Tacco o non tacco?: Sandra

Scarpe – di Sandra Conticini

Quando era piccola in casa dicevano: – Le scarpe bisogna comprarle buone perchè per un bambino che deve crescere sono importanti- Cosi ogni anno all’inizio dell’autunno la portavano in uno dei negozi migliori della città e le compravano un paio di scarpe allacciate, con un po’ di gomma per la pioggia e le pantofoline scozzesi per casa. In estate invece sandali con gli occhi di pelle blu. Questo andò avanti per diversi anni, poi iniziò a crescere e quel tipo di scarpe non le voleva più, le  amiche iniziavano ad avere  scarpe da ragazzina e così in casa iniziarono le discussioni. Un giorno il babbo tornò da un viaggio di lavoro e le portò un paio di ciabatte di gomma azzurre, erano le prime che si vedevano, tanta fu la sua contentezza che  le aveva sempre ai piedi. Aveva una vera passione per le scarpe, quando tornava da scuola spesso si metteva quelle con il tacco della mamma, ma lei non voleva  perchè diceva che gliele sciupava,  ma come faceva ad interrompere quel gioco così divertente. Si sentiva grande, sognava di poter avere un giorno un paio di scarpe come quelle per poter correre correre e forse anche volare. Quando la portavano a comprare le scarpe, lei aveva le idee chiare e, se  non le compravano quelle che voleva, trovava il modo di cambiarle. Poi ha iniziato a comprarle da sé e la passione è rimasta. Scarpe basse, alte con il tacco, rosse, bianche, nere, mai marroni, dorate, argentate, bronzo, camoscio, pelle lucida, zoccoli vertiginosi, stivali, sandali, ciabatte insomma di tutto di più. Il tacco le piaceva molto perchè la slanciava si vedeva più snella, però  era scomodo, non si poteva camminare tanto svelti, e poi si poteva rimanere impigliati nei buchetti dei  marciapiedi. Ora che è passato qualche anno e che il tipo di vita è cambiato, anche le scarpe che compra sono cambiate. Ha sempre diverse scarpe, , ma le sue calzature sono sportive,  non  da ginnastica perchè il suo piede non le vuole. Ora cerca la comodità e la protezione per poter camminare in sicurezza. Comunque nella sua scarpiera ci sarà sempre un paio di scarpe e di sandali un po’ più eleganti per le occasioni. 

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…e nel cuore una foresta: Stefania

Il Pratone e la Foresta – di Stefania Bonanni

Pixabay foto

Aspettavo, aspettavo le parole giuste, e nn le ho trovate. È come quando si parla dei figli, e parlarne non restituisce l’amore, la meraviglia, l’incredibile bellezza, l’unicita’ rara, che siamo consapevoli siano solo per la mamma, e le parole non rendono, banalizzano, in fondo i figli sono tutti uguali, muovono le medesime corde tra ifili del cuore. Per questo, non trovo le parole, ed anche perché i motivi profondi del mio grande amore per certi luoghi non li conosco. Potrebbero essere mille, e nessuno nello stesso tempo: un caso, un fulmine, un giorno più sereno, un ricordo che  ho avuto bisogno di costruirmi. Certo, mio nonno era di Pratovecchio, la mia nonna di Pelago, ed io queste radici le sento profondissime, uscire dalle mie mani, dai miei piedi, sprofondare, e riconoscere il terreno. Quando mi stendo in estate sul pratone d Vallombrosa e chiudo gli occhi, riesco ad allentarmi, ad abbandonare nervi e muscoli, tento sempre di sprofondare un po’, di respirare al ritmo delle foglie che ballano sui rami, così in bilico, anche se poi cadono solo quando è il loro momento. Se fosse possibile costruirsi un paesaggio della pace, vorrei una montagna sullo sfondo, che non  finisca a punta, ma si infili tra la terra ed il cielo inchinandosi in un enorme prato, sulla vetta. Lo chiamerei, pe esempio, Pratomagno. Subito sotto, sulle pendici, una meravigliosa foresta di alberi dritti come frecce, come giovani con folti capelli e gambe dinoccolate, tutti protesi a cercare il sole, ma senza salire addosso agli altri, né pestar loro i piedi per avere più spazio. Come un esercito di sentinelle. Un esercito profumato di resina, canterino di uccelli, che al massimo potrebbe tirare una pina, avesse bisogno di difendersi. L’unico esercito che m piace. La chiamerei, per esempio, foresta di Vallombrosa. Anche lì un grande, accogliente prato , tappezzato di verde, più chiaro dove la gente come me passa le giornate distesa, più scuro all’ombra di giganteschi alberi, la sola vista dei quali regala certezza. Loro hanno visto e sentito, c”erano e ci saranno, solidi, stabili, hanno un senso in estate, e  in inverno, l’acqua, il freddo, la neve, portano loro salute e foglie. Fanno a nascondino con il sole: le foglie ed il vento lo spezzettano alla vista e lo restituiscono in mille raggi brillanti, di quelli che fanno strizzare gli occhi alle persone,  che non hanno sensi adatti a tanto abbaglio. Tra la montagna e la Valle Ombrosa farei scendere centinaia di torrentelli con le acque nervose che ridacchiano mentre saltano sassi e tronchi, magari portandosi dietro qualche piccola trota che ridaccha anche lei. Poi, nel mio paesaggio del cuore, disegnerei l’Arno, proprio sotto il pratone, e la mia pescaia preferita. Così, tutto   infilato nello stesso scenario, non dovrei più scegliere.

La mia mamma ogni volta che si parlava di andare da qualche parte, diceva che voleva andare a Vallombrosa. Io sono diventata anche lei, la porto sotto la corteccia. La cerco in ogni posto, e la trovo in quei prati. Lui in pescaia al sole, lei all’ombra. Ed il tronco cresce, le foglie cadranno, passerà l’inverno e torneremo sul pratone.

Comprate apposta per andare lì: Carla

Le scarpe nuove – di Carla Faggi

Siamo entrate dalla porta aperta al primo piano, belle, nuove, comprate apposta per andare lì, ciao ciao ciaociao! abbiamo fatto insieme e affiancate una decina di passi convinte che tutti ci guardassero,e ci siamo appostate sotto il tavolo per quasi due ore. Un po’ allineate, un po’ accavallate , a volte appoggiate l’una all’altra. Abbiamo ascoltato, assecondato facendo di si con la punta, abbiamo detto la nostra quasi affiancate sulla piante come pronte al salto. Poi le due ore come sempre sono volate via.

Ciao ciao ciaociaociao ancora nella stanza, prego ciao buonasera sulla porta, un’occhiataccia a tutte quelle scarpe che fremevano per entrare e a cui magari con soddisfazione avevamo rubato qualche minuto. Scendemmo prima l’una e poi l’altra le scale sempre convinte che tutti ci guardassero.

Riposte nell’armadio ci siamo rimaste tanto tempo, poi di colpo ci siamo di nuovo sentite al centro dell’interesse e sia state fotografate e commentate.

Abbiamo scoperto che eravamo proprio come dovevamo essere al momento, un po’ vanitose con il nostro musino a punta, particolari con la nostra grande fibbia e comode per il tacco di un centimetro. Però abbiamo  anche scoperto che le nostre rivali erano bellissime rosse decolté tacco dodici punta stretta, snob e con la puzzina sotto il naso. Però fortunate perchè in love story con un paio di scarponi da caccia motosi, sgaruffati ma tanto tanto affascinanti.

Va bè il tempo passa e noi nella nostra elegante sobrietà siamo a disposizione.

Sperando presto di ritornare in quella stanza ciao ciao ciaociao e starci per ben due ore sotto il tavolo.

Viaggio all’indietro nel tempo: Nadia

Un viaggio..nei ricordi – di Nadia Peruzzi

Mosella – foto Pixabay


Dopo due anni non ne poteva più di quella palude dell’anima. Aveva voglia di uscire da quell’angusto anfratto nel quale si sentiva costretta.
Il segno zodiacale non l’aiutava di certo. Segno di fuoco il Sagittario. Indisciplinato quanto basta, il segno viaggiatore per antonomasia, un’anima errante che non amava imposizioni e costrizioni, e aveva un gran bisogno di libertà. La routine la viveva peggio di una condanna all’ergastolo. Cose che doveva tenere a bada in quella forzata stagione di divieti, distanziamenti e fin troppe regole a ritmo incalzante, tendente al parossistico.
Anche il sogno e il pensiero ne uscivano rattrappiti , se non addirittura castrati.
Le mancavano il poter pensare a mete da raggiungere, il passare ore in libreria a sfogliare guide e carte che l’aiutavano poi a concretizzare itinerari e viaggi.
Sempre più spesso era il passato che chiamava e la faceva annegare nella nostalgia.
Rivedeva lui senza il quale ogni meta, ogni itinerario di viaggio aveva perso molto del suo significato.
Pensava alle sue mani. A come le piaceva stringerle quando abbandonate le guide e le loro indicazioni si lasciavano sospingere dalla sola curiosità di scoprire angoli e scorci particolari che dopo sarebbero stati per sempre e solo i loro.
Rivedeva i suoi occhi curiosi di scoperte e pensava a come l’aveva sempre assecondata anche quando lo spunto per un luogo da vedere poteva derivare dal caso.
Il retro della banconota da 500 marchi fu quello che li portò fino al Castello di Burg Eltz vicino a Coblenza e al corso della Mosella.
Stava in un nulla, sperduto in un bosco, senza alture in posizione strategica o passaggi fluviali da dover sovrastare e proteggere. Stava lì da secoli a raccontare la sua storia di dimora signorile del principe che aveva deciso di abitarci. Non li deluse. Non succedeva mai che la realtà, anche quella a cui si era arrivati per caso, portasse delusione.
Telç,fra Brno e Praga, l’avevano vista per la prima volta sulla copertina di una rivista di viaggi. Ci arrivarono in un pomeriggio di fine estate e si ritrovarono in un mondo a parte, senza auto e senza rumori molesti, circondati solo da case merletto dai colori pastello datate 1600.
Con i loro abiti e i loro atteggiamenti da ventesimo secolo erano loro a sentirsi fuori dimensione.
La notte fu magica. La piazza era illuminata da lampioni a gas di vecchia foggia. Cenarono all’aperto, sotto quella luce tremolante e naturale, coccolati da un firmamento di stelle che sembrava di poter toccare.
Qualche figura si aggirava nella piazza, sulle facciate delle case ombre, che apparivano e scomparivano rapidamente. Con un po’ di fantasia si poteva sentire arrivare un rumore di passi felpati e di broccati che frusciavano a contatto con le pietre. Il gran ballo alla Residenza del principe doveva avere avuto inizio e i nobili ritardatari si stavano affrettando.
Non ricordava come avevano scoperto Giethoorn in Olanda. Ormai non aveva più alcuna importanza.
C’erano arrivati e ne erano rimasti conquistati. Era un paese piccolo piccolo, quasi un’oasi nel piattume della campagna olandese.
Da lontano si vedeva solo il ciuffo degli alberi che faceva corona al villaggio. Da vicino ad attrarre l’attenzione erano i canali, i piccoli ponti di collegamento fra le case, i giardini ricchi di fiori colorati che arrivavano fino a lambire l’acqua. Un piccolo angolo di paradiso. Fuori dal mondo e dai suoi ritmi incalzanti. I canali erano le strade, piccole barche silenziose al posto delle auto che correvano lontano, sulla strada principale alle nostre spalle.
Chiudendo gli occhi lo rivedeva mentre scattava le foto. Era lui che le faceva, lei pur non avendo perso la passione gli aveva lasciato di buon grado campo libero. Non servivano parole fra loro per dirsi che avevano fatto la scelta giusta arrivando fino a lì. Si intendevano con uno sguardo. Un gesto era un racconto e un commento.
Tutti e due avevano momenti in cui erano troppo emozionati per riuscire a trovare parole all’altezza di ciò che sentivano. Quindi si affidavano a silenzi in grado di dire tutto.
Sarebbe stato bellissimo pensò poter riannodare insieme i frammenti staccati di quella pellicola. Era una altalena di ricordi nella quale per fortuna erano le immagini gioiose e dolci a sgomitare per mettersi in mostra.
La colazione in una quasi alba sulla Promenade des Anglais con delle “tartes à la francaise”spropositate visto che ognuna valeva almeno 3 paste delle nostre .
La 500 ormai stremata sulla salita di Serravalle, con sulle spalle quasi 6000 chilometri, con cui tentammo di sorpassare un camion che pure andava lento, e dovette abbandonare l’impresa visto che tossiva e procedeva a scatti non sopportando più la differenza di ottani nella benzina con cui avevamo fatto il pieno in Spagna.
Avrebbe rivissuto tutto volentieri. Anche l’ansia e lo stress della vigilia. Era sempre elettrica mentre faceva le valigie e spesso e volentieri finivano di litigare. Era una di miccia corta, lei.
La mattina , saliti in macchina, lui doveva fare affidamento a tutta la sua pazienza. Lo sapevano entrambi.
Ogni volta era una litania di “guida con prudenza, vai piano, stai attento!”,che lui accoglieva in silenzio per poi ignorarla durante il viaggio. Tanto sapeva che arrivati a circa metà percorso , varcata la linea di confine fra il certo e l’incerto, il prima e il dopo da scoprire, lo stress sarebbe sparito come per magia .
Così era stato sempre. Ad eccezione di una volta.
Fossero stati insieme sul quel divano ne avrebbero riso ancora, mentre lo raccontavano ai nipoti. Lui sicuramente con lo sguardo bonario che gli apparteneva e l’espressione sorridente che non lo abbandonava mai.
Lo immagino mentre dice : ”Vedete questa nonna? Delle volte mi ha fatto proprio perdere la pazienza. Una volta più di sempre. Eravamo sull’autostrada fra Roma e Napoli e lei era agitata come non mai. Era tutto un vai piano, corri troppo, attento qui, attento là. Mi dava il tormento. Non ressi più. Mi diressi ad un’area di sosta , fermai la macchina e scesi dicendo.”Se vuoi arrivare a Napoli guidi tu , così la smetti pure di parlare e di rompere.”
Arrivammo a Napoli con la nonna che guidava e io che dormivo. Lei non era andata piano e per di più aveva continuato a parlare ancora per un bel po’.”
Uno sguardo di intesa con i nipoti avrebbe suggellato il tutto e l’attenzione si sarebbe spostata sulla merenda che li attendeva. 
Nell’ombra della sera che stava avanzando le sembro’ di sentirli ridere beati attorno a quella tavola e a quelle fette di torta.

Incontro del 19 gennaio 2022

con Cecilia Trinci

Ringrazio l’amica Caterina Del Panta per l’ispirazione e la consulenza

Il colore e la forma dei nostri passi:

Scarpe sognate, portate o desiderate, il rumore e la lunghezza dei nostri passi, passi incerti, decisi o lenti e pensati, passi scattanti o diversi l’uno dall’altro, passi conquistati, passi faticosi e affaticati, passi di quando il tempo era leggero o passi bagnati di pianto.

La vita nelle scarpe, nel camminare nel tempo con fatica o con leggerezza.

I passi della fuga e del gioco.

I passi senza scarpe, nudi e liberi sulla terra, fredda o calda, secondo le stagioni della nostra vita.

foto e oggetto di Lucia Bettoni