Non avevamo scelta – Ricamo e libertà: Nadia

Le ragazze degli anni 60 – di Nadia Peruzzi


Erano i primi anni 60 quelli in cui anche il tappeto d’asfalto dell’autostrada aveva iniziato a collegare il nord e il sud del paese e le prime macchine cominciavano ad avere prezzi più popolari e le utilitarie entravano anche nelle case dei lavoratori.  Pagamento a rate,  come per tutto il resto,  su quello non c’era dubbio.
Nell’aria cominciavano a farsi sentire le canzoni dei complessi che soppiantavano man mano le vecchie glorie del bel canto italico.  Erano gli anni in cui nella sala da ballo del Circolo Ricreativo e Culturale di Antella i big della canzone li potevi vedere da vicino,  se non toccare proprio.  Per noi erano sogni che si traducevano in realtà.  Noi che per anni nemmeno avevamo saputo come erano fatti,  noi che,  senza tv,  li ascoltavamo alla radio fremendo in attesa della proclamazione del vincitore di Sanremo.
Ma chi eravamo noi?
Eravamo le ragazze degli anni 60.  Mogli,   sorelle,  cugine, amiche.  Con i nostri vestiti di cotone a fiori stretti in vita,   con le passate sui capelli alla moda di Grease.
Noi che finita la scuola cercavamo un impiego alternativo a quello dei campi che stava iniziando a sparire insieme alle famiglie contadine che cominciavano a trasferirsi altrove,  e a quello della fabbrica che ci avrebbe portato lontano da casa per troppo tempo visto che le grandi fabbriche erano per lo più dall’altra parte della città.
Noi che cercavamo strade per la nostra indipendenza economica e per integrare in qualche modo il bilancio delle nostre famiglie e ci siamo imbattute nel lavoro a domicilio e nel ricamo.
Era fiorente all’Antella in quegli anni.
Non c’era casa che non avesse almeno una ricamatrice,  guantaia o una delle decine e decine di attività legate a quella tipologia di lavoro.
I Barbieri,  i Ceccherini,  i Migliorini,  le Ferrini alcuni dei nomi di chi ha fornito il lavoro e fatto fortuna con il nostro lavoro e la nostra maestria.
Noi passavamo il tempo chinate a finirci gli occhi.  Ora dopo ora,  giorno dopo giorno.  Spesso era difficile ritagliarsi lo spazio libero del tutto anche nelle feste comandate .
Toccavamo stoffe delicate e vaporose che avevamo paura di sciupare da quanto erano belle.
Il telaio era il loro letto.  Le tiravamo,  le sistemavamo con amorevolezza cercando di eliminare qualsiasi piega anche minima.  Poi arrivava la carta col disegno e sulla stoffa comparivano quelle linee di colore azzurrino . Fiori,  cifre,  lettere,  spighe di grano,  rose,  fiordalisi,  mughetti,  anemoni . La scelta dei colori e del filo era la stoffa stessa ad orientarla,  ma più spesso a decidere era la commessa che si riceveva al momento in cui si andava a prendere il lavoro.
Poi i punti fitti fitti come note su uno spartito musicale.
Un lavoro spesso chiuso nelle mura domestiche,  nei ritagli di tempo delle incombenze casalinghe,  e in molti casi notturno.
Dove era possibile il telaio era luogo di ritrovo.  Se vicine di casa ci mettevamo d’accordo,  trovavamo un punto comune,  soprattutto nella bella stagione,  ognuna portava una sedia e un telaio e il gruppo era fatto.
Era un piacere avvicinarsi a quei gruppi per vedere quelle mani che correvano sulle tele, quegli occhi vivaci, quella sapienza che si traduceva filo dopo filo in opera d’arte.
Correvano le vite attorno a quei telai. Le nostre e quelle degli altri.
Gli amori che stavano per nascere, quelli finiti e passati, le nascite, le malattie, le morti.
Era un fiorire di storie sui personaggi che in una comunità non mancano mai . Da noi il Pini e la Bianca , sua moglie, Angiolino che in un certo momento si mise a passeggiare per il paese con una capretta, o il Nanni gran simpaticone, aiutavano a tirar fuori dai cassetti dei ricordi aneddoti che in breve erano diventati patrimonio collettivo.
Anche i grandi eventi della politica si affacciavano a quei crocchi. Erano gli anni delle passioni forti e di grandi idealità e il senso comune ne era pervaso.
Non mancavano nemmeno i racconti sui big della canzone, o i riferimenti ai fotoromanzi con le loro storie e gli attori che ne erano protagonisti e facevano sognare.
Intanto le mani correvano su quei rasi, su quei lini , su quelle organze di seta, su quei cotoni leggeri. Anche ad un occhio di bambino come il mio di allora giungeva l’eco del capolavoro.
C’è voluto del tempo prima che avessimo coscienza del fatto che quei nostri capolavori giravano per il mondo, arrivando a destinazioni lontane e lontanissime. Il nostro orizzonte all’inizio lo immaginavamo limitato al tratto breve che ci separava da chi ci forniva il lavoro, e andava non molto oltre quello.
Le case dei signori a Firenze e provincia o in qualche altra città italiana.
Lo stare insieme alleggeriva la fatica. A volte dava l’idea di una festa , soprattutto quando ci si poteva riunire fuori casa, nelle corti, sotto gli alberi del viale.
Festa non era . I pezzi che prendevamo dovevano essere completati in un tempo determinato e non c’era ritardo o giustificazione che potessero essere accettate. Anche la malattia non aveva tutele. Le opere d’arte si traducevano in oro per chi dava il lavoro mentre dall’altra parte spesso i compensi erano del tutto inadeguati alle ore e al lavoro che ci veniva richiesto. In fin troppi casi nemmeno i contributi per la pensione erano previsti, tanto meno pagati.
Noi ragazze degli anni 60 dovemmo attendere fino 1973 che il Parlamento varasse una legge sul lavoro a domicilio come forma di lavoro subordinato e soggetto quindi ai doveri ma anche ai diritti del caso. E come per tanti altri settori il miglioramento non avvenne per grazia ricevuta ma dopo lotte e impegno collettivo.
Noi che eravamo ragazze negli anni 60 abbiamo visto un paese in ebollizione, in grande cambiamento e alla ricerca della sua modernizzazione.  Abbiamo attraversato tutto questo mettendo in campo i nostri sogni, le nostre aspettative, la nostra voglia di fare e collezionando anche non poche delusioni e soprusi.
Sappiamo di aver percorso la vita compiendo scelte. Piccole o grandi tocca a tutti farle. Dovessimo fare un bilancio in merito alla condizione di lavoro, pur tenendo conto di tutto quanto ci siamo detti fino a qui a volte c’è capitato di chiederci se in fondo la strada che abbiamo intrapreso non fosse stata segnata anche dalle circostanze e dalle occasioni che c’erano o non c’erano allora.  E il dubbio che resta è che ci si siamo dovute adattare in un modo o nell’altro. In somma e in fondo . La sensazione a distanza è che non avevamo poi tutta quella grande scelta che la visione romantica del mondo del ricamo può far balenare.

La stanza sospesa: Nadia

La stanza sospesa – di Nadia Peruzzi


Se mi chiedono come stai in questo periodo, rispondo quasi sempre con un “ se deve andare peggio, che vada così come sta andando ora!”.
Interlocutoria ma sincera, data la cappa di incertezza che ci opprime da un bel po’.
Traducendo tutto questo in una stanza mi è venuto da pensare ad una stanza in cui prevalga un sensazione di sospensione. Dei pensieri, dei sogni, dei progetti, dei piani a medio o lungo termine. Si vive alla giornata.
La mia stanza è una stanza sospesa, fra un ieri scombussolato alquanto dal presente e un domani che non sappiamo quando tornerà a regalarci di nuovo tranquillità e piena di libertà.
Cerco di viverla senza ansie particolari , prendendola un po’ così come viene. Se dovessi pensare al tempo che scivola via e che non si riagguanta più o in termini di “ma quante albe e tramonti mi potrà capitare di vedere ancora?”, sarebbe depressione assicurata.
Invece nel carpe diem si prende atto di cio’ che c’è, del calore che trasmette la stanza dove passo buona parte del mio tempo, della luce che l’attraversa e la rischiara, del movimento e della confusione con cui i bambini la riempiono e la ravvivano ogni volta che sono con me, delle voci che arrivano via cavo e risuonano spesso come un rumore di fondo che ha fin troppo di ciò che si deve sapere ma non è sempre detto che sia la verità.
Il qui e ora solo io, diventa nello stesso angolino un noi nei mercoledì dei nostri incontri,vicini pur da lontani, a contatto se non di gomito, di certo di spirito e di sentimento.