Avrai sempre scarpe per andare: Rossella

Troppi passi sono stanca… – di Rossella Gallori

Avrai sempre scarpe, ci sarà chi le cuce per te

Nabuk colorato lunghi lacci di raso sottile….

Inizio anni 50 quella macchina che io chiamavo “ ippotanino” e non era che una giardinetta grigia, piedini grassi,a puntaspilli, diceva il babbo, a saponetta diceva la mamma…e quei sandalini di cencio bleu bordato di bianco che pulivo con le dita dopo averle ben succhiate….e noi cinque insieme, una famiglia ancora intera, diretti a Napoli…il mio primo viaggio…del quale ricordo: palle di neve da mangiare, che poi eran mozzarelle, la mano forte del babbo….ed i sandalini pieni di sabbia….che felice così non sono stata più…

Poi cominciammo a far coppia fissa, il babbo io, gli stivalini di gomma e la 1100 grigia, lui rappresentante io il portaborse, che tanto non ce la fai diceva la mamma salutandoci…poi era quasi Pisa, quasi Lucca, quasi Arezzo, quasi  Livorno e quando il viaggio era più lungo vicino a Grosseto..perchè i laboratori eran sempre fuori città, qualche volta c’era il tempo, per vedere il mare, le mura, una torre che ciondolava….altre volte manco capivo dove ero, il bello era fermarsi, stendere il plaid fare un gioco, mangiare, un pezzo di schiacciata….e togliere li stivalini, che mi stavan sempre più stretti…crescevo io, loro no.

 Poi venne l’ estate e quell’ ultima vacanza insieme, cominciavo ad essere altina, lui si poteva appoggiare, andammo a Montepiano, un viaggione, una valigia in due i suoi mocassini belli belli, le mie ciabattine di paglia comprate  al Porcellino le Superga bleu con la pallina, ci lasciaron tre settimane li, il babbo riprese un po’ di fiato, io lo persi a chiamar le ciabattine che galleggiavano nel Bacino del Brasimone…e tornai scalza a Castiglion dei Pepoli..che mi sembrava una chicca, alla Storaia Lui mi prese i sandali di cuoio, il commerciante disse : macchè bambin…a…ha il 38…! Ma belli così non li ho avuti mai.

Avrai sempre scarpe per andare, tornare, restare

Zoccoli di legno, imbottiti di morbida pelliccia bleu….

Poi subentrò mia zia arrivarono le vacanze a Viareggio, al principe di Piemonte, e le scarpe come pure i sandali eran  sempre più belle, più costose, non le ho mai sentite mie, sapevano di elemosina, Viareggio ricca ed io nipote povera e mezza orfana, da vestire e calzare come un cavallo, rozza dai finimenti evidenti…Non mi piaceva la Versilia ed ancor meno le scarpe prese del Cresti, prima della partenza.

Poi ci fu quella libertà forzata: il lavoro, le scarpe con i tacchi per andare a ballare…e con la tredicesima le scarpe di ken Scott  da Beta in San Lorenzo pagate in due volte…

Poi Castiglioncello da sola e più le gonne si accorciavano più le zeppe si alzavano….poi non importava se per scappar da qualche casino, dovevi camminare scalza, per poter correre.

Poi Londra, gli stivali sopra il ginocchio, ho visto più locali che Tamigi, più pub che palazzi reali…a briglia sciolta tacco 10..

Poi la quiete un matrimonio con le scarpe verde mela….la Sardegna, i sandali dorati…Cala Luna, Santa Teresa, Villasimius, ciabatte di sughero….ed in giro come zingari per tutta la Gallura.

Al lavoro tacchi bassi, fuori poi ci vai come ti pare, diceva il mio principale. Una soluzione: le espadillas  davano colore, ma i piedi bollivano…

 Poi, poi Champluc, gli scarponi….e lo Stelvio e Bormio..

Per un po’ ho perso il filo: anonime ballerine, le scarpe importanti eran per mia figlia, fiocchi, cuoricini,  amore di piedini…da mangiare..

E poi Salisburgo e poi Pantelleria…poi Stromboli…poi Calabria e poi perché no  l’ Adriatico….in lungo ed in largo e le mie Birkestock  che comode così non le ho mai avute, i piedi deformati da calci sbagliati, da troppe ore in piedi, dal peso mio e quello delle cose…

Ora scarpe comode per non andar quasi da nessuna parte, per non cadere, per andare avanti, scarpe sorellastre, di giorni diversi.

 Poi…poi…arriva un momento che è ieri l’altro ed una amica capobranco, vuol parlare di scarpe, prendo quelle che mi ha regalato un angelo, verdi, sfacciate,  cercandole  ho trovato dei granelli di sabbia ed ho sperato di ritrovar i sandalini di Napoli, di cencio blu bordata di bianco….che felice così non sono stata più…ho sentito una voce:

Avrai sempre sandalini di velluto  pe volare sulla sabbia, per non calpestare l’erba

Ti cuciremo stivalini patchwork per farti sorridere sempre……..

Cammineremo su un tappeto di mughetti color luna…

Ps: un po’ poesia (non tutta× fortuna vostra) un po’ scarpe, un po’ viaggi…molto casino

Sui ghiacciai in Val D’Aosta: Carmela

Con i piedi per terra – di Carmela De Pilla

Eppure non era nei miei programmi, io vissuta nell’acqua cristallina di quel piccolo lembo del Gargano, acqua che ti accarezza quando sei triste, ti accompagna quando sei sola o ti consola quando sei afflitta con i suoi colori, le sue canzoni dolci o urlate, insomma non era proprio nel mio DNA pensare di raggiungere vette inimmaginabili eppure è successo perché a volte la vita va e ti porta dove vuole, senza chiederti il permesso e così mi lasciai trascinare in un’impresa di cui poi ho apprezzato la sua ricchezza inestimabile.

La meta era il ghiacciaio Rutor, 3.500 m. circa, sicuramente la mia incoscienza mi ha spinta a raggiungerlo perché mentre i miei amici erano atletici e nerboruti io, al contrario ero l’unica a non aver mai fatto sport, è vero ero quasi giovane e così con la stessa ingenuità e curiosità di una bambina fui trasportata in quel sogno.

Avevano organizzato, loro, un trekking in Val d’Aosta da rifugio a rifugio per una settimana, l’eccitazione era alle stelle, l’armonia e l’allegria che aleggiava nel gruppo ci faceva star bene e io, ignara della fatica che mi  aspettava, sembravo una bambina che incomincia a fare i primi passi.

Niente macchina, niente negozi, niente lavoro, niente caos, solo una natura benevola che ama senza alcuna condizione e io che avevo un’impellente necessità di bellezza mi lasciai prendere per mano.

Mi avvolgeva l’azzurro intenso del cielo della montagna riflesso nei laghi, i mille verdi diversi di quei prati immensi e della vallate, il bianco spumeggiante delle cascate e quello delle vette innevate che quasi le toccavi, l’ocra o l’ambra delle rocce, tutt’intorno una danza di colori s’intrecciava con le nostre risate.

Sul Gran Paradiso siamo stati accolti dai camosci e stambecchi che girellavano senza alcun timore intorno al rifugio, qui fui rapita dalla vetta regina che spiccava il volo verso il cielo senza alcuna presunzione col solo intento di donarci serenità.

E poi verso il Col Rossè, la magia dei laghi inginocchiati ai suoi piedi, azzurri come il cielo che li sovrastava e la corona dei tanti monti innevati mi tolsero il respiro, nel mezzo spiccava il monte con i suoi colori bruciati, aspro e nemico per la difficoltà che provai nel raggiungere la cima, da una parte la bellezza del luogo dall’altra la paura di non farcela, ma nessuna cosa è bella se non si assapora la fatica della conquista e io ero fiera di avercela fatta.

Cime innevate e nubi s’intrecciavano quasi a far sparire il confine fra loro.

E ancora tanto cammino fra la magnificenza della natura incontaminata, tra il bianco accecante e il verde smagliante delle valli, c’era un’armonia accogliente tra noi e tutto sembrava meno stancante.

E poi quella cascata fragorosa costretta a tuffarsi nel vortice per frantumarsi in mille gocce che bagnavano i nostri volti allegri e spensierati.

E poi l’urlo allarmato della marmotta che faceva da sentinella sul masso per avvertire i suoi simili del pericolo.

E poi finalmente dopo la “sindrome della meta” l’arrivo al rifugio Deffeye dove ci ha accolto un signore d’altri tempi che con tanta generosità ci aveva preparato una calda cena ristoratrice, da quella terrazza naturale si ergeva fra tutte la vetta del ghiacciaio Rutor, come un imperatore sembrava ordinasse ai suoi servi di donarci pace, serenità, bellezza…

E poi la camminata fra i calanchi del ghiacciaio, fra le grotte che assorbivano l’intenso azzurro del cielo diventando azzurre esse stesse, come per incanto nessuno parlava, ognuno ascoltava il proprio silenzio con gli occhi pieni di meraviglia.

E poi il ritorno a La Thuile, punto di partenza, qui ci siamo spogliati e cambiati nascosti dalle macchine di un qualunque parcheggio tra le nostre risate e la sorpresa dei passanti.

Un viaggio durato sette giorni, ma lungo una vita tanto che ancora oggi lo porto dentro di me, ho imparato a superare ostacoli insormontabili, a resistere alle difficoltà senza spezzarmi, ho imparato a credere di più in me stessa ed essere orgogliosa per come sono accettando anche i tanti difetti.

Ho consumato la suola degli scarponi, ma ho scoperto gli angoli oscuri della mia anima.

La vecchia Jugoslavia: Anna

VIAGGIARE – di Anna Meli

                  Non ho viaggiato molto nella mia vita e devo dire che non so se mi sarebbe piaciuto. Sono stata solo una volta all’estero nella vecchia Jugoslavia di tanto tempo fa quando ancora circolavano i dinari e Tito era ancora in auge.

                  Ricordo paesi abbastanza poveri dove gli Italiani non erano ben visti e anzi, accolti con una certa diffidenza. Il bello lo si trovava solo in una natura verde di boschi e di prati dove molto spesso vecchi autobus colorati erano adibiti ad alveari e spostati via via dove si trovavano sole e fiori. Ricordo in particolare la città di Otocac e i suoi tetti abitati da cicogne che sbattevano le ali e gli appuntiti becchi arancioni come per salutarci e soprattutto i laghi di Plitvice.

                  Parlare di questi laghi dopo tanto tempo è quasi impossibile tanto erano vari e belli ricchi di cascate, di piante altissime di specchi d’acqua dove i pesci sembravano giocare e topolini che si rincorrevano poco più in là , fra i rami caduti di qualche pianta e lasciati così a ricoprirsi di muschi ed erba strisciante.

                  Ci fermammo, ricordo, per qualche giorno a Otocac presso una casa privata messaci a disposizione da una signora gentilissima in grado di offrirci colazione, cena oltre a camera con bagno e fu lei a dirci che una volta quei laghi venivano chiamati il Giardino del diavolo tanto erano fitti ed impenetrabili.

                  Fu proprio questo che ci spronò a tornarci per tre giorni consecutivi, mai stanchi di quel Paradiso terrestre! Un’altra curiosità fu che quando ci congedammo, questa signora ci chiese gentilmente di essere pagata in lire che sarebbero servite a far studiare sua figlia a Trieste e questo ci fece capire l’idea di libertà che esisteva in quel paese. La guerra ha distrutto molti di questi luoghi. Chissà se i laghi si saranno salvati da questi stravolgimenti? Voglio sperarlo!

Scarpe solide: Patrizia

Le scarpe e lo scorrere del tempo – di Patrizia Fusi

La scarpa del cuore per me è una calzatura che mi fa sentire libera nel camminare confortevole e calda nella stagione fredda.

Ricordo che quando ero piccola qualche volta camminavo scalza ma non mi piaceva, perché sulla ghiaia sentivo male, nei campi dove era stato tagliato il grano gli spunzoni mi ferivano i piedi e dovevo stare attenta a metterli nei solchi.

Nella mia gioventù non ho avuta molta scelta: un paio per la domenica e un paio per andare a lavoro, le cose cambiarono quando iniziai a lavorare, ricordo che mi comprai un paio di scarpe rosse bordò avevano un po’ di tacco, la suola era tutta di gomma, mi piacevano molto e ci stavo comoda e calda.

Una sera tornando da lavorare pioveva tanto e mi si bagnarono dentro, quando arrivai a casa le asciugai con uno straccio e poi, per averle pronte la mattina successiva, le misi nello scomparto inferiore della stufa a legna per asciugarle.

La mattina quando andai a prenderle la gomma si era ritirata e non mi entravano più nei piedi, dovetti mettermi le scarpe della domenica, un decolté nero con il tacchetto fine, molto scomode e fredde per fare tutta la strada da casa mia all’autobus.

 La domenica quando andavo a ballare, fino al circolo mettevo le scarpe dei giorni feriali e le cambiavo con il decolté alla fine della strada, le lasciavo a casa di una mia amica.

Da quel periodo mi viene di pensare che quando ho le scarpe comode e asciutte e più di un paio mi sembra una ricchezza.

Ricordo il piacere che provavo da piccola ad andare nella cesta sotto il letto dove erano riposte le scarpe della famiglia, prendevo le scarpe di mia mamma con il tacco e ciabattavo per il piccolo appartamento, la mamma mi diceva “Patrizia mettile a posto perché sono quelle di Gesù dopo queste non ce n’è più”.

Quando potevo indossare scarpe alte o zatteroni mi sentivo più carina, mi rendevano più slanciata.

Ho avuto un modo di camminare costante e deciso né troppo lento né troppo veloce, una camminata solida con scarpe comode e invece con il tacco più lenta e più femminile.

A settanta anni il mio modo di camminare è cambiato, è diventato diverso, sono diventata più lenta e incerta nei passi, anche se con alcuni accorgimenti e scarpe adeguate ho un po’ recuperato.


 [P1]

Scarpe lucide d’amore: Lucia

Scarpe lucide – di Lucia Bettoni

foto di Lucia Bettoni

Uomini belli nei loro mantelli
Si librano leggeri come uccelli
Scarpe lucide d’amore
Al galoppo lungo il fiume
Sono gli uomini diversi
Quelli con la luce dentro
Mani piene di coriandoli
Sogni da respirare
Vi aspetto per ballare
Laggiù vicino al mare
Una danza senza suoni
La bellezza di un momento
Da portare sempre dentro.

Disegno e foto di Lucia Bettoni