Viaggio turchese verso la Turchia: Vanna

                                                                 Marmaris – di Vanna Bigazzi

Della Turchia, solo il mare posso ricordare, ne ho un po` di rammarico, comunque non e` poco. Fu un viaggio in barca che non prevedeva soste in citta` o luoghi non vicini alla costa. Il porto di Marmaris fu il nostro punto fermo. Ricordo quindi il turchese delle acque, splendide colline quasi montuose e vaste pinete a contenere il porto. Infatti Marmaris e` la traduzione di “Perla di mare”, una perla racchiusa nella propria ostrica. Dicono che il turchese sia il colore degli abissi, dell’inconscio, il luogo che da` origine alla vita. La pietra del turchese e` anche la pietra del viaggiatore dalla mente lucida. Ricordo anche l’affascinante bazar coperto dove si respira tutta l’essenza del “commercio turco” ma se e` vero che i viaggi rappresentano noi che viaggiamo, ecco, allora posso dire che quel viaggio per me e` stato un tuffo nell’azzurro piu` intenso e niente altro.

Dall’India per rinascere: Laura

Nascite – di Laura Galgani

Appena passata l’Himalaya il Boeing 747-300 dell’Air France inizia la sua discesa, planando quasi in silenzio. E’ notte e prima una poi un’altra si intravedono, fuori dall’oblò, le deboli luci dell’immensa periferia di New Delhi.  Dapprima di un fioco giallo sfocato, poi anche rosse e qua e là verdi. Un gigantesco albero di Natale sdraiato nella terra dei Veda e delle mille divinità, alcune dalle molte braccia.

Il computer di bordo, montato nello schienale del sedile davanti al mio, dà l’altitudine e la temperatura. Via via che l’enorme aereo dal ventre gonfio di passeggeri internazionali si abbassa, la temperatura esterna cresce vorticosamente. Se a 11.000 metri erano -70 gradi, a 2000 metri di quota sono già 25. Quanto sarebbe stata, una volta a terra, il 17 aprile? Mi spaventa pensarci.

Atterraggio perfetto, clic-clac delle cinture di sicurezza che si sganciano. “Welcome to India. Thank you for choosing air France”.

Un’ultima occhiata prima di alzarmi dalla poltrona: ore 00.12, + 42°.

Fuori dall’oblò le luci arancioni dei mezzi aeroportuali mi proiettano d’improvviso nel colorato mondo là fuori.

Eccola, l’aria calda, umida, pregna, carica di odori di questa metropoli, dove sono venuta ad incontrare mia figlia.

Già prima del portellone spalancato, mista all’aria condizionata, mi investe.

Sulla scaletta non ho più scampo: mi avvolge una vampata quasi liquida, tanto è densa di umidità, di vapore, di particelle e di odori. Provo ad allargare i polmoni, a respirare profondamente, ma è difficile. Il corpo si fiacca, le gambe si fanno pesanti. Ma non c’è tempo per fermarsi, bisogna raggiungere l’uscita, attendere al controllo documenti, avere pazienza.

Mi concedo un attimo per osservare l’aeroporto: un semplice parallelepipedo in cemento senza alcuno stile né pretesa. Una delusione, per essere quello di una metropoli.

Ma è già il momento di cercare un taxi: nel vocìo e nella confusione di chi aspetta qualcuno mostrando nomi su dei cartelli scritti a mano, riesco a trovare un taxi “ufficiale” e a dire al conducente il nome dell’Hotel prenotato. Gli chiedo quanto ci vorrà ad arrivare, mi dice “50 minutes” ma so già che non è vero: ci vorrà quasi un’ora e mezzo per arrivare all’albergo.

Appena lasciato l’aeroporto mi avvolge il buio della strada, mai illuminata da un lampione mentre attraversa una pianura desolata, lambita da casupole fatte di pannelli di lamiera e cartoni, con fuori bidoni per la raccolta dell’acqua piovana. D’un tratto scorgo un elefante, enorme, grigio scuro, rugoso, dalla pelle flaccida, che con passo ritmato e lento percorre di lato la nostra stessa strada. Un ragazzino in maglietta rossa e pantaloncini verdi, scalzo e con in mano una piccola frusta, gli dà la direzione del lento incedere.

Lo sconcerto è più forte della paura di investirlo. Il taxista lo vede, non si agita affatto, e senza neanche mettere la freccia lo supera. Mi volto a guardarli, incredula, ma il buio li ha già inghiottiti. Solo un bagliore, forse il riflesso della luce dei fari, balugina per un attimo sui finimenti a loro modo preziosi della grande testa dell’elefante.  

Dopo buche innumerevoli e altrettanti scossoni si entra in città: gli eleganti palazzi moderni, sedi di ambasciate e ministeri, ma anonimi, in stile neoclassico, potrebbero essere a Washington o a Londra, non svelano dove siamo.

Il taxi è una vecchia auto di fabbricazione britannica, di sicuro ha servito la corona negli anni di Churchill. Niente aria condizionata, finestrino aperto, lui, io preferisco di no.

Il conducente è un Sikh, si riconosce dal turbante e dalla lunga barba ben curata. Imperturbabile, tiene lo sguardo fisso sulla strada e non fa domande. Meglio, sono troppo stanca per fare conversazione in un faticoso “Indian-English”.

Sono le due passate quando il taxi attraversa il giardino ricco di palme dell’hotel, bianco e in stile coloniale.

Scendo, di nuovo l’aria carica di umidità mi investe e mi schiaccia. Qui almeno sa di terra, di piante sconosciute, di fiori colorati. E’ un’aria gravida, quasi un’immensa, densa placenta, in cui circolano particelle di sostanze misteriose che ancora non so riconoscere.

Entro nella hall, in perfetto stile coloniale: tutto è color ambra e la radica riveste il desk della reception, esageratamente grande. Tappeti intessuti di arabeschi sui toni del rosa attutiscono i miei passi. Le luci delle lampade basse si riflettono negli specchi e amplificano la sensazione di luce dorata che proviene dalle cornici. L’aria però è cambiata: si è fatta fresca, anzi, fredda, secca, il brusco sbalzo mi infastidisce.

Salgo in camera, al secondo piano. Il corridoio è ampio, ha le stanze tutte sulla sinistra, mentre a destra si aprono finestre alte, che terminano in un’arcata, e guardano sul rigoglioso giardino con la piscina, illuminato da lampade in ferro battuto ottocentesche.

La camera è in realtà un appartamento con un grande salotto, una camera da letto e un bel bagno. Peccato che l’aria sia gelida, secca, e il condizionatore sia rumoroso. Passerò quel che resta della notte a coprire di giornali le bocchette del freddo mostro.

Lascio le valigie ai piedi del letto e mi metto al lavoro per chiudere la bocca gelida. Dopo, in bagno mi lavo le mani e mi bagno il viso, non una ma diverse volte. Non mi asciugo. Vado nel corridoio e apro la finestra. Fra non molto sarà l’alba. Mi sporgo un po’ e chiudo gli occhi. Voglio respirare quell’aria ancora calda delle cinque del mattino. Sento con gli occhi chiusi la luce della luna quasi piena illuminarmi il viso. Sento i versi degli uccelli a me misteriosi narrare storie sconosciute. Aspiro profumi di spezie, di cibi, di fiori, di piante e anche di sangue e di smog. Sì, perché questa è la terra d’India. E più respiro profondamente più sento il mio corpo espandersi, farsi accogliente, gravido.

La mia maternità adottiva sta per compiersi. Il tempo sta per scadere, il frutto di una scelta sta per nascere. Così come ho dato alla luce il mio figlio naturale, fra poco farò nascere anche te, da questo stesso mio corpo, figlia mia.