Festival delle Storie: Carla

In questo Festival leggeremo storie parallele. Tutte partono dallo stesso spunto e da alcuni obblighi: Il luogo (lago), le parole: sospiro, zuppa di porri e suora

Un altro caso del grande Monsieur Poirot – di Carla Faggi

-Monsieur Poirot, disse l’albergatrice, il signore la stava aspettando già da molte ore.

-Oh! bonjour, mon ami, l’aspettavo per domani, ma venga che andiamo a passeggiare, così mi spiega il motivo della sua visita, Madame Clory cosa ci propone per pranzo? a bon, ottima la zuppa di porri, mon ami pranza con me, vero?

Monsieur Clark sospirò, allettato dal profumo che già si sentiva provenire dalle cucine, i porri, le patate, un po’ di cipolla, formaggio uhm -sarà un piacere monsieur Poirot!

Si incamminarono e si sedettero su una panchina che si trovava al centro di un terrazzamento a sud del grande lago di Windermere, nel nord dell’Inghilterra. La nebbia era fitta ma il panorama era comunque piacevole; il colore dell’acqua verde grigio sapeva di freddo, la nebbia sembrava voler raccontare di fate e gnomi, Poirot si aggiustava i baffi ormai fradici.

-Mi dica in cosa posso servirla, mon ami!

-Si certo, ho un disperato bisogno del vostro aiuto monsieur. Deve sapere che mia sorella è scomparsa, la Madre Superiora dice che sono due giorni che non la vedono.

-La Madre Superiora?

-Oh! Si, Poirot, mia sorella è una novizia de la Concregation de Jesus, mi è rimasta solo lei della mia famiglia e ora sono due giorni che non si hanno sue notizie.

-Bon, mon amie, Poirot è il miglior investigatore del mondo, la ritroveremo. Nel frattempo torniamo verso l’albergo che la nebbia del lago si fa sempre più appiccicosa, inoltre le mie celluline grigie hanno bisogno di nutrimento per funzionare.

-Quand’è che ha sentito sua sorella l’ultima volta?

-Proprio una settimana fa, disse sospirando di nuovo tra una cucchiaiata e l’altra della saporitissima zuppa, era preoccupata perchè la notte sentiva strani rumori provenire dal giardino e non capiva cosa fossero.

-Aspettiamo il Capitano Hastings, appena arriva andremo subito al convento, exellente questa patata, veramente squisita!

-Qua dietro sembra di essere in una palude, esclama Poirot alquanto irritato alla vista delle proprie scarpe di pelle lucida totalmente infangate, come è possibile che…e questo cos’è? Sembra, anzi è una catenina con crocifisso! L’avrà perduto la nostra novizia scomparsa. È passata di qua, ecco…ecco qui ci sono delle tracce, Capitan Hastings venga , vediamo dove portano. Alla legnaia! Entriamo, è chiuso, sfondi la porta, bravo Capitano! Qua non c’è nessuno, ma…aspetti c’è stato però qualcuno, il giaciglio è ancora caldo, guardi là ci sono due persone che stanno correndo verso la boscaglia, una sembra una donna, ma..è la suorina, la sorella di monsieur Clark, fermi! Fermatevi! Bravo capitano li tenga bloccati.

Ed ora spiegateci tutto.

-Prego accomodatevi tutti, come dovreste ben sapere spesso la soluzione ai casi più misteriosi è più semplice di quanto si pensi, basta  far funzionare le celluline grigie del sottoscritto Poirot, il più famoso investigatore del mondo!

La signorina Joise novizia al convento si era ormai stancata della vita monacale, vero signorina? Ed in particolar modo di essere trattata in malo modo dalla Madre Superiora, n’est pas signora Madre Superiora? Quindi la signorina Joise inventa al fratello messier Clark qui presente che era preoccupata per strani rumori sentiti la notte nel giardino, dando adito alla possibilità di un rapimento così nessuno avrebbe pensato ad una sua fuga d’amore col giardiniere e nel contempo non avrebbe deluso l’amato fratello. Ma lei signor giardiniere non aveva preparato ancora il piano di fuga e quindi aspettavate nella legnaia il momento più adatto per fuggire.

Finchè Poirot ed il capitan Hastings non vi hanno sorpreso!

Venga capitan Hasting, il caso è risolto vediamo cosa ci ha preparato per cena l’ottima Madame Clory!

Commento al Sogno dopo la lettura del Festival: Vanna

Mai stuzzicare uno psicanalista con un sogno – di Vanna Bigazzi

                                                           

In quello “stato intermedio” fra sogno e realta`, piu` sogno che realta`, ma anche la realta` e` sogno, in questo caso, perche` “i passetti del gatto non li avevo piu`”. Stanze vuote come i vuoti che nella vita non si sono potuti riempire: rimpianti, quasi sensi di colpa, come amorose coltri a lenire il dolore. “Il suo ultimo Natale”: come non festeggiare il proprio irrinunciabile spazio, quello a cui abbiamo assolutamente diritto, il proprio personale… Un desiderio di liberarsi da quest’ansia, ma le coperte delle proprie “resistenze” sia pur larghe, lo impediscono. La parte istintiva diceva: “Dormi… sei protetta dal naturale impulso, non ti preoccupare…”. (Il gatto e` inequivocabilmente l’istinto). Un mercato di cose inutili ti aveva distolto ma era necessario ritrovare la via di casa, quella indicata dalla propria natura. Non piu` “il gioco antico” a ipnotizzare la realta` ma la necessita` di astrarsi, almeno per un poco, in una bolla bianca che ti difende insieme all’altra parte di te. Una suora, quella tua interiore, senza vocazione, con un rossetto da mettere di notte, al chiarore della luna: una trasgressione all’interno della preghiera, un desiderio di cose lontane, sfumato da un velo celeste. Un alter-ego, la sorella, desideroso d’infanzia, di quel “fanciullino” che sempre protegge. La protezione anche delle cose antiche che ci hanno rassicurato da bambini, gli odori, i gesti immutabili, certi. Poi il risveglio: “una fetta di luce fresca riusci` a colpirmi gli occhi”. La luce e` FRESCA perche` il sogno ha alleggerito l’inconscio attraverso un percorso a ritroso “guaritore” in cui e` avvenuto il ricongiungimento salvifico con le sicurezze primarie che, solo l’infanzia, con i suoi impulsi genuini e con la forza della sua natura, puo` rimettere in vigore.

Cara Cecilia, il tuo brano che tocca il sovrasensibile, mi ha suggerito questa interpretazione, senz’altro non richiesta, ma forse interessante ed utile giacche` di “sogno” si parla. Mi scuserai se sono stata “Interpretativa” e per questo, se credi, non importa renderlo pubblico in quanto personale. Rimarra`, se credi, uno scambio fra di noi. Mi e` piaciuto comunque esternartelo perche` bellissimo. Un caro abbraccio Vanna.

Festival delle Storie: Carmela

In questo Festival leggeremo storie parallele. Tutte partono dallo stesso spunto e da alcuni obblighi: Il luogo (lago), le parole: sospiro, zuppa di porri e suora

Per non lasciarsi più – di Carmela De Pilla

foto Pixabay

-Sono venuto per ringraziarti Suor Maria, se non fosse stato per te avrei perso la partita più importante della mia vita.

-Ho fatto solo quello che mi ha suggerito il cuore, niente di più, ti conosco da troppo tempo e so che i tuoi sentimenti sono sinceri, vieni ti offro un thè così mi racconti.

Si sono seduti uno difronte all’altra, Suor Maria gli prese le mani come ai vecchi tempi, lo guardò negli occhi e disse – Coraggio racconta, se ne parli quel momento ti entra dentro e lo senti ancora più tuo.

– Ti aprirò il mio cuore come ho sempre fatto Suor Maria, quando sono entrato nella sala d’attesa era seduto sulla solita poltrona di vimini, un tuffo al cuore mi ha annebbiato la vista, sul suo viso un disagio che cercò di camuffare con un sorriso appena accennato poi si alzò e con passo lento e incerto si avvicinò a me e successe una cosa straordinaria, le nostre mani si avvinghiarono l’una all’altra così forte che sembrava non volessero più lasciarsi.

Quella stretta forte e decisa, ma allo stesso tempo tenera e rassicurante mi aveva riportato al momento in cui ci siamo lasciati e soprattutto al motivo per cui ci siamo lasciati e mi sono sentito un traditore verso me stesso e verso di lui.

Abbiamo vissuto due giorni indimenticabili, sai? Lontano dagli occhi indiscreti della gente che ci guarda solo per la necessità di ficcare il naso negli affari degli altri.

Io lo osservavo senza mai saziarmi della sua presenza forse perché il suo abbigliamento sportivo metteva ancora più in evidenza il suo aspetto giovanile o più semplicemente perché mi era mancato tanto…avevamo voglia di fare due passi così siamo usciti.

Un’atmosfera magica e quasi malinconica, complice di quel momento così intimo e finalmente senza veli li avvolse, la nebbia aveva attenuato il blu del lago e del cielo e quell’aria umida sembrava volesse proteggerli, tutto sembrava più lento perfino il loro respiro, assaporarono ogni attimo e mano nella mano si avviarono verso quel lago amico che era stato testimone del loro amore

La giornata si avviava verso quel momento che preannuncia il buio della notte e i limoni come tante candele accese davano una nota di allegria, quel giallo intenso che spiccava  contro il cielo plumbeo stampò sui loro volti un timido sorriso.

-Gli ho detto che sei stata tu a dirmi dove potevo trovarlo, gli ho detto anche che non lo avevo dimenticato poi gli ho messo la mano sulla spalla e gli ho detto

– Ho lasciato mia moglie, se vuoi…

Lui mi ha guardato con un sorriso perso nel vuoto, ma così radioso che il volto s’illuminò e allora ho capito, in quel momento abbiamo tirato un sospiro ricco di tante parole non dette e ci siamo sentiti finalmente liberi di  entrare nel nostro sogno.

Sapevo che lui andava matto per la minestra di porri così avevo detto alla proprietaria dell’albergo di prepararla per due e prima di entrare ci siamo stretti in un tenero abbraccio e ci siamo promessi che non ci saremmo più lasciati.

-Hai fatto la cosa giusta Francesco, ti sei liberato di una spina che avrebbe provocato solo tanto pus, io sono una religiosa e non dovrei nemmeno dirle queste cose, ma ora non è la suora che ti parla, ma Maria, io so che ognuno di noi ha il compito di cercare la propria felicità e tu con il tuo coraggio la stai cercando, altrimenti che ci stiamo a fare su questa terra?

-Ti voglio troppo bene, Suor Maria.

Sogno: dopo le letture del Festival

Il Lago – di Cecilia Trinci

Non era un lago che conoscevo. Forse riassumeva più laghi della mia storia, come spesso succede nei sogni.

Non lo vedevo tutto, ma un piccolo pezzo che sfumava nell’aria di latte, biancastra, quasi grigia a tratti.

In primo piano una figura irriconoscibile, che mi tendeva la mano.

Non so perché la stringevo, ma la sentivo forte, rassicurante. Mi tirava leggermente verso di sé. Dietro, alle sue spalle, l’acqua di lago opaca.

Piano piano, dal grigio, apparivano altre figure, ombre in controluce, una dopo l’altra, lentamente.

A questo punto ho capito che era il Lago di Como. Non era come lo ricordavo, non era una stagione definita, forse primavera, perché eravamo tutti a piedi nudi nell’erba. Lo sapevo e basta.

Tra le lenzuola potevo sentirla, l’erba che mi rinfrescava sotto le coperte.

Sentivo anche, o mi pareva, i passetti leggeri del gatto che non avevo più. E’ lui, mi resi conto di pensare mentre dormivo e sentivo anche sgranocchiare, in lontananza…

Volevo sapere ancora, come fossi in un film e continuavo a dormire. La coperta ebbe un abbraccio, come una carezza lieve.

Le facce presero forma, ma non erano quelle che mi aspettavo. Il lago svanì piano piano, mentre entravo in uno stretto corridoio con mura di pietra su cui si affacciavano porte aperte e stanze vuote finché apparve mia sorella che mi rimproverava per non aver saputo festeggiare il Natale come si deve, con cappellini rossi e luci multicolori, per far contento nostro babbo, che “lo sai, no, che è il suo ultimo natale?”

Sentivo quel sentimento di inferiorità, quella mortificazione di non saper accontentare e avrei voluto svegliarmi, ma le coperte tenevano e il buio era ancora completo.

Le zampette di gatto tornarono ai piedi del letto. Dormi, dicevano, sono io qua con te. Mi sentii sospirare, girandomi su un fianco e ritornai nella storia.

Uscii a cercare le luci e un grande mercato natalizio mi accolse facendomi perdere. Era pieno di scatole di cartone, di taglieri da cucina, di bricchi di plastica bianca di ogni dimensione. I banchi erano un’immensa distesa di mare calmo, in attesa. Scelsi qualcosa, ma non so cosa, travolta dai miei desideri e cercavo la strada per tornare. Mia sorella mi raggiunse e si unì a me nella ricerca di consolanti oggetti inutili. Ora eravamo tornate a chiacchierare e ridere, come incantate da un gioco antico. Lentamente i banchi si stavano dissolvendo, lasciandoci isolate in una bolla bianca. Una suora ci chiamò da lontano, per nome, ognuno il nostro, ci sorrise sotto il velo celeste, ed era giovane, una ragazza come tante, senza vocazione. Cercava un rossetto da mettere di nascosto nelle notti di luna, quando, aspettando le preghiere del mattino pensava a chi era rimasto lontano.

Avevamo ripreso a camminare vicine, io e mia sorella, la mano mi stringeva ancora, ma non era la sua, lei saltellava, avanti e indietro, contenta. La mano era calda, grande, e diceva ti proteggo, ti proteggerò sempre. Alzando gli occhi vidi una luce accesa a una finestra antica, una donna tagliava porri per la zuppa, gesti sicuri, un coltello lungo, che brillava nella luce grigiastra che piano piano si alleggeriva.

Pensai che stesse sorgendo il sole. Le zampette tornarono a camminare in camera, o così mi pareva, o così volevo credere.

Faceva così, un tempo, quando voleva svegliarmi.

Altri rumori lievi stavano arrivando, senza spiegazioni, mentre una fetta di luce fresca riuscì a colpirmi gli occhi.

Li aprii, mentre ricomponevo la stanza intorno a me, le coperte erano calde e leggere.

Nell’aria un profumo allegro. Qualcuno aveva fatto il caffè.

Festival di Storie: Sandra

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Una lettera dal cuore – di Sandra Conticini

Caro Giovanni,

come stai? Non capisco il motivo per cui sono quasi due mesi che non ti fai più sentire. Sì abbiamo discusso, ma non mi sembrava un argomento per cui ti saresti  arrabbiato tanto. Ti avevo chiesto solo se andavamo a festeggiare la nostra amicizia al piccolo lago di Piediluco. Ho tanti bei ricordi di quel luogo, sono andato per diversi anni a fine  ottobre, perchè avevo bisogno di pace lontano dal caos cittadino e quel  paesaggio mi rilassava.  La mattina stavo ore a guardare i filari con quei colori che, andavano dal rosso vermiglio, all’arancio, all’oro al marrone, e l’erba sembrava una tavolozza di colori ancora più vivi.

L’albergo lo so  era molto semplice, non aveva nessuna stella ma era pulito, dovevo soltanto dormirci e fare una doccia a fine giornata. Ormai mi sembrava di essere a casa  ed anche i proprietari non dico che mi aspettassero, ma quando non mi hanno più visto hanno continuato a contattarmi per diverso tempo.

Tutte le mattine uscivo e facevo lunghe camminate  sempre solo, e spesso raggiungevo il piccolo convento dove la zia, suor Letizia,  mi invitava a mangiare la deliziosa zuppa di porri, che mi ricordava i sapori di casa e dell’infanzia.

Ricordo che  quel giorno si annunciava molto umido e nebbioso, avevo dormito male, comunque mi avviai per fare la mia passeggiata giornaliera nonostante fossi  stanco, ma dopo circa un’ora di cammino decisi di tornare piano piano all’albergo, perchè non stavo bene. Entrai,  mi venisti incontro tendendo la mano e stringendola in maniera così vigorosa, che rimasi senza fiato, feci un sospiro e cercai di sorridere, e tu con il tuo sorriso mi dicesti: -Piacere sono Giovanni, finalmente ci conosciamo!-

Mi passarono tutti i mali, non ci volevo credere, avevamo  fissato diverse volte per incontrarci, ma per un motivo o per l’altro   gli appuntamenti  non erano andati a buon fine così, anche questa volta ci speravo, ma non ci credevo. Mi sembrava di sognare, per me era importante che tu fossi venuto e rimasto con me in quel posto che io  adoravo. Da allora abbiamo fatto tanto belle cose e nuove esperienze insieme, quindi mi sembrava una bella idea festeggiare insieme al lago di Piediluco dove ci eravamo conosciuti. Forse c’è qualcosa che in tutto questo tempo non ho capito o ti ho fatto qualcosa che non dovevo?

Ho questi dubbi che mi girano per la testa, ti prego fammi sapere qualcosa così che possa tranquillizzarmi.

Puoi chiamarmi quando vuoi, per te ci sarò sempre a qualunque ora del giorno e della notte.

Un abbraccio tuo

Marco

Festival di Storie: Lucia

In questo Festival leggeremo storie parallele. Tutte partono dallo stesso spunto e da alcuni obblighi: Il luogo (lago), le parole: sospiro, zuppa di porri e suora

Lettera a un’amica – di Lucia Bettoni

foto Pixabay

Vieni amica mia, dammi la mano
Sono cinque anni che ti aspetto
Ti ho pensata ogni giorno e ogni giorno ho sperato
È stato un lungo sospiro, un lieve sospiro che mi ha accompagnata ad ogni risveglio
Vieni amica mia, andiamo vicino all’acqua
Sediamoci sulle rive del lago
Lo conosci vero?
È il mio piccolo lago, poco più grande di una pozza, un lago piccolo ma grande come il mio cuore
Sediamoci qui, sulle sue sponde, nella solitudine di una campagna bellissima
Abbiamo tante cose da raccontarci
Si lo so , sei diventata brava a cucinare
Qualcuno mi ha detto che finalmente hai realizzato il tuo sogno: cucinare per gli altri e servire i tuoi piatti in modo speciale
Posso vedere le tue tovaglie fiorite e i tuoi piatti colorati
So molto bene quanto sei brava a preparare la tavola e tu sai bene quanto io apprezzi questo
Ricordo l’ultima volta da te, quando mi hai servito una zuppa di porri : l’avevi fatta proprio per me perché sapevi quanto io l’amassi
Hai servito la zuppa in ciotole bianche un po’ alte con manici a forma di fiore
Era buonissima , il suo sapore e il suo profumo hanno scaldato il mio cuore per cinque anni
Ho tante cose da raccontarti amica mia e questo lago le conosce tutte
Ti ricordi vero, che ho una zia suora? È molto vecchia e comincia a perdere la memoria, è quello che rimane della mia bella famiglia di un tempo
Ma è di oggi che voglio parlarti, è di domani che voglio parlare
Cinque anni sono tanti, le nostre vite sono andate avanti, però oggi ho sentito che tu sai tutto, che io so tutto, perché le nostre mani sono strette insieme da sempre per sempre

foto e disegno di Lucia Bettoni

Festival di Storie: Nadia

In questo Festival leggeremo storie parallele. Tutte partono dallo stesso spunto e da alcuni obblighi: Il luogo (lago), le parole: sospiro, zuppa di porri e suora

Fatto di sangue – di Nadia Peruzzi

“Fatto di sangue ad Orta San Giulio”, così titolava in tutte le edicole della zona la locandina del Gazzettino del lago d’Orta.
Luigi che aveva il negozio di barberia sulla piazza principale di Orta si era affrettato a comprare una delle prime copie del giornale e mentre iniziava a leggere, attorno a lui si era radunata una piccola folla.
Luigi era una vera istituzione da quelle parti. Nato e cresciuto lì sapeva tutto di tutti e per di più sull’isolotto di San Giulio continuava ad abitarci nonostante lo spopolamento sopraggiunto negli ultimi anni, soprattutto durante la stagione invernale.  Era naturale quindi che in diversi si radunassero attorno a lui in una circostanza come quella. Come se possedesse le chiavi giuste per aprire la porta sulla verità o, in sottordine potesse almeno avere disponibili elementi per capire qualcosa su quella incredibile vicenda.
L’articolo era a firma di un’altra istituzione della zona. La Nicoletta Strambelloni , giornalista e pubblicista locale di una certa fama , nonché moglie del sindaco in carica Onorio di Salaparuta.
L’articolo prendeva quasi tutta la prima pagina del giornale.
Il titolo era a caratteri cubitali: “Orrendo fatto di sangue in riva al lago d’Orta!”
“Ieri notte attorno alle ore 1, 30 nei locali dell’hotel Miralago di proprietà della signora Maria Bellosguardo, sono stati rinvenuti due cadaveri crivellati di colpi.
Dalle frammentarie notizie raccolte fino ad ora gli inquirenti non sono in grado di formulare nessuna ipotesi concreta che possa aiutare a far luce su questa macabra vicenda.
Sappiamo che una delle due vittime M. C.  abitava sull’isola da circa due anni. Era un solitario, dava poca confidenza. Si diceva fosse uno scrittore, ma chi aveva provato a far ricerche di titoli a lui attribuibili non era riuscito a trovare granché.
Spesso lo si vedeva con cavalletto e pennelli andare a cercare scorci del lago e delle montagne da ritrarre nei suoi quadri.
Nessuno in quei due anni era riuscito ad entrarci realmente in confidenza. Negli incontri si limitava a saluti di circostanza e apprezzamenti sul tempo e sul luogo. Nulla di più.
Nemmeno la signora Maria che cercava di stuzzicarlo ogni volta che si fermava a cena nel suo hotel, era riuscita a sapere qualcosa di concreto.
L’altra vittima, non aveva ancora un nome. Nella borsa che aveva con sé, non è stato trovato alcun documento utile alla sua identificazione.
Era arrivato sull’isola da poche ore. Aveva chiesto di M. C.  al receptionist dell’hotel. Aveva bisogno di incontrarlo urgentemente, aveva detto.

Lo avevano fatto accomodare nel salottino , davanti all’ampia vetrata che incorniciava il porticciolo, il lago, Orta appena lì di fronte e più lontano la linea brumosa delle montagne con le punte già spruzzate di neve. Lì sono stati rinvenuti  i corpi.
Seduti uno di fronte all’altro, come se continuassero ad essere impegnati in una conversazione.
A trovarli è stata la proprietaria dell’hotel, che ha immediatamente allertato polizia e carabinieri. Era scesa a controllare una delle persiane della porta finestra che consente l’accesso direttamente al lago e all’imbarcadero privato dell’hotel.
Dopo la bonaccia stagnante degli ultimi giorni, impregnata di umidità,  si era alzata la tramontana e l’imposta aveva cominciato a fare un baccano d’inferno.
Chi scrive ha provato a porre alcune domande alla signora Maria, ma né lei, né tanto meno gli inquirenti sono stati in grado di dirci cose utili a far chiarezza.
Tutto rimane avvolto nel mistero. Troppo presto per capire chi siano realmente le due vittime, per quale motivo possano essersi incontrate, chi possa aver compiuto un atto così efferato senza lasciare la minima traccia dietro di sé.
Nota inquietante il fatto che i colpi , almeno dieci a testa, siano stati sparati con un silenziatore. Questo fa pensare all’intervento di un professionista.
La domanda che cercano un po’ tutti di evitare di pronunciare apertamente, e comprendiamo perché,  è se possa essere ancora sull’isola o sia fuggito e chissà dove.
Dati i pochissimi elementi a disposizione allo stato attuale, per cercare di fare chiarezza prima possibile sulla vicenda e aiutare gli inquirenti nelle loro indagini , ci sentiamo di rivolgere un appello ai cittadini di Orta e di Orta San Giulio.
Chiunque abbia visto cose che possa ritenere di aiuto per le indagini,  si presenti alla locale stazione dei carabinieri, dove è stata attivata una task force che si occuperà del caso. Non abbiate alcun timore di esporvi perché sarà garantito l’anonimato di chi porta la sua testimonianza.
Vi terremo aggiornati man mano circa gli ulteriori sviluppi di questa vicenda . Ci auguriamo di poter uscire presto da questo incubo. La serenità dell’intera comunità ortana e dei suoi luoghi è turbata e non possiamo permettercelo tanto più in vista delle feste di Natale e Capodanno e della ripresa della stagione turistica.
E’ desiderio delle autorità locali, come si evince anche nel comunicato diffuso dal sindaco, che gli inquirenti svolgano al meglio e in rapidità il loro lavoro in modo che un pericoloso criminale possa essere consegnato alla giustizia prima possibile!”.
L’appello e la notizia stavano passando in tv , al tg regionale, proprio nel momento in cui Rebecca si stava svegliando. La tv era rimasta accesa in quello scampolo di notte, a quanto pare. Lo aveva capito dal bagliore che arrivava dalla cucina. La spense mentre stava passando il meteo che dava tempo soleggiato e temperatura tutto sommato mite,  per essere in prossimità del Natale.
Aveva fretta come ogni mattina, Rebecca. Si lavò e si vestì rapidamente e senza far colazione. Non c’era tempo.
La barca che arrivava ad Orta direttamente dall’hotel Miralago e solo per lei e per Luisa non le avrebbe aspettate per più di 5 minuti oltre l’orario previsto. Alle 7, 30 e con qualunque tempo , dovevano essere all’imbarcadero per arrivare all’hotel prima delle 8. Ci lavorava come cameriera già da tre anni, le piaceva molto e per questo , ogni mattina, si alzava di buon grado. Non quella mattina, però. Sul petto aveva avuto un macigno che le aveva disturbato il sonno. Era stata con gli occhi sbarrati per molto tempo prima di cedere.  “Non devo aver dormito più di mezz’ora”, si disse quella mattina.
Era ancora tutta frastornata e abbastanza impaurita.
Non era del tutto sicura, ma aveva più di una sensazione di aver visto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere. Le era rimasto addosso il dubbio che la sua presenza non fosse passata inosservata visto che era nel posto sbagliato in quello che avrebbe potuto essere anche il momento sbagliato.
Marco, il figlio della signora Maria, proprietaria dell’hotel l’aveva invitata a restare sull’isola, dopo il lavoro. L’avrebbe riaccompagnata più tardi ad Orta con la barca, le aveva detto.
Avevano vagato per l’isola nascondendosi negli angoli più reconditi e romantici. Si erano persi a guardare le stelle e a cercare Sirio. Al primo bacio di Marco aveva perso del tutto la cognizione del tempo. Tutto aveva perso importanza ad eccezione dei loro cuori che stavano battendo all’impazzata .
Non aveva prestato particolare attenzione nemmeno a quei flop flop flop flop, che aveva sentito ad un certo punto della notte. Le sembrava che fossero venuti dall’hotel. Era un rumore strano che non era stata in grado di riconoscere. Forse una imposta che sbatteva in lontananza, forse le fronde della magnolia a causa di qualche animale notturno. Nemmeno il fruscio sul prato che aveva sentito per un momento,  un po’ di tempo dopo i flop,  le aveva dato da pensare.
Sicuramente un animale uscito dalla tana e che si aggirava sul prato. Non poteva essere nient’altro.
Ci aveva ripensato solo dopo che Marco l’aveva accompagnata a casa. Non era stato solo il fruscio a colpirla. Con la coda dell’occhio aveva anche visto qualcosa. Come se fosse un fotogramma della pellicola di un film rivide la figura scura, coperta da capo a piedi. Si allontanava di corsa dall’hotel in direzione dell’imbarcadero. Trovò almeno la spiegazione dei flop flop flop. Dovevano essere i remi della barca che si allontanava. Che altro avrebbero potuto essere, si era detta!
Chissà se avrebbe dovuto dire a qualcuno di quella figura scura . Ci pensò su per concludere che non avrebbe parlato con nessuno. Avrebbe dovuto ammettere di aver passato con Marco quella serata . Nessuno dei due voleva ancora dire nulla della storia che stavano vivendo da qualche tempo.
Le rimaneva un dubbio che la portava a porsi delle domande .
“La figura che sono sicura a questo punto di aver visto, avrà notato anche me?Se così fosse, potrei,  senza saperlo,  essere in una situazione di pericolo?E perché mai?”
Correva così forte quella mattina, per arrivare in tempo, che non si accorse dei capannelli davanti alla barberia di Luigi, e davanti all’edicola. Non fece a tempo nemmeno a vedere la locandina che tappezzava un po’ tutte le pareti dei negozi che affacciavano sulla piazza dell’imbarcadero.
Salutò con un sorriso Luisa che era già seduta in barca e Goffredo pronto ad avviare il motore.
Nessuno dei due rispose al suo sorriso, ma pur sembrandole strano pensò al fatto che in fondo anche lei quella mattina aveva pensieri che non la facevano stare del tutto tranquilla . Si perse in quelli e non fece caso a nulla del resto.
Fu evidente che qualcosa non andava man mano che Orta San Giulio si avvicinava. C’era un intero mondo su quella minuscola isola di solito quasi deserta a quell’ora della mattina e in quella stagione dell’anno.
All’imbarcadero dovettero schivare le strisce bianche e rosse che delimitavano il punto di attracco di fronte all’hotel.
Altre erano visibili in vicinanza del posto dove lei e Marco si erano baciati la notte prima.
In hotel gran via vai di poliziotti e carabinieri, in divisa e in borghese
Nel salottino scorse almeno 4 o 5 persone tutte in camice bianco.
Con la coda dell’occhio vide , dietro a due in camice bianco, il signor Marcello, di cui dimenticava regolarmente il cognome, seduto esattamente nel punto nel quale lo aveva visto la sera prima, quando gli aveva portato il caffè.
Era sulla poltrona, rivolto verso il lago. Lo sguardo perso oltre la vetrata , quasi a cercare la linea dell’orizzonte nella luce rosata di quella mattina di inverno.
Di fronte a lui l’uomo che aveva visto solo poche ore prima. Era a capo reclinato, come se dormisse.
Fece fatica a comprendere ancora per qualche attimo.
Poi Marco la prese per mano e in biblioteca riuscì a raccontarle brandelli di notizie raccolti parlando con sua madre ancora sotto shock dopo il ritrovamento dei due cadaveri.
Erano stati uccisi senza alcuna pietà. Marcello aveva il viso sfigurato per i colpi. L’assassino li aveva concentrati tutti e dieci sul volto.
L’altro invece era stato colpito con una gragnuola di colpi al petto e al cuore. Dieci anche in quel caso e tutti andati a segno.
Rebecca ebbe un brivido. Aveva accompagnato lei nel salottino il visitatore sconosciuto.
Cercava il signor Marcello, le avevano detto alla reception e visto che ancora non era arrivato e lo aspettavano solo per cena, aveva avuto il compito di farlo accomodare proprio nel salottino. Aveva bisogno di un posto tranquillo per poter leggere i documenti che aveva con sé.
Il signor Marcello era arrivato dopo una mezz’ora.
Rebecca ricordava di avergli fatto un cenno di saluto mentre lui si stava avvicinando all’uomo che lo stava aspettando.
Era stato uno strano saluto fra loro, dovette ammettere quella mattina.
Negli occhi del signor Marcello aveva visto prevalere un certo stupore.  Lo sguardo dell’altro aveva un che di tranquillo e appagato come succede quando ci si sia scrollati di dosso un peso e un obbiettivo fosse stato raggiunto.
Non aveva scorto nessuna ostilità fra loro, né aggressività. Anzi tutto il contrario.
Avevano solo esitato un po’ prima di riuscire a darsi la mano. Poi le avevano mosse insieme  e ne era risultata una stretta vigorosa, complice e molto più lunga del normale.  Come se in quel tempo sospeso e in quel silenzio fra loro si dovessero ricollegare fili lontani di una vicenda che li aveva visti protagonisti, forse loro malgrado.
Del dopo le erano rimasti solo frammenti di conversazione.
“Meno male . . . .  più nascondermi!”
“Finalmente . . .  il grimaldello giusto, e la gola che ha parlato!”
“Mia moglie e mio figlio, avvertiti?”
” I colleghi . .  in questo momento, mi hanno appena inviato un messaggio. “
“Potrò andarmene già da domani?”
” Ancora un giorno o due , le ho portato intanto i documenti da firmare!”
“Non ne potevo più di questo luogo. Tutta questa bellezza può trasformarsi nel suo doppio negativo in situazioni complicate. “
Marco l’aveva chiamata proprio allora e non era riuscita a sentire il resto.
Solo mentre Marco le stava raccontando il poco che sapeva in biblioteca, quella mattina, le tornò alla mente un particolare che fino a quel momento era rimasto sepolto chissà dove e perché.
Mentre stava andando verso lo spogliatoio per recuperare le sue cose,  aveva visto uscire dalla toilette quella strana suora arrivata sull’isola due o tre giorni prima.
Era di un ordine sconosciuto, veniva dall’estero ed era in visita ad una consorella che abitava nel vicino convento. Almeno questo è quanto aveva sentito sul suo conto in quei pochi giorni.
Per un attimo aveva anche incrociato il suo sguardo. Poco benevolente e misericordioso, tanto meno compassionevole.
A ripensarci quella mattina il ricordo di quegli occhi le portò inquietudine.
Fu un attimo e i flop flop flop flop flop , il fruscio nel prato, e la figura scura che le era sembrato di vedere correre verso l’imbarcadero le apparvero in tutto un altro lugubre significato.
Non ebbe il coraggio di dirsi altro, tanto meno di decidere cosa avrebbe dovuto fare di quelle sue intuizioni.
Avrebbe aspettato il solito articolo della Strambelloni per avere qualche elemento in più e decidere il da farsi.  

Festival di Storie: Stefania

In questo Festival leggeremo storie parallele. Tutte partono dallo stesso spunto e da alcuni obblighi: Il luogo (lago), le parole: sospiro, zuppa di porri e suora

Comunicato di redazione – di Stefania Bonanni

foto Pixabay

Comunicato di redazione: il documento che leggerete in calce ci è stato recapitato da persona della massima fiducia. Ciò nonostante, l’abbiamo sottoposto a perizia calligrafica ed a letture di psicanalisti e psicologi, per cercare di analizzare e valutare per quale motivo, francamente inspiegabile, l’autore abbia voluto metterci al corrente di un simile accadimento.  Dopo che la redazione intera continua ad interrogarsi sull’opportunità di rendere nota la cronaca scritta dal protagonista, di un momento così privato , si decide che la libera informazione ha l’obbligo deontologico di informare l’utenza, e si trascrive il resoconto integrale pervenutoci.

Venerdì 21 gennaio 2022.

Come abitudine quotidiana, a sera trascrivo i fatti della giornata appena vissuta, sono molti gli impegni e dimenticherei, se non scrivessi. Avrei dovuto partire domani, perché l’appuntamento è per il pomeriggio, ma sono in ansia. Ho cominciato a pensare che dappertutto chiedono i documenti, che mantenere l’incognito avrebbe potuto essere difficile. Così ho deciso di partire oggi. Senza autista, guidando io l’utilitaria d mia moglie. Volevo, per una volta, essere solo e tranquillo, vedere e godere del lago, fermarmi appena comincia a spuntare il suo luccichio, dietro la curva. Sono arrivato insieme alla nebbia, e mi è venuta in mente un’immagine fuori luogo, che mi meraviglia dentro. Le mie labbra sottili che dicono incapaci di sorridere, scoprono di poter scostarsi e muoversi in un gesto aperto e sorpreso di risata spontanea. Il lago mi è apparso verde delle punte degli alberi che vi si specchiano, e la nebbia che gli si è posata sopra, sembrava il vapore sulla zuppiera della minestra bollente. Il lago mi è sembrato una zuppa di porri, lo strano paragone mi riscalda, sa di casa, di normalità. L’albergo dove hanno prenotato per me, è vicino, ed ha le solite, ormai note, caratteristiche: è piccolo, datato, non dà certo nell’occhio, è gestito da persona a libro paga dei servizi, che non chiede e non parla. Entro e saluto la signora dell’albergo. Impermeabile, cappello, occhiali, mascherina, neanche mia madre mi riconoscerebbe. Dico una frase stabilita, e la signora sussulta: “Era per domani…Ho una sola camera matrimoniale, libera. Sono costernata…..mi avessero avvertito…. spostero’ qualche ospite in paese”. Mi affretto a dire che non è il caso…dovrebbe dare spiegazioni..Ma il bello arriva ora: “Anche la persona con la quale ho appuntamento per domani, è già arrivata” I miei “assistenti” hanno avvertito la signora, dicendo che l’ospite è in incognito. Realizzo che dovrò dividere la camera, e la curiosità si fa strada… Dovrei cercare di capire chi, tra gli ospiti, potrebbe essere il mio appuntamento travestito. La signora mi avverte che gli ospiti sono tutti nella hall.  Vedo: una coppia con due bambini, due signore anziane che fanno l’uncinetto, un uomo che si appoggia al deambulatore, un uomo ed una donna che si guardano fissi negli occhi e si capisce non vedono l’ora di salire in camera, una suora che sembra un gabbiano, vestita d’azzurro e con grandi ali bianche inamidate a lati della faccia, un cacciatore con tanto di cane tra gli stivali, un biondone, che penso tedesco, vestito con una salopette di velluto con i pantaloni corti, calzettoni a quadri violenti rossi e blu e nappine dappertutto. Continuo a guardare: la mamma con  bambini piccoli stava allattandone uno al seno: loro non sono. Le signore che fanno l’uncinetto in un tempo brevissimo hanno prodotto metri di trina, anche loro sono da scartare. L’uomo e la donna che si guardavano fissi si sono dileguati, mi sa che il loro sguardo si sia spostato dagli occhi ad altre parti….scartati. Il signore con il deambulatore è raggiunto di corsa da un aiutante che sembra annusare…per…poi spingerlo veloce, non è uno di loro, la persona che cerco.

A questo punto ho desistito. Ho parlato con la signora dell’albergo, e le ho detto che vedesse lei, se riusciva a capire. Io mi ritiravo in camera, ed avrei aspettato il mio ospite lì, avrei diviso la camera con lui.

Sabato 22 gennaio 2022.

Sono preda della confusione. Certo non sarò capace di tradurre in parole quello che mi è successo. Non so cosa significhera’, però non so fare a meno di ricostruire e ripensare e scrivere è un modo per rivivere. La giornata non finì quando mi ritirai in camera.

Sentii la chiave nella serratura, ed un leggero, rispettoso bussare. Dissi “Prego, avanti” e mi preparai ad accogliere chi sarebbe entrato, e mai e poi mai mi sarei aspettato….”il Signore sia con te..” mi venne in   mente solo questo…e la suora si mise a ridere….e allora anch’io risi e risi e risi….Obiettivamente la situazione era ridicola…Pero’ era anche fuori dal mondo, dalla realtà, da noi, da me, da lui..La suora cominciò a spogliarsi. Si scoprì i capelli, tolse il velo e le ali. Si sbottonò la mantellina, e la tolse.  Fu un lampo, quando si tirò su la gonna e si intravidero gli elastici che trattenevano sulle cosce le spesse calze chiare. Fu sicuramente una corrente, una scossa, lui sembrava lei, io non sapevo più nemmeno come mi chiamo. L’ho rovesciato sul letto , poi ci siamo trovati abbracciati, e stamani eravamo ancora così… Mi sono vestito piano, lui dormiva ancora. Me ne sono andato senza parlare con nessuno.

Domenica 23 gennaio 2022.

A casa ho detto che avrei dormito. Sono stato tutto il giorno in camera, stranito. Mi alzo presto, domattina. Spero di dormire, stanotte.

Lunedì 24 gennaio 2022.

Comincia oggi, l’avventura dell’elezione, a Roma.

Mi tiro indietro, io. Voterò per lui, per vederlo per altri sette anni. Perlomeno vederlo.

Festival di Storie: Rossella

In questo Festival leggeremo storie parallele. Tutte partono dallo stesso spunto e da alcuni obblighi: Il luogo (lago), le parole: sospiro, zuppa di porri e suora

Hotel sul lago – di Rossella Gallori

foto Pixabay

Sognavo acqua, sempre acqua.

Non sempre mi bagnavo…

Dalla sua postazione poteva  vederli, sentirli, nascosta ai loro occhi, sprofondata nella poltrona malconcia, che dell’azzurro aveva solo un ricordo,d’ altronde tutto era  un po’ polveroso, come l’aria fuori, come la luce dentro.

Hotel del Lago, un nome anonimo, come l’insegna, di legno sbiadita dall’umidità, uno specchio d’ acqua a due passi da qualcosa.. ..Sirio, credeva proprio si chiamasse così…aveva scelto tutto in fretta in un novembre ancora caldo, per dimenticare o forse per ricordare in modo diverso….

In un dormiveglia che era altaLena.

Frutto di una vita claudicante.

Sospirò mordondosi il labbro inferiore e ritornò ad osservarli, ad ascoltarli con attenzione. Erano, i due rimasti incollati l’uno a l’altro  con le mani e con gli occhi:

Anche tu qui? In questa stagione, dopo tanto tempo.

Si, dovevo,volevo!

Lo sciacquettio del Lago Sirio, coprì il suo ennesimo sospiro, la noia era mortale, per fortuna una specie di sole illuminava, se pur di riflesso, il vetro appannato della finestra.

Pensi ancora a lei? Io spesso.

Io sempre, non passa giorno.

Volano i silenzi, da parete a parete

Formando  macchie d’umido.

La sala da pranzo era semibuia, il nulla era interrotto dalle voci sommesse dei due uomini e dall’odore di zuppa di porri, che inesorabile si presentava alle 20. La vecchia pendola annunciava le 19e 54.

Sono passati 30 anni e penso ancora a quell’incontro.

Vorrai dire scontro, eravamo amici, ma amare la stessa donna ci ha reso nemici.

Il dialogo era iniziato dopo una interminabile pausa, i due uomini stavano sorseggiando un liquore rossastro, in orribili coppe di vetro grossolano.

Lei aveva freddo, coprì le gambe seminude, con un cencio, che di plaid non aveva più nemmeno il nome, l’ immobilità e la scelta sbagliata dei vestiti, la stavano immobilizzando.

Freddo sempre solo freddo.

Il cuore non si scalda da solo.

Ti ricordi i suoi occhi?

Li sogno ogni notte, bleu come l’ acqua del lago…dai riflessi dorati.

E la massa di riccioli biondi?

E la bocca carnosa?

Ascoltando il monotono dialogo provò ad immaginare, l’ affascinante ragazza, che pareva senza nome.

Il ciabattare della padrona dell’ alberghetto ed il rumore di posate, annunciava, la solita triste cena, ma cosa poteva pretendere per quel che aveva speso.

Il più alto incartapecorito riprese la parola:

se n’è andata senza una parola, un cenno di saluto.

Si lo ricordo bene, incalzò il più tarchiato.

Io l’ amavo!

Anche io!

Ci disse: amo un altro…

Già se ne andò così….scomparsa.

Stanca di ascoltare si alzò, il suono del campanello aveva annunciato un nuovo arrivo…..

I due uomini vicini, ma non troppo la squadrarono da capo a piedi, rivolgendole uno sguardo indagatore che rimbalzava dalla porta a lei, da lei alla porta….

Si accomodi, si accomodi madre, in tempo per la cena, che piacere vederla dopo tanto tempo, c’ è il signor Lastrucci, il Bertelli…solo loro e anche…..

Suora?

Suuuuora?

Apparve sulla porta una monacona, dagli occhi cerulei, sui 70 e gli 80 di chili e di anni.

Trattenne a stento una risata, beh infondo lo aveva detto che amava un altro, pensò con tenerezza ai due anziani, alla loro delusione…decise di fuggire da quel sogno ovattato, dove lei non c’era, corse verso una valigia sconosciuta, inciampando in una vecchia poltrona di vimini, che cadde senza far rumore sul tappeto sbiadito….fuggire… fuggire, lei doveva scappare o…..o….. svegliarsi!!!

Si svegliò lentamente allungando le gambe sotto la coperta  di cachemire color miele, una leggera brezza primaverile l’ accarezzò, la vista del lago di Como era magnifica, Villa D’Este non l’ aveva delusa, il parco…Cernobbio…un sogno vero a 5 stelle, qualcuno, le porse un calice di bollicine….il profumo di tartufo le ricordò che era l’ ora di cena…salì in camera per cambiarsi, cercò lo scialle, ricordando che lo aveva lasciato nella mansarda del suo appartamento “ Il sogno” a villa Garovo….dalla piccola finestra vide allontanarsi, a testa bassa, tre vecchi: 2 uomini ed una suora grassa e zoppa…..

Se riesco a dormire, sogno.

Se sogno mi voglio svegliare.

Festival di Storie: Mimma

In questo Festival leggeremo storie parallele. Tutte partono dallo stesso spunto e da alcuni obblighi: Il luogo (lago), le parole: sospiro, zuppa di porri e suora

Zuppa di porri in famiglia – di Mimma Caravaggi

foto Pixabay

Il Lago Trasimeno era soffocato dalle nebbie che gli si depositavano leggere sopra la distesa d’acqua fra le colline umbre. L’Albergo-Pensione si ergeva
simpaticamente sulle dolci rive senza deturpare il paesaggio condividendo
la bellezza con la poesia dell’ambiente. Dalle splendide vetrate ci si
beava di una stupenda vista che, nella buona stagione, era un tripudio per gli occhi che avevano la fortuna di guardarla. Ospite del posto da memore tempo, Corrado ignorava che qualcuno l’aspettasse. Era appena sceso nella hall dell’albergo e camminava a testa bassa, quando la sollevò era a pochi passi dalla poltrona di vimini che era solito occupare giornalmente. Le sue narici ebbero un fremito, le sue labbra sottili si piegarono in una smorfia che lui tentò di trasformare in un sorriso e il visitatore che si era alzato e gli tendeva una mano disse :”lieto di rivederti ”

Corrado tese a sua volta la mano, o fu l’altro ad afferrargliela? Sta di fatto che la strinse a lungo con vigore come se non dovesse più lasciarla. La padrona dell’albergo, Silvia, intervenne sollecita: “ il suo amico è arrivato che lei era appena uscito e con la nebbia che c’è ha preferito aspettarla qui, piuttosto che andare in giro a cercarla”
Dopo aver ringraziato la Signora fece spostare l’ospite nell’altra poltrona di vimini di fronte a lui per poterlo vedere senza assumere posizioni poco consone. Guardò il suo “amico” come lo aveva definito Silvia, si guardarono in silenzio per un lungo momento perché nessuno aveva il coraggio di iniziare la conversazione. Quanti anni erano passati silenziosamente senza alcuna notizia ed ora erano li a fronteggiarsi eppure erano fratelli ma gli anni e la vita avevano indurito i loro animi, quasi non si riconoscevano. Quanti anni erano passati? 20? 25? non ricordava più bene. Si erano lasciati tanti anni fa e non nella maniera migliore: Nel loro ultimo incontro avevano urlato ed inveito uno contro l’altro e la causa era sua figlia Elena che voleva farsi suora e Corrado, comunista convinto, non riusciva a mandar giù l’idea. Giulio, suo fratello era intervenuto poiché molto affezionato alla nipote e prese le sue parti cercando di convincere Corrado a lasciar andare la figlia libera di costruirsi la sua vita. La discussione che era partita gentilmente era poi sfociata in
un alterco. E quella famosa volta fu l’ultima che aveva visto sia sua figlia che suo fratello. Giulio era arrivato fino al lago, dove sapeva Corrado si era ritirato solo e sconsolato dopo la morte della moglie e senza più alcuna notizia della sua adorata figlia, perché pensava che fosse arrivato il momento di ricongiungere gli affetti e tornare ad essere una famiglia. Lui era scapolo e adorava sua nipote e dopo la grande lite l’aveva seguita passo passo nel suo cammino rispettando la sua scelta. Sospirò a lungo, perché temeva che Corrado non fosse propenso a riappacificarsi, ma prima di affrontare l’argomento guardò suo fratello con più attenzione e solo in quel momento si accorse che Corrado non appariva al meglio. Aveva notato smorfie di dolore sul suo viso invecchiato e un po’ rugoso e si chiese come mai, anzi iniziò il discorso proprio chiedendogli se era sofferente per qualcosa. Corrado era restio a parlare della sua malattia, anche se non grave ma certo invalidante.
Riuscì comunque a tirar fuori poche parole con qualche smorfia e raccontò al
fratello di aver fatto degli esami e che non tutti erano al meglio ma sperava di non doversi dilungare troppo sull’argomento visto che non gli piaceva affatto parlar di sé. Giulio quindi colse l’occasione per iniziare a parlare di Elena. Gli raccontò degli studi e della bravura con cui li aveva conseguiti e come poi avesse, comeagognava, preso la strada impervia per diventare suora. Ora si chiamava Suor Benedetta ed era madre superiore in un istituto di Suore a Perugia pur avendo solo 35 anni ed era stata appena trasferita da Roma. Vista la vicinanza e i tanti anni ormai passati Giulio pensava fosse arrivato il momento di far ricongiungere i due e far finire le sofferenze di tutti. Corrado si era ammorbidito nel sentire parlare di sua figlia e qualche lacrima iniziò a scendergli lentamente sul viso e di punto in bianco chiese al fratello se potesse far venire in serata sua figlia così avrebbero potuto mangiare un boccone insieme nel Ristorante dell’albergo. Giulio non perse tempo
chiamò Elena al cellulare chiedendole di partire subito e raggiungerli al Trasimeno.
Così in attesa che Elena arrivasse, tutti e due pian piano, parlarono moltissimo di ogni genere di argomenti e ognuno interrompeva l’altro per raccontare tutto il possibile in quella serata quasi incredibile piena di attesa e di emozioni per tutti.
All’arrivo di Elena, ovviamente vestita da suora, Corrado a fatica si alzò dalla sua poltrona di vimini e abbracciò a lungo sua figlia che pur nell’abito talare era bella e raggiante per la felicità.
Si accomodarono al tavolo e tutti e tre con il menù in mano chiesero la zuppa di
porri la richiesta sorprese tutti e tre perché spontanea. Scoppiarono a ridere tutti e tre spontaneamente mentre i ricordi di ognuno ritornavano indietro nel tempo in un altro momento simile, sempre davanti ad una buona zuppa di porri.

Festival di storie: Laura

In questo Festival leggeremo storie parallele. Tutte partono dallo stesso spunto e da alcuni obblighi: Il luogo (lago), le parole: sospiro, zuppa di porri e suora

LA PRIMA SCENA DI UN FILM DRAMMATICO – TRAMA PER UNA SCENEGGIATURA

Caterina e il Lago – di Laura Galgani

foto Pixabay

L’uomo ignorava che qualcuno lo aspettasse e camminava a testa bassa, quando la sollevò era pochi passi dalla poltrona di vimini. Le sue narici ebbero un fremito, le sue labbra sottili si piegarono in una smorfia che lui tentò di trasformare in un sorriso e il visitatore che si era alzato e gli tendeva la mano disse:

“Lieto di vederLa, signore”

L’uomo tese a sua volta la mano, o fu l’altro ad afferrargliela?  Sta di fatto che la strinse a lungo con vigore come se non dovesse più lasciarla. La padrona dell’albergo intervenne sollecita:

“il Suo amico è arrivato che Lei era appena uscito e con la nebbia che c’è ha preferito aspettarLa qui, piuttosto che andare in giro a cercarLa.”

L’uomo appena rientrato aveva ancora il cappello in testa, di un caldo color castagna, con la falda piuttosto ampia e un gros-grain in tono più scuro, elegante. Gli era scivolato leggermente di lato, inchinandosi a guardare la sua mano stretta con vigore dal visitatore. Senza alzare lo sguardo andò dritto al punto:

“Come ha fatto a trovarmi? Perché è qui?”

L’altro sfoderò un tono disinvolto, si era preparato la risposta:

“Ho chiamato la Sua segretaria, le ho detto che dovevo assolutamente parlarLe. Ero certo che la stima nei miei confronti, che a ragione immaginavo immutata nel tempo, mi avrebbe preceduto e che non avrebbe avuto remore a dirmi dove si trovasse. Mi ha detto del convegno qui a Castiglione del Lago e mi ha dato l’indirizzo dell’albergo.”

L’uomo girò lo sguardo verso la grande vetrata. I suoi occhi liquidi vagarono nell’oscurità e nonostante la nebbia riuscì a distinguere le luci della riva opposta del lago Trasimeno e dell’Isola Maggiore. Si aggrappò all’immagine del lago che aveva registrato al mattino, durante i lavori del convegno del vertice di partito; la veduta era gioiosa, piena di sole e di vita. Avrebbe voluto essere ancora lì, sulla grande terrazza, a sorseggiare un caffè fra un intervento e l’altro. E invece la mente volò via, ai ricordi del passato, a quando sulle rive del Lago di Como dirigeva la resistenza armata di una brigata di partigiani nella fase decisiva della guerra ed era stato ferito. Proprio lì, in un rifugio ben nascosto in mezzo ai boschi, aveva conosciuto il medico, quindici anni prima. Caterina, una coraggiosa partigiana aveva fatto in modo di portarlo fin lassù, per curarlo. Il medico gli aveva salvato la vita e non aveva mai voluto niente in cambio. E anche a guerra finita avevano mantenuto un legame attraverso le molte lettere che si erano scritti, l’uno a Roma, dove era diventato parlamentare, e l’altro a Milano, chirurgo in ospedale. Si erano anche incontrati qualche volta in Liguria o sulle rive di quello stesso Lago che era stato campo di battaglia. Non avevano mai smesso di darsi del Lei, per una specie di imbarazzo tutto maschile. Poi però, col passare del tempo, si erano persi di vista.

L’amico era rimasto in silenzio ma si schiarì la voce, e questo riportò l’altro al presente, a quell’ingresso semibuio con le poltroncine di vimini dai cuscini amaranto, le kenzie rigogliose e i mobili in radica marezzata.

L’odore deciso della zuppa di porri, in preparazione per la cena, giù in cucina, gli arrivò fino in cima alle narici, provocandogli un certo disgusto.

“Se Lei è qui dev’essere davvero per un buon motivo. Avanti, parli.”

L’altro rimase un attimo immobile. Si aspettava una reazione così, di rigidità. Fece un grosso sospiro e cambiò espressione; lo sguardo si fece diretto, penetrante. Disse solo:

“Si tratta di Caterina”.

L’uomo indietreggiò di un passo e appoggiò una mano sulla poltroncina di vimini che si trovava dietro di lui. L’amico non gli si avvicinò, rimase immobile, ma continuò a voce bassa:

“Sono stato a farle visita in monastero a Cortona. Da quando è diventata suora di clausura non l’avevo più vista. Mi ha fatto chiamare non come medico, perché la curassi, ma per avermi accanto in questo momento difficile e renderle la sofferenza della fine appena un po’ più lieve.“

Fece una pausa. L’altro si era fatto rigido in volto e in tutto il corpo, cereo nella penombra dalla stanza poco illuminata. Poi continuò, quasi a volersi sgravare da un peso:

“La vuole vedere un’ultima volta, prima di morire. Il conforto divino le dovrebbe bastare, ma è pur sempre un essere umano. E vi siete amati così tanto durante la guerra che …”

Ma non finì la frase, perché l’altro con un gesto secco buttò per terra la poltroncina di vimini e si voltò di spalle, nascondendo la faccia fra le mani per soffocare un gemito.

Dopo un istante di incertezza, il medico provò ad avvicinarsi e fece per mettergli una mano sulla spalla, ma la ritrasse subito.

La padrona dell’albergo, che aveva assistito a tutta la scena rimanendo immobile dietro al grande banco della reception, illuminato solo da una abat-jour color crema, si voltò e scomparve col suo vestito bianco a grandi fiori coloro malva e i capelli castani cotonati alti, svanendo nella grande sala ristorante pronta per la cena.

Fine della scena – la successiva si apre sul mattino successivo …

Festival di storie: Simone

In questo Festival leggeremo storie parallele. Tutte partono dallo stesso spunto e da alcuni obblighi: Il luogo (lago), le parole: sospiro, zuppa di porri e suora

Zuppa di Porri – di Simone Bellini

foto Pixabay

SPUNTO:

L’uomo ignorava che qualcuno lo aspettasse e camminava a testa bassa, quando la sollevò era a pochi passo dalla poltrona di vimini. Le sue narici ebbero un fremito, le sue labbra sottili si piegarono in una smorfia che lui tentò di trasformare in un sorriso e il visitatore che si era alzato e gli tendeva la mano disse :

“ Lieto di vederla signore” l’ uomo tese a sua volta la mano, o fu l’altro a afferrargliela ? Sta di fatto che la strinse a lungo con vigore come se non dovesse più lasciargliela.

La padrona dell’albergo intervenne sollecita : “ il suo amico è arrivato che lei era appena uscito e con la nebbia che c’è ha preferito aspettarla qui, piuttosto che andare in giro a cercarla “

Proseguo :

“ Ha fatto bene ad aspettarmi qui, il giro del lago tutte le mattine con questa nebbia lo può fare solo chi come me lo conosce bene. Cosa posso fare per lei?”

-Sono venuto qui per assaggiare la famosa” zuppa di porri” del suo albergo ! Mhm se ne sente già il profumo nell’aria ! –

– Se è per questo ne può sentire la  consistenza nella mano, stavo giusto andando a lavarmi le mani per togliere la zuppa che involontariamente ho fatto cadere per terra in cucina, fra le sante imprecazioni di Suor Pappina la nostra cuoca !-

Non avevo finito di parlare che mi ritrovo la faccia di costui nelle mie mani intento a leccarle di gusto.

– Ma che fa ? è impazzito?—

-Mhm… buonissima…..gliele pulisco io queste mani saporite !…Mhm meravigliosa questa zuppa…mhm sublimi questi porri ! –

– Ma la smetta!! Basta, si vergogni ! Preferivo le mani sporche di zuppa che della sua bava! Vado a lavarmele e le porto quel poco che si è salvato –

Ma costui non la smetteva di leccarmi, era arrivato fino ai polsi dove la sua bramosia arrivò all’apice azzannandomi le vene succhiando avidamente: -Mhm sangue e porri è il massimo, come si dice…è la sua morte !-

– La mia morte vorrà dire ! –urlai- Aiuto, aiuto questo vampiro mi sta prosciugando !!- Poi tutto diventò nebuloso, sentii uno battito d’ali di pipistrello prima che tutto si oscurasse, svenni !      

Super nonna: Tina

Che giornataaaaaa – di Tina Conti

Non posso non raccontarla a  voi  di cui conosco le emozioni più del vostro viso, cognome e indirizzo.

 Stamani, lezione in dad per lei, io che gironzolavo fra il giardino e il terrazzo con vasi e terra, appena finito, appariva tutto un tempo libero inaspettato. 

Cosa  fare mi sono domandata.

Un salto all’accademia dalla zia Antonella e poi si vedrà

Certo il posto e bello,  la via una delle poche caratteristiche  della città

Lei sgranava gli occhi con tutte quelle macchine da lavoro, seghe , trapani, legni, pelli e in fondo gli strumenti aperti, fra appunti, fogli e sgorbie

Le due colleghe, in pausa pranzo che la incoraggiavano a curiosare.

In fondo una corte giardino con una statua in movimento.

Vedere i meccanismi dei pianoforti  e sentire i suoni diversi lassando da uno all’altro, osservare le forme, le tastiere mai viste.

E poi la sala da concerto, lo strumento più raro  e forse unico che si può suonare in due persone che si guardano in viso.

E il falso, costruito ad imitazione e con le parole sbagliate nella targa.

 Poi, si esce, nonna, la chiesa del Carmine non  si vede,  ho fame, si mangia.

Pranzo al Tranvai, con dolce.

Scendendo dai viali, una fermatina al Piazzale per dare una sbirciatina e fare un ripasso con tanto di nocchino sul capo agli errori nel riconoscere   i preziosi monumenti.

La bancarella non poteva mancare e il pinocchietto si è aggiunto alla serie di burattini che abbiamo da poco costruito.

Dopo aver aspettato il fratellone davanti alla scuola, tutti a casa.

E giù a raccontare del giorno  della memoria.

Come ero contenta degli interventi a scuola, dei suggerimenti, delle domande, ho ascoltato, sentito, mi sono commossa con loro.

Quanto ho sentito  vicine le nostre conversazioni, i nostri scritti, le emozioni  e esperienze fatte.

Ho mostrato libri, cercato ricordi,  in cucina, abbiamo aperto i nostri cuori e avuto paura, per le cattiverie degli uomini, ci siamo fatti domande sul mondo, sulla  libertà, sul nostro tempo.

Forse si raccolgono i granelli i di quello che con fatica si semina mi sono domandata, , oggi  mi sono sentita contenta, grazie anche a tutti voi  che mi aiutate a riflettere e a sere nel tempo.

Scarpe introvabili: Carmela

Amiche per la pelle – di Carmela De Pilla

foto di Carmela De Pilla

Mi hanno accompagnata, mi hanno incoraggiata, hanno dato di me quella nota originale e divertente, mi sono sentita ridicola o in armonia con esse.

Ricordo con affetto quelle di un tempo antico, ritinte di bianco perché tutte sbucciate, già consumate da qualche cugina, ma ritornate a vivere ai miei piedi, chiuse d’inverno e poi rimodellate da mia madre per farne sandali per l’estate perché il piede già cresciuto potesse starci ancora una stagione. Una volta non si buttava via niente se non era completamente consumato e così io, ultima nipote di una decina di cugine indossavo scarpe vecchie da far rivivere.

All’età di 13 anni ero una ragazzina già abbastanza alta con un piede fuori misura, portavo il quarantuno e, inutile nasconderlo quello fu per me un vero problema perché mentre le mie amiche bamboleggiavano nelle loro belle scarpe io ero costretta a mettermi quelle da maschietto, a volte mi mettevo perfino quelle di mio fratello!

Una vera tragedia!

Per fortuna verso i diciassette anni ci fu la moda delle college che erano unisex, mi piacevano molto e potevo nascondere il mio lungo piede con una certa disinvoltura.

Con l’età cresceva sempre di più il desiderio di indossare scarpe eleganti, magari con il tacco, ma per quanti negozi avessi girato di quarantuno non ne vedevo nemmeno l’ombra, mi sentivo dire “Signorina non è la sola sa?” e senza darmi una spiegazione mi dovevo rassegnare.

Quella sera c’era una festa in casa di una mia amica e la vanità di ragazza mi spinse a comprare l’unico paio di scarpe che sono riuscita a trovare, peccato che fossero il quaranta, ho passato la serata su una sedia con un tremendo mal di piedi guardando le mie amiche ballare, gli altri avranno pensato sicuramente che ero la ragazza più scontrosa del gruppo!

Ho dovuto aspettare gli anni ottanta per indossare scarpe più femminili e allora mi sono data alla pazza gioia! Sarà per questo che mi piacciono da impazzire?

Da allora mi sono sbizzarrita e ho esaudito il desiderio represso per tanti anni, ne ho avute di tutti i tipi e di tutti i colori, ma il requisito più richiesto era che fossero femminili e con il tacco, non dovevano essere solo comode, la comodità è un privilegio che hanno solo gli scarponi e le scarpe da ginnastica che mi hanno accompagnata nei miei tanti trekking in montagna e nelle lunghe camminate.

Tutte le mie scarpe hanno assistito alla mia crescita, al mio cambiamento, da ragazzina con passo lento, incerto, titubante poi sempre più veloce e sicuro di sè ora quasi spavaldo.

Da qualche anno però è arrivato il tempo post protesi alle anche, ironia della sorte, che mi costringe a indossare solo scarpe col tacco basso, ma nel ripostiglio ci sono tutte le altre che mi aspettano pulite e ben tenute desiderose di ricominciare a vivere.

Scarpe indomabili: Simone

                                  IO VI DOMERO’ – di Simone Bellini

foto di Simone Bellini

I miei cari  vecchi anfibi, compagni di tante camminate nei boschi in cerca di funghi  o in scoperta di incantevoli laghi montani, stremati dai tanti anni insieme, decisero che ormai il loro tempo era finito e mi lasciarono senza suole in un sentiero ciottoloso mentre visitavo le cave di marmo di Carrara. Ci stavo bene in quegli anfibi perché, nonostante arrivassero a coprire il polpaccio, erano abbastanza leggeri, merito della suola che non era cucita alla vecchia maniera ma pressofusa, incollata così bene da durare tutti quegli anni.

Da  qui l’urgenza di sostituirli con un paio di scarponi che fossero forti e magari anche più longevi, definitivi insomma da durare una vita.

Fu così che, passando da un paesino di montagna, li vidi esposti in bellavista a saldo . Avevano l’aspetto di una solidità comoda e rassicurante . A differenza degli scarponi moderni ( leggeri e tecnologici ) questi erano in vero cuoio con suole ben scolpite, indistruttibili ! Il tutto cucito con uno spago alla vecchia maniera. Le caviglie erano  avvolte con del morbido cuoio imbottito . Infine lacci rossi per dare un look più moderno al loro aspetto vintage. Tutto ciò mi convinse a comprarli.

Alla prima occasione, una passeggiata nei boschi, li provai; effettivamente erano un po’ pesanti, ma quel senso di robustezza mi rassicurava ad ogni passo facendosi sentire, però, anche sulla pelle del mio tallone, tanto che dopo qualche ora era afflitto da una dolorosa galla.

– Va be’- pensavo – sia la pelle mia che quella dello scarpone si devono adattare.-

Li provai più volte, sia in cerca di funghi, che nelle passeggiate con la famiglia, in ogni occasione buona per indossarli. Dovevo domarli!

Ho provato a trattarli con la sugna, a battere col martello nei punti più duri.

 Niente, non volevano cedere! Ogni volta era una sofferenza indossarli.

IO… VI… DOMEROOOO’!!!!!

In occasione di una bella nevicata sulle montagne pistoiesi un mio amico mi invitò ad una ciaspolata di gruppo. Quale occasione migliore per metterli ancora alla prova. Lo scenario  era meraviglioso, la giornata splendida, il vento aveva modellato in orizzontale i ghiaccioli sugli alberi bianchi di neve come tutto il paesaggio. Il freddo che di solito è secco, era pungente e umido della pioggia caduta il giorno prima. IO ODIO IL FREDDO! Il gelo mi era entrato nelle ossa, i miei poveri piedi non li sentivo più tranne il dolore che mi procurava la nuova galla. E vvaabbene BASTA !! Non ne posso più, mi arrendo, MI AVETE DOMATO, non vi metterò mai più scarponi malefici!!!

Scarpe che giocano: Tina

Le mie scarpe – di Tina Conti

foto di Tina Conti

Si, anche le scarpe aiutano nel gioco della vita di una donna .

Un tempo,in famiglia  erano la meta  da guadagnare  con fatica, oggi tutti ne abbiamo per usi diversi.

Quando ho avuto un paio di scarpine bianche con il laccetto alla caviglia mi sono sentita molto felice, il guaio è cominciato in seguito, non si prestavano a salire sugli alberi e a giocare con il fango.

Ricordo quanto le ho strusciate  con la spugna e poi da asciutte passate tante volte con quel preparato che sembrava un gesso per la lavagna, per riportarle a uno stato decente di bianco.

Noi bambini ci passavamo le scarpe e i sandali, che ,qualche volta, venivano spuntati sul davanti per non far soffrire le dita che ci erano cresciute dentro.

Le scarpe nuove erano  un evento  in famiglia, riservato  a occasioni particolari: un matrimonio, la prima comunione, un viaggio.

I tempi sono cambiati, oggi,abbiamo tutto in eccedenza, cosi, per contenere le scarpe sono nate le scarpiere.

Mi affascinano quasi tutti i tipi di scarpe e ne posseggo tante.

Le abbino ai vestiti e alle occasioni, sono però poco disposta a soffrire per il mal di piedi, per cui otre a domarle, in genere, portandole in casa per qualche tempo le ammorbidisco con creme e martello.

Ne posseggo di colorate e di modelli diversi, importante però che non mi facciano soffrire. Per un periodo, mi sono interrogata sul perché, dopo un po’, sentivo dolore ad un piede. Ho scoperto da poco che ho un dito più lungo al piede sinistro che mi ha portato a chiedere un numero superiore al negoziante, avendo una scarpa lunga e una giusta.

Le decolté colorate sono la mia passione, come gli scarponcelli a tronchetto

Le ballerine mi fanno venire i mal di schiena, confesso di avere anche delle scarpe rifinite con intarsi argentati e un paio con lustrini.

Le conservo per molto tempo e non le rovino a volte mi è capitato di indossarne un paio e  dopo pochi passi vedere la suola che si stacca, ho saputo che  è il tempo a combinare questi guai, per questo, a chi va a fare camminate, consigliano di portarsi dietro un nastro  plastificato  per  contrastare questa emergenza.

Una volta mi sono fatta fare degli scarponcelli marrone chiaro  da  artigiani  in città, mi sono trovata cosi bene che ho accettato con fatica la loro usura senza rimedio.,mi fermo spesso in quel negozio, ma non ho ritrovato il coraggio di scegliere di nuovo un paio di scarpe.

Quando comincia la bella stagione  mi piace stare scalza per casa, al mattino esco in giardino e cammino scalza. Sul prato e  sul selciato di pietra del piazzale, non mi danno noia le pietrucce e i sassolini, i legnetti. i noccioli delle olive che gli uccelli lasciano cadere in volo, mi sono tanto divertita da bambina sul fiume e sui prati che oggi è diventata una abitudine a cui non so rinunciare.

Così col caldo ho i piedi come una brava contadina.

Non scarpe: Laura

Le mie non scarpe….salvo un paio – di Laura Galgani

Scarpe, non vi amo.

Strano? Forse.

Non vi guardo, non vi ammiro, non vi compro.

Nemmeno vi capisco, a volte.

Per necessità vi indosso.

Eppure so bene quanto siete importanti.

Per vestirsi bene, è da voi che bisogna iniziare.

Sapere quali scarpe voglio indossare al mattino determina tutto ciò che metterò, dalle calze in su.

Se è freddo e devo andare al lavoro ho bisogno di calzature capaci di garantirmi piedi caldi tutto il giorno. Allora mando al diavolo l’eleganza e opto per le scarpe sportive nere, in materiali tecno, allacciate da semplici stringhe. Giocoforza mettersi calzini robusti, leggings super attillati e maglione di lana. Se invece è il fine settimana provo a mettere gli stivaletti, appena appena più eleganti, salvo pentirmene due minuti dopo essere uscita perché il freddo ai piedi mi rovina la passeggiata.

D’estate è tutta un’altra cosa: indosso sempre sandali colorati che fanno vedere i miei brutti piedi, grandi e dalle unghie non curate. Ma non m’importa. Mi va bene così, e a chi non piacciono i miei piedi suggerisco di volgere lo sguardo altrove, magari all’abito colorato e svolazzante che vi sta sopra, di sicuro più piacevole.

Non sono affezionata alle mie scarpe, con una sola eccezione per gli scarponcini da montagna che fui costretta ad acquistare nell’agosto del 1998 a San Martino di Castrozza in un negozio specializzato, pagandoli ben 80.000 lire, che allora mi sembrarono un’esagerazione.

Ero fra il sesto e il settimo mese di gravidanza e i miei vecchi scarponcini improvvisamente cominciarono a farmi male, non ho mai capito perché.

I nuovi, invece, erano molto comodi e assai più eleganti dei miei: in pelle verde e marrone con delle piccole stelle alpine e dei cuoricini ricamati sulla linguetta. Li ho portati in montagna ogni anno, da allora in poi, e non mi hanno mai tradita, sostenendo il mio peso ed il mio passo su sentieri sassosi, impervi, su prati verdi e viottoli ciottolosi.

Due anni fa, di ritorno dalla Val Badia, nel ripulirli, scoprii con dolore che la suola si era rotta a metà. Non me ne ero accorta camminando! Quell’apertura mi sembrò una bocca spalancata, e ne sentii uscire quasi un lamento. Erano invecchiati i miei vecchi scarponcini e fui costretta a buttarli via, quasi piangendo. Erano legati a così tante belle emozioni! Da allora ne ho acquistati altre due paia ma non riesco a camminarci per più di una giornata perché il malleolo sinistro mi dà un dolore lancinante e piuttosto camminerei scalza sui sassi.

Ho capito, niente più scarponcini nuovi. Non si può tradire così l’unico paio di scarpe che si è amato …

Cappadocia con sorella: Mimma

Viaggio in TURCHIA-CAPPADOCIA – di Mimma Caravaggi



Ho uno splendido ricordo di questo paese per quel poco che ho potuto vedere ma ho avuto la fortuna di avere mia sorella che lavorando per l’Unicef in pianta stabile in Ankara, mi ha portata in diversi posti e non tutti turistici per cui sono riuscita a vedere e scoprire bellezze differenti dal normale circuito turistico. Oltre ad Istambul, di cui si è già parlato, un altro pezzo unico della Turchia è la Cappadocia. E’ un posto eccezionale e molto particolare si possono vedere insediamenti rupestri che furono dei primi ominidi e molto più tardi  abitata dai cristiani  per nascondersi dalle persecuzioni. I reperti rupestri di insediamenti e chiese sono molto belli per i colori ancora così vividi dipinti sui muri. I cristiani hanno scavato  interi piani sottoterra tutti a mano che io non ho visto perché profondi  e molto complicati da visitare. Soffro di claustrofobia e quello è proprio il posto meno indicato per me. Mi è dispiaciuto perderlo ma la paura è stata più grande anche perchè c’era un grande affollamento e i passaggi molto stretti e bassi. Comunque la regione offre davvero un panorama unico anche se molto desertico. In tutti i posti turistici abbondano mercati e mercatini belli da vedere per i loro colori vivaci e dove puoi comprare souvenir non troppo scontati ma tipici e diversi.  Io sono stata ad Urgup un piccolo paesino nella vasta terra della Cappadocia ma delizioso dove ho passato una settimana meravigliosa. All’epoca mia sorella aveva comprato lì una casa tutta nella roccia, che ha restaurato con le comodità europee ma lasciandola esteticamente tipica del luogo semplice e rustica come doveva restare. Ricordo che tutte le mattine  ci avventuravamo su un piccolo sentiero per capre tutto in salita e sassoso dove ogni tanto dovevamo fermarci per dare la precedenza a qualche capretta. Quando finalmente si arrivava in cima si attraversava una grande strada e raggiungevamo l’albergo ES BELLI EVI di un suo carissimo amico dove ci fermavamo a fare colazione. Il posto è tutto scavato nella roccia con camere ampie e con tutte le comodità possibili per il luogo ma senza deturpare troppo l’estetica naturale. C’era inoltre un grande terrazzo dove erano apparecchiati i tavoli per gli ospiti che risiedevano in “albergo” e uno era riservato a noi due. C’era  un panorama spettacoloso anche se desertico e si gustava una delle colazioni più buone in assoluto che mi sia mai capitato di fare. Il cibo era locale quindi fresco e buonissimo dallo yogurt denso e squisito alle marmellate fatte in casa e il pane appena sfornato ancora caldo, il tutto abbondante di latte, caffè, e tè, buonissimi.  Questo panorama immenso che ti accompagnava mentre mangiavi e riempiva gli occhi pur essendo, ripeto, desertico, ma a completamento del quale c’erano i famosi “Camini delle Fate” che si ergevano a valle così particolari nel nome e alla vista. Dopo ci si avventurava contente ed appagate in giro per il paesino di Urgup pieno ovviamente di manufatti turistici e non. Lì mia sorella ha acquistato due bellissimi tappeti Kilim  in seta uno per me l’altro per Tilla la sorella più grande. Ho notato che nei due paesi in cui sono stata Guatemala e Turchia-Cappadocia dove più è evidente la povertà più sono  usati e più sono splendenti i colori dei manufatti. Inoltre una caratteristica della Turchia sono i nomi che vengono dati agli oggetti e anche alle persone. Un esempio quando ho comprato un piccolo souvenir fatto di stracetti colorati e legnetti che si chiamava “Il grattacielo delle mosche” perchè si appendeva in alto in casa e ad  un lieve alito si  muoveva e  scacciava le mosche. Poi c’era il famoso occhio di Allah propinato in ogni dove e in ogni salsa attaccato persino sul tubo di scappamento delle auto! Ho riportato diversi oggetti dal mio viaggio in Turchia belli e particolari. Dovunque vai trovi sempre negozi con tappeti e chincaglierie anche molto belle ed antiche. Manufatti d’oro  e argento sono molto usati nelle grandi città dove i negozi straboccano per quantità per farti rimanere a bocca aperta ma alla fine anche i tuoi occhi straboccano per l’abbondanza delle merci.
 La Turchia sarà sempre nel mio cuore come terra di una bellezza particolare, come persone ancora con dei grandi sentimenti e perchè lì è stata seppellita Vera, la mia mamma. Da una parte mi dispiace sia così lontana da non poterle fare visita spesso ma dall’altra felice perchè il posto è bellissimo, alberato e le tombe non sono murate ma hanno una cornice di marmo tutt’intorno e poi terra dove piantare fiori e un piccolo abbeveratoio per gli uccelli se mai volessero fermarsi a fare visita e a intrattenere Vera con il loro canto.  Cosa dire di più ? E un paese desertico ma splendido dove le persone applicano ancora molto sentimento che noi stiamo perdendo già da tempo. Torno sempre volentieri in Turchia perchè ho trovato bellezze, cibo  e persone da ricordare per la loro generosità, amabilità, bellezza e rispetto degli anziani in particolare.

PS: se mai qualcuno volesse arrivare ad URGUP consiglio di cuore ES BELLI EVI non ve lo scorderete più ve lo garantisco.

Scarpe per ogni stagione: Nadia

Le scarpe per tutte le stagioni non esistono – di Nadia Peruzzi

foto di Nadia Peruzzi

Scarpe per tutte le stagioni? Mica esistono. Nessuno porterebbe sandali in inverno a meno di abitare nell’altro emisfero. Già, ma lì è estate!
Vale anche per quelle della vita. Ogni step, è proprio il caso di dirlo, ha la sua scarpa, anche se con l’avvento delle scarpe da ginnastica, quelle da estate e da inverno,  il passo di nonne e nipoti ne risulta uniformato, spesso omologato, sotto il marchio di una cosa che non ho mai capito se sia virgola, apostrofo semisdraiato per la stanchezza o quanto di altro mai.
Nel corso degli anni , di scarpe, ne ho indossate di tutti i tipi.
Cuoio, camoscio, tela.
Il tacco alto, purchè un po’ largo, mi ha accompagnato nei miei 20 anni. La mia fase tutta nera e con la minigonna, perché il nero sfina. La fisima dello sfinamento non corrispondeva più alla realtà dei fattti visto che non ero più la “ciccia vampira” di un tempo, ma la fase dark era rimasta come una sorta di copertina di Linus.
Per arrivare ai colori pastello e a scarpe più adatte al cambio di passo cromatico, ci ho messo un bel po’. Poi è stato un fiorire di scalature di rosa e di pervinca, nelle scarpe non ho osato, tuttavia.
Gli anni del comodo e caldo son stati quelli dell’avvento dei pantaloni e degli scarponcini con i lacci. La colonna vertebrale ne trasse gran beneficio , pure i piedi che nelle Clarks trovavano ristoro inatteso dopo anni di punte rigide e di passo incerto e difficoltoso non appena beccavi una buca.
Si viaggiava come un treno. Erano l’ideale nelle manifestazioni. Nel caso la polizia ci avesse attaccato, la fuga era più facile che con le scarpe a tacco alto.
L’estate in montagna le Superga basse e senza carroarmato erano il perfetto contraltare delle Clarks in inverno.
Modello unico, e se non ricordo male anche colore unico, uniche nel loro genere, anche perché allora, o compravi quelle o niente.
Erano anche poco sicure. Memorabile uno scivolone appena uscita dalla funivia Ortisei/Alpe di Siusi. Imboccato il primo sentiero in discesa con i sassolini in movimento caduta assicurata e danno al posteriore pure.
Gli anni 70 per me son quelli delle espadrillas. In estate erano un si deve. La globalizzazione allora arrivava poco lontano. Parlavano spagnolo, eppure indossare le espadrillas aveva un misto di esotico e di figlio dei fiori che in quella fase aveva il suo fascino. Una stagione che per me arrivò fino al 1982, per scomparire in un fiat dal mio orizzonte. Un po’ come capitò ai dinosauri che si sono estinti in un soffio di vento. Nel mio caso fu la giovanile irruenza del passo e la improvvida e poco geniale pensata di poter esplorare Parigi per chilometri con scarpe rasoterra come quelle.
La settimana parigina finì con me che non potevo poggiare il piede destro in terra per un inizio di tendinite. Per fortuna per arrivare alla nostra seconda tappa di viaggio , la Val d’Aosta , dovevamo fare un bel pezzo di viaggio in macchina e la tendinite non volse al peggio. Non ricordo con quali scarpe abbia poi affrontato le valli alpine. Una cosa è certa le espadrillas avevano già fatto una brutta fine.
Ricordo con non minore sofferenza il periodo delle scarpe a punta, quelle che rendevano piedini di fata anche i più tozzi e larghi. Si camminava malissimo, le dita erano tutte un groviglio, almeno per me era così, ma non ci facevo caso. Per esser belle occorre soffrire, si diceva e non adeguarsi sembrava sciocco. Poi non vendevano altro che quelle, mannaggia.
Ovvio che l’alluce valgo attorno ai 60 ne sia stato un danno collaterale, seppure a distanza.
Il seguito è stato una alternanza di scarpe adatte al correre del tempo, al cambio delle mode, allo stile prevalentemente sportivo del mio abbigliamento. Ancora oggi è così.
Eppure, eppure un paio di scarpe nere fighette , col tacco sottile da mise elegante le conservo. Ce l’ho da tempo, ma son come nuove. Le ho messe poche volte visto che non ci si cammina benissimo e in chiave Nadia elegante mi sento sempre un po’ pinguina, come spesso accade agli uomini con lo smocking.
Le tengo di conto come scarpe del non si sa mai.
Quelle per un incontro dopo anni e anni che non ci vediamo. Verresti una di queste sere a cena?
Quelle per un ballo che non hai mai fatto prima e che ora potresti fare fino a che le forze ti reggono. Non a ritmo di valzer, ma rock e molto molto molto ritmo.
Quelle di una corsa sulla spiaggia tenendole in mano, come hai visto nei film.
Quelle del tutto sommato il nero mi dona ancora.
Quelle del sentirsi bene con sé stessi in una rimpatriata fra amiche che hanno solo voglia di ridere a crepapelle.
Si, scarpe da non si sa mai. Quelle dei sogni che assolutamente , ancora, non vuoi chiudere in nessun cassetto.