi montuose e vaste pinete a contenere il porto. Infatti Marmaris e` la traduzione di “Perla di mare”, una perla racchiusa nella propria ostrica. Dicono che il turchese sia il colore degli abissi, dell’inconscio, il luogo che da` origine alla vita. La pietra del turchese e` anche la pietra del viaggiatore dalla mente lucida. Ricordo anche l’affascinante bazar coperto dove si respira tutta l’essenza del “commercio turco” ma se e` vero che i viaggi rappresentano noi che viaggiamo, ecco, allora posso dire che quel viaggio per me e` stato un tuffo nell’azzurro piu` intenso e niente altro.

Dall’India per rinascere: Laura

Nascite – di Laura Galgani

Appena passata l’Himalaya il Boeing 747-300 dell’Air France inizia la sua discesa, planando quasi in silenzio. E’ notte e prima una poi un’altra si intravedono, fuori dall’oblò, le deboli luci dell’immensa periferia di New Delhi.  Dapprima di un fioco giallo sfocato, poi anche rosse e qua e là verdi. Un gigantesco albero di Natale sdraiato nella terra dei Veda e delle mille divinità, alcune dalle molte braccia.

Il computer di bordo, montato nello schienale del sedile davanti al mio, dà l’altitudine e la temperatura. Via via che l’enorme aereo dal ventre gonfio di passeggeri internazionali si abbassa, la temperatura esterna cresce vorticosamente. Se a 11.000 metri erano -70 gradi, a 2000 metri di quota sono già 25. Quanto sarebbe stata, una volta a terra, il 17 aprile? Mi spaventa pensarci.

Atterraggio perfetto, clic-clac delle cinture di sicurezza che si sganciano. “Welcome to India. Thank you for choosing air France”.

Un’ultima occhiata prima di alzarmi dalla poltrona: ore 00.12, + 42°.

Fuori dall’oblò le luci arancioni dei mezzi aeroportuali mi proiettano d’improvviso nel colorato mondo là fuori.

Eccola, l’aria calda, umida, pregna, carica di odori di questa metropoli, dove sono venuta ad incontrare mia figlia.

Già prima del portellone spalancato, mista all’aria condizionata, mi investe.

Sulla scaletta non ho più scampo: mi avvolge una vampata quasi liquida, tanto è densa di umidità, di vapore, di particelle e di odori. Provo ad allargare i polmoni, a respirare profondamente, ma è difficile. Il corpo si fiacca, le gambe si fanno pesanti. Ma non c’è tempo per fermarsi, bisogna raggiungere l’uscita, attendere al controllo documenti, avere pazienza.

Mi concedo un attimo per osservare l’aeroporto: un semplice parallelepipedo in cemento senza alcuno stile né pretesa. Una delusione, per essere quello di una metropoli.

Ma è già il momento di cercare un taxi: nel vocìo e nella confusione di chi aspetta qualcuno mostrando nomi su dei cartelli scritti a mano, riesco a trovare un taxi “ufficiale” e a dire al conducente il nome dell’Hotel prenotato. Gli chiedo quanto ci vorrà ad arrivare, mi dice “50 minutes” ma so già che non è vero: ci vorrà quasi un’ora e mezzo per arrivare all’albergo.

Appena lasciato l’aeroporto mi avvolge il buio della strada, mai illuminata da un lampione mentre attraversa una pianura desolata, lambita da casupole fatte di pannelli di lamiera e cartoni, con fuori bidoni per la raccolta dell’acqua piovana. D’un tratto scorgo un elefante, enorme, grigio scuro, rugoso, dalla pelle flaccida, che con passo ritmato e lento percorre di lato la nostra stessa strada. Un ragazzino in maglietta rossa e pantaloncini verdi, scalzo e con in mano una piccola frusta, gli dà la direzione del lento incedere.

Lo sconcerto è più forte della paura di investirlo. Il taxista lo vede, non si agita affatto, e senza neanche mettere la freccia lo supera. Mi volto a guardarli, incredula, ma il buio li ha già inghiottiti. Solo un bagliore, forse il riflesso della luce dei fari, balugina per un attimo sui finimenti a loro modo preziosi della grande testa dell’elefante.  

Dopo buche innumerevoli e altrettanti scossoni si entra in città: gli eleganti palazzi moderni, sedi di ambasciate e ministeri, ma anonimi, in stile neoclassico, potrebbero essere a Washington o a Londra, non svelano dove siamo.

Il taxi è una vecchia auto di fabbricazione britannica, di sicuro ha servito la corona negli anni di Churchill. Niente aria condizionata, finestrino aperto, lui, io preferisco di no.

Il conducente è un Sikh, si riconosce dal turbante e dalla lunga barba ben curata. Imperturbabile, tiene lo sguardo fisso sulla strada e non fa domande. Meglio, sono troppo stanca per fare conversazione in un faticoso “Indian-English”.

Sono le due passate quando il taxi attraversa il giardino ricco di palme dell’hotel, bianco e in stile coloniale.

Scendo, di nuovo l’aria carica di umidità mi investe e mi schiaccia. Qui almeno sa di terra, di piante sconosciute, di fiori colorati. E’ un’aria gravida, quasi un’immensa, densa placenta, in cui circolano particelle di sostanze misteriose che ancora non so riconoscere.

Entro nella hall, in perfetto stile coloniale: tutto è color ambra e la radica riveste il desk della reception, esageratamente grande. Tappeti intessuti di arabeschi sui toni del rosa attutiscono i miei passi. Le luci delle lampade basse si riflettono negli specchi e amplificano la sensazione di luce dorata che proviene dalle cornici. L’aria però è cambiata: si è fatta fresca, anzi, fredda, secca, il brusco sbalzo mi infastidisce.

Salgo in camera, al secondo piano. Il corridoio è ampio, ha le stanze tutte sulla sinistra, mentre a destra si aprono finestre alte, che terminano in un’arcata, e guardano sul rigoglioso giardino con la piscina, illuminato da lampade in ferro battuto ottocentesche.

La camera è in realtà un appartamento con un grande salotto, una camera da letto e un bel bagno. Peccato che l’aria sia gelida, secca, e il condizionatore sia rumoroso. Passerò quel che resta della notte a coprire di giornali le bocchette del freddo mostro.

Lascio le valigie ai piedi del letto e mi metto al lavoro per chiudere la bocca gelida. Dopo, in bagno mi lavo le mani e mi bagno il viso, non una ma diverse volte. Non mi asciugo. Vado nel corridoio e apro la finestra. Fra non molto sarà l’alba. Mi sporgo un po’ e chiudo gli occhi. Voglio respirare quell’aria ancora calda delle cinque del mattino. Sento con gli occhi chiusi la luce della luna quasi piena illuminarmi il viso. Sento i versi degli uccelli a me misteriosi narrare storie sconosciute. Aspiro profumi di spezie, di cibi, di fiori, di piante e anche di sangue e di smog. Sì, perché questa è la terra d’India. E più respiro profondamente più sento il mio corpo espandersi, farsi accogliente, gravido.

La mia maternità adottiva sta per compiersi. Il tempo sta per scadere, il frutto di una scelta sta per nascere. Così come ho dato alla luce il mio figlio naturale, fra poco farò nascere anche te, da questo stesso mio corpo, figlia mia.

Parco del Mensola: piccolo viaggio dietro casa con la Matite

Una giornata di sole, tanta voglia di vedersi (in sicurezza), piccoli miracoli di buonumore…..con i bergamotti di Daniele, lo scorrere dell’acqua cristallina, alberi secolari e la luna (quasi piena) in anteprima….

Il viaggio visto da Nadia:

foto di Nadia Peruzzi

Il viaggio visto da Lucia:

foto di Lucia Bettoni

Il viaggio visto da Rossella:

foto di Rossella Gallori

Il viaggio visto da Cecilia:

foto di Cecilia Trinci

E infine i bergamotti di Daniele!!!

Foto e ricetta di Lucia Bettoni