La storia di Vanna continua

Un maritino malandrino (storia completa)- di Vanna Bigazzi

Prima parte: “Più che altro mi dispiace per la Fede d’oro, ora cosa racconto a mia moglie, non certamente che l’ho persa, mi era strettissima al dito che per toglierla dovevo aiutarmi con l’olio o con la saponetta… Capirà subito che me ne sono liberato per nascondere che sono sposato, gelosa com’è! E chi la convince… Non avrei fatto niente del genere se non avessi notato che quella bionda mi guardava, ammiccante, pur da lontano, in quel bar a Firenze vicino alla stazione, fra l’altro caro: un cappuccino 5,80 per sedersi un attimo in quella poltroncina di finta pelle… Eppure me lo immaginavo che si sarebbe avvicinata sfoderando un bel sorriso, l’occasione fa l’uomo ladro, altrimenti, col cavolo avrei fatto quello sforzo disumano per togliermela e infilarla subito nella tasca della giacca. Accidenti, mi fa ancora male il dito… Firenze, volevo fare una piccola sosta prima di Torino, del resto Roma-Torino, è lunga e Firenze merita una sosta. Però, ripensandoci è stata una bella avventura, quando mi ricapita una ragazza a quel modo! La giacca, la giacca… Accidenti, dove l’avrò lasciata, su quella panchina alla Fortezza, faceva caldo, altrimenti non me la sarei tolta. Certo che non capivo più nulla, fissavo le sue lunghe gambe accavallate con quei tacchi a spillo… E chi poteva resisterle? A proposito nella tasca della giacca, dovrebbe esserci anche uno di quei tacchi; lei faceva la smorfiosa, alla Fortezza, mi provocava saltellando su quelle gambe da gazzella, per farmi intravedere la coscia da quello spacco galeotto della gonna… E’ stato così che il tacco si è rotto ed io l’ho raccolto promettendole di accompagnarla da un calzolaio. Meno male che in borsetta aveva delle cenerentole di riserva! Ah… Potessi ritrovare la mia giacca! Nella tasca avevo anche segnato il suo indirizzo e-mail, mi aveva detto che da un poeta, come mi ero spacciato per farmi bello, si aspettava di ricevere poesie, altro che poesie… Non mi ha lasciato neanche il numero di telefono, chi la rivede quella, devo anche rifare il biglietto per Torino, mia moglie mi aspetta: ‘Prendi un biglietto di sola andata, caro, non sappiamo se ci viene voglia di trattenerci di più in quella bella città, è come un secondo viaggio di nozze! Altro che viaggio di nozze, quando mi vedrà scamiciato, con un dito gonfio, nell’impossibilità di portarla a quella Accademia, la Colombaria, con tutto il rispetto per l’Accademia, perché anche la carta socio avevo, in quella maledetta giacca… La odio quella donna, quando si veste da villanella per unirsi al suo gruppo di Danze Popolari. Avevo in tasca anche una foto di lei con i suoi amici ballerini. Lei era venuta malissimo in quella foto, più grossa il doppio e con quel sorriso ebete sotto il cappellone di paglia, mi è preso rabbia a vederla e ho strappato quella foto, sì, l’ho strappata e i ‘reperti’, anche quelli nelle tasche della giacca… In fondo però, poco male per questo, se me la chiede, le dirò che era venuta sfocata e che il suo bel visino era del tutto irriconoscibile, un oltraggio alla sua bellezza, per questo l’ho buttata…”

Continua: Così farneticava, nella sua disperazione, il nostro Zosimo, eh si…, nome inconsueto ma assolutamente appropriato al suo temperamento. Sembrava che lo conoscessero già i suoi genitori, al momento in cui scelsero per lui questo nome; infatti Zosimo, nome di origine greca, significa “vivace”. Un uomo così malandrino non poteva sposarsi che con una donna accondiscendente e ingenua, che non si accorgesse delle sue marachelle, o per lo meno, facesse finta. Così infatti era sua moglie, credulona, in parte anche per una naturale propensione ad evitare i turbamenti che avrebbero potuto ostacolare lo stato di quiete e gaiezza nel quale normalmente viveva: senza preoccupazioni economiche, senza impegno per i figli    perché scomodi ad entrambi. Così Zosimo poteva improntare la sua vita al modello dell’eterno Peter Pan e la mogliettina su quello dell’oca giuliva che molto raramente perdeva il controllo. Ciò poteva accadere, eventualmente, in occasione delle “proprie cose” così diceva lei. In tali circostanze diventava gelosa e qualche magagna del marito poteva arrivare in superficie; per fortuna, finito il periodo, tutto tornava come prima. Zosimo, scherzando affettuosamente, le prendeva il pacifico, paffuto faccione fra le mani e sorridendo le diceva: “Bella la mia mogliettina, solo così potevano chiamarti i tuoi genitori, Ebetina: nonna Ebe e nonna Tina, che Dio l’abbia in gloria!” Lei felice rideva, facendosi un vezzo di quelle parole.

Rimasto con il solo portafogli e, per fortuna, con i documenti, che teneva nelle tasche dei pantaloni, Zosimo si ritrovò sul treno per Torino, maledicendo la sua distrazione. Perdeva regolarmente chiavi, ombrelli, qualche volta lasciava il cellulare a casa, correndo gravissimi rischi. Ragionava, seduto in uno scompartimento vuoto, con quale regalino poteva presentarsi a Ebetina, per metterla a tacere. Ci voleva un’ idea originale per stupirla, un oggettino pazzo, divertente, bizzarro che la catturasse a un punto tale da deconcentrarla. Ad esempio: un carica-batteria per cellulare con presa USB a forma di Unicorno, certo un gingillo che potesse trovare nei pressi della Stazione di Torino. Zosimo, aveva appunto adocchiato qualcosa nel suo ultimo viaggio di lavoro in quella città. Aveva visto anche una tazza che gira da sola latte, thè o quant’altro: si attiva con un pulsante sul manico, veramente adatta ad una pigrona come lei! Da tenere in considerazione anche quella bella felpa, fra l’altro già vista su internet, con la scritta. “Sono RITARDATA- RIA, ho incontrato un Unicorno”. L’avrebbe fatta ridere moltissimo, avrebbe stimolato il suo senso ironico, prezzo 24,99 neanche tanto in fin dei conti… Zosimo infine decise di acquistarne due fra questi oggetti: quelli che rappresentavano Unicorni. Lei collezionava Unicorni fin da bambina.

Sbrigò velocemente gli acquisti, comperò una nuova giacca simile a quella perduta, trovò da un vu comprà un anello della sua misura, quasi identico alla fede ma con una piccolissima pietra, se lo infilò girando il brillantino dalla parte del palmo, infine si diresse ansioso all’Hotel “Scopella” in via del Poveromo 33, dove lo attendeva la sua Ebetina. Era impacciato per via dei pacchetti, del piccolo bagaglio rimediato strada facendo, così, tanto per essere più credibile. Aveva anche due riviste lette in treno, che non voleva buttare. Per fortuna l’Hotel era vicino alla Stazione, entrò con disinvoltura, nei limiti del possibile, con un bel sorriso stampato in volto, si diresse alla reception: conosceva bene il segretario con il quale, in occasione dei suoi viaggi di lavoro, si intratteneva a parlare, era quasi un amico. Dopo un caloroso saluto questi lo invitò a sedersi nella hall e gli offrì un succulento aperitivo. Non poteva rifiutare, chiamò il ragazzo d’albergo e gli disse: “Per favore, porti alla stanza 28 questo piccolo bagaglio e le riviste, dica alla signora che m’attenda, il tempo di un aperitivo e sarò da lei”. Trattenne con sé i due regali per vedere di persona l’effetto sorpresa. I due amici presero a parlare e forse la cosa si protrasse qualche minuto in più di quello che Zosimo prevedeva. A un certo punto comunque, Zosimo sorridendo si alzò e si congedò dall’amico. Ascensore, primo piano, dove vi erano le camere migliori e via via lungo il corridoio, fiancheggiato dalle tante stanze. “Ah, ultima cosa, devo scartare i regali, mi presenterò a lei con uno in una mano e uno nell’altra,  rimarrà di stucco!” Così fu, arrivato alla camera 28, sempre un po’ trafelato, pensò: “Non busso, ho le mani impegnate, apro la maniglia con il gomito e la sorprendo, come piace a lei!” Detto fatto,  da  da  da  dan, con un balzo fu in camera. Un urlo fulmineo smorzò il suo sorriso dilatato, una confusione davanti ai suoi occhi: le immagini non raggiungevano correttamente il cervello, si sforzò per vedere meglio. Ebetina, discinta sul letto, era mezza aggrovigliata col ragazzo d’albergo, indossava una mise che Zosimo non conosceva: un pagliaccetto in pizzo rosso dal quale fuoriuscivano i suoi coscioni abbastanza disgustosi, evidentemente appetibili per il ragazzo. Subito il giovane si ritrasse, lasciando il corpo di lei allo scoperto. Seguì un silenzio agghiacciante, sembrava che l’eternità fosse discesa in quella stanza. Nessuno si muoveva, i tre: tre statue di sale. Non altro da dire, se non la sensazione di sbalordimento provata da Zosimo: vedeva se stesso all’interno di uno scenario metafisico, surreale: lui, un’impronta statica costellata di miriadi di  corna: quelle della felpa, quella dell’unicorno del carica-batterie, tutte quelle che  sentiva scendere dall’alto, come gocce infuocate, sulla sua testa, in un tripudio esaltante, trionfale. Un’apoteosi grandiosa che, pian piano, lo dissociava sempre più dalla realtà.  

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Autore: lamatitaperscrivereilcielo

Lamatitaperscrivereilcielo è un progetto di scrittura, legata all'anima delle persone che condividono un percorso di scoperta, di osservazione e di ricordo. Questo blog intende raccontare quanto non è facilmente visibile che abbia una relazione con l'Umanità nelle sue varie espressioni

2 pensieri riguardo “La storia di Vanna continua”

  1. Hai capito Ebetina? Alla fine si è dimostrata più furbetta del marito e poi…chi la fa l’aspetti…molto divertente

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