Personaggi e storie – Cecilia

ho accettato la mia stessa sfida….ispirandomi ai meli di Lucia….

Non portava tacchi a spillo – di Cecilia Trinci

foto di Lucia Bettoni

Personaggio: Lo sapeva che era arrivata al tempo in cui si vede il punto in cui sta per finire. L’esistenza, intendo. La quantità di filo a disposizione per cucire un buon vestito era arrivata alle ultime gugliate. Non era alta e non lo era mai stata, ma non portava tacchi a spillo, come un tempo aveva fatto senza troppa fatica, non era magra come invece era stata per diversi anni perché dimenticava di mangiare e era stata sempre in movimento. Non era elegante perché questo le era sempre importato poco e preferiva muoversi a passi lunghi e sicuri, quasi dovesse montare a cavallo e incontrare draghi da combattere dietro ogni curva della vita. Il suo corpo ricordava di essersi arrampicato sui cancelli e i suoi occhi ancora buoni di aver letto molto e incontrato molti sguardi. Sorrideva spesso anche se ora le occasioni erano scarse e muoveva mani grandi piene di anelli, che le facevano compagnia. Una borsa pesante piena di tasche le pendeva sulla spalla sinistra, sbalestrando l’equilibrio che si faceva sempre più precario.

Erano fioriti i meli.

Ogni anno quel momento aveva un valore che non si poteva decifrare e chi era con lei quando lo scopriva non capiva perché il melo dovesse avere tutta quella specialità, pur con lo splendore di quei fiori a mazzolini, sfumati in un intreccio di  bianco e di rosa,  quel rosa così rosa che punta verso il rosso. La vera verità è che si ricordava sua mamma quando annunciava “I meli!!! Sono fioriti i meli!!” e in quell’immagine era rimasta prigioniera la voce di lei.

I fiori tornano sempre e non si sa come fanno a conservare la mappa esatta della loro ripetizione.

 Controllò l’indirizzo scritto a matita sul fazzoletto e scrisse la mail dal cellulare, seduta sulla panchina. Ci pensò ancora un attimo prima di cliccare invio. Ma poi…..ci voleva andare, era importante.

Il fiume scorreva davanti a lei con piccole increspature gialle.

C’era un insolito silenzio. Era quasi ora di cena, grossi corvi planavano in solitaria, un po’ sul campo in cerca di bocconi, un po’ sull’acqua in cerca di fresco, con i loro versi agri, e l’occhio di profilo che  scruta di soppiatto. Si dice “solo come un cane”, ma i cani non sono mai soli. Si dovrebbe dire “solo come un corvo”, piuttosto, che la malinconia la contagiano volando.

L’avevano chiamata. La casa editrice aveva fissato la data per il contratto e lei aveva confermato l’arrivo per domani. Ci andava da sola, in treno. Un viaggio dopo tanto tempo e tanta clausura che le aveva tolto leggerezza.

A Torino c’era stata tante volte. Ogni volta una grande bellezza. D’inverno, sotto Natale, l’aveva attraversata nella pacata eleganza di una città schiva e timida. Piccolissime luci apparivano tra alberelli scuri, spogli e pungevano il cuore, come massimo addobbo di festa consentito  in un buio severo, profumato di cioccolato amaro.

C’era stata in primavera, camminando abbracciata dalla sciarpa della  corona di monti ancora bianchi di neve, che ricordavano scolasticamente “il Po e i suoi affluenti” e Superga, macchiata ancora di morte.

C’era stata anche d’estate, quando i portici servivano a ripararsi dal sole implacabile che faceva rimpiangere il buio e la pioggia dell’inverno, la vera stagione di Torino e dei suoi fantasmi colti, nascosti nei portoni scuri con batacchi enormi.

Mise le mani nella tasca destra della giacca, come faceva sempre automaticamente. Le piaceva vestirsi un po’ maschile, quella giacca poi era di suo padre e le stava bene. Aveva sempre avuto spalle ampie fino da piccola, un broncio un po’ da bimbo quasi sempre nelle foto, una civetteria smilza, senza gingilli e fronzoli.

I bambolotti li aveva quasi sempre affogati il secondo giorno che li aveva avuti in dono. Aveva preferito i trenini e i fucili e i cappelli con visiera o i caschi di penne da indiano. Sorrideva a pensarci. Peccato che avesse imparato tardi a maneggiare archi!

Un po’ le dispiaceva lasciare l’Accademia. Era stata la sua vera passione. Un lavoro bellissimo in cerca di umanità. Anche se da tempo non era più lì, saperla nei dintorni di casa la consolava. Ma ora quel tempo era finito. Ogni dieci anni si chiudeva una porta e se ne apriva un’altra, così, in sequenza, senza strappi evidenti. Non esattamente, però, qualche strappo anche forte c’era stato. Ma ora era tutto lontano.

Il fiume si stava tingendo di rosa. I tramonti adorano l’acqua è innegabile, si moltiplicano in caleidoscopi magici anche su un fiume melmoso e cittadino. Si ricordò di certi tramonti ai “canottieri”. Sotto i ponti c’è un silenzio incredibile, impossibile da immaginare da chi sta sopra.

Sotto i ponti di Firenze c’è un mondo parallelo, fantastico. Ci pensò, ma fu solo un attimo di nostalgia.

Il biglietto per Torino lo aveva già. Era in una di quelle tante tasche della giacca di suo padre. Così aveva ancora un po’ di tempo e infilò la mano nella tasca interna. Adorava quelle tasche segrete dove si dimenticavano tracce. Le aveva sempre invidiate ai signori eleganti che toglievano da lì, con gesti sapienti, oggetti preziosi o scritture intime.

Lei ci trovò una foto. Erano facce di qualche anno prima. Diversi anni prima. Una panchina di Zagabria, tre ragazzi seduti, due in piedi, lei sul bordo con gli occhiali da sole. Neppure una foto ben fatta, un po’ sfocata, sullo sfondo i palazzi nordici con le mansarde. Era la prima volta che partecipavano a un festival internazionale per ciechi. Era ottobre ma il sole era caldo. Erano senza cappotti sotto un sole sciapo. Avevano un non so che nel sorridere……qualcuno ci vedeva, qualcuno no in quel gruppo, ma tutti avevano una vibrazione, un’ambizione, forse, ma buona, positiva, uno slancio di costruttività e di progetto. La  strappò, di getto, in quattro pezzi tutti diversi e li lanciò nel fiume. Galleggiarono per un po’, sopra la patina gialla del fiume, poi piano piano cominciarono a bagnarsi e ad affogare lentamente.

Ormai tutto quello che aveva fatto, tutto quello che ricordava era stato scritto in quel libro: “Non portava tacchi a spillo”, che la casa editrice aveva comprato.

 Si alzò, aveva il tempo per un panino riscaldato sul fornetto di un bar. Avrebbe speso quegli spiccioli e conservato lo scontrino,  così, per ricordo. Magari lo stesso bar dove alla sua bambina aveva comprato tante volte i waffel caldi  per merenda. Pensò che ai nipotini non li aveva ancora mai comprati…..

Ce li porterò, quando torno, disse piano.

Cominciava a scendere la sera. A Torino di certo era già buio.

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La storia di Vanna continua

Un maritino malandrino (storia completa)- di Vanna Bigazzi

Prima parte: “Più che altro mi dispiace per la Fede d’oro, ora cosa racconto a mia moglie, non certamente che l’ho persa, mi era strettissima al dito che per toglierla dovevo aiutarmi con l’olio o con la saponetta… Capirà subito che me ne sono liberato per nascondere che sono sposato, gelosa com’è! E chi la convince… Non avrei fatto niente del genere se non avessi notato che quella bionda mi guardava, ammiccante, pur da lontano, in quel bar a Firenze vicino alla stazione, fra l’altro caro: un cappuccino 5,80 per sedersi un attimo in quella poltroncina di finta pelle… Eppure me lo immaginavo che si sarebbe avvicinata sfoderando un bel sorriso, l’occasione fa l’uomo ladro, altrimenti, col cavolo avrei fatto quello sforzo disumano per togliermela e infilarla subito nella tasca della giacca. Accidenti, mi fa ancora male il dito… Firenze, volevo fare una piccola sosta prima di Torino, del resto Roma-Torino, è lunga e Firenze merita una sosta. Però, ripensandoci è stata una bella avventura, quando mi ricapita una ragazza a quel modo! La giacca, la giacca… Accidenti, dove l’avrò lasciata, su quella panchina alla Fortezza, faceva caldo, altrimenti non me la sarei tolta. Certo che non capivo più nulla, fissavo le sue lunghe gambe accavallate con quei tacchi a spillo… E chi poteva resisterle? A proposito nella tasca della giacca, dovrebbe esserci anche uno di quei tacchi; lei faceva la smorfiosa, alla Fortezza, mi provocava saltellando su quelle gambe da gazzella, per farmi intravedere la coscia da quello spacco galeotto della gonna… E’ stato così che il tacco si è rotto ed io l’ho raccolto promettendole di accompagnarla da un calzolaio. Meno male che in borsetta aveva delle cenerentole di riserva! Ah… Potessi ritrovare la mia giacca! Nella tasca avevo anche segnato il suo indirizzo e-mail, mi aveva detto che da un poeta, come mi ero spacciato per farmi bello, si aspettava di ricevere poesie, altro che poesie… Non mi ha lasciato neanche il numero di telefono, chi la rivede quella, devo anche rifare il biglietto per Torino, mia moglie mi aspetta: ‘Prendi un biglietto di sola andata, caro, non sappiamo se ci viene voglia di trattenerci di più in quella bella città, è come un secondo viaggio di nozze! Altro che viaggio di nozze, quando mi vedrà scamiciato, con un dito gonfio, nell’impossibilità di portarla a quella Accademia, la Colombaria, con tutto il rispetto per l’Accademia, perché anche la carta socio avevo, in quella maledetta giacca… La odio quella donna, quando si veste da villanella per unirsi al suo gruppo di Danze Popolari. Avevo in tasca anche una foto di lei con i suoi amici ballerini. Lei era venuta malissimo in quella foto, più grossa il doppio e con quel sorriso ebete sotto il cappellone di paglia, mi è preso rabbia a vederla e ho strappato quella foto, sì, l’ho strappata e i ‘reperti’, anche quelli nelle tasche della giacca… In fondo però, poco male per questo, se me la chiede, le dirò che era venuta sfocata e che il suo bel visino era del tutto irriconoscibile, un oltraggio alla sua bellezza, per questo l’ho buttata…”

Continua: Così farneticava, nella sua disperazione, il nostro Zosimo, eh si…, nome inconsueto ma assolutamente appropriato al suo temperamento. Sembrava che lo conoscessero già i suoi genitori, al momento in cui scelsero per lui questo nome; infatti Zosimo, nome di origine greca, significa “vivace”. Un uomo così malandrino non poteva sposarsi che con una donna accondiscendente e ingenua, che non si accorgesse delle sue marachelle, o per lo meno, facesse finta. Così infatti era sua moglie, credulona, in parte anche per una naturale propensione ad evitare i turbamenti che avrebbero potuto ostacolare lo stato di quiete e gaiezza nel quale normalmente viveva: senza preoccupazioni economiche, senza impegno per i figli    perché scomodi ad entrambi. Così Zosimo poteva improntare la sua vita al modello dell’eterno Peter Pan e la mogliettina su quello dell’oca giuliva che molto raramente perdeva il controllo. Ciò poteva accadere, eventualmente, in occasione delle “proprie cose” così diceva lei. In tali circostanze diventava gelosa e qualche magagna del marito poteva arrivare in superficie; per fortuna, finito il periodo, tutto tornava come prima. Zosimo, scherzando affettuosamente, le prendeva il pacifico, paffuto faccione fra le mani e sorridendo le diceva: “Bella la mia mogliettina, solo così potevano chiamarti i tuoi genitori, Ebetina: nonna Ebe e nonna Tina, che Dio l’abbia in gloria!” Lei felice rideva, facendosi un vezzo di quelle parole.

Rimasto con il solo portafogli e, per fortuna, con i documenti, che teneva nelle tasche dei pantaloni, Zosimo si ritrovò sul treno per Torino, maledicendo la sua distrazione. Perdeva regolarmente chiavi, ombrelli, qualche volta lasciava il cellulare a casa, correndo gravissimi rischi. Ragionava, seduto in uno scompartimento vuoto, con quale regalino poteva presentarsi a Ebetina, per metterla a tacere. Ci voleva un’ idea originale per stupirla, un oggettino pazzo, divertente, bizzarro che la catturasse a un punto tale da deconcentrarla. Ad esempio: un carica-batteria per cellulare con presa USB a forma di Unicorno, certo un gingillo che potesse trovare nei pressi della Stazione di Torino. Zosimo, aveva appunto adocchiato qualcosa nel suo ultimo viaggio di lavoro in quella città. Aveva visto anche una tazza che gira da sola latte, thè o quant’altro: si attiva con un pulsante sul manico, veramente adatta ad una pigrona come lei! Da tenere in considerazione anche quella bella felpa, fra l’altro già vista su internet, con la scritta. “Sono RITARDATA- RIA, ho incontrato un Unicorno”. L’avrebbe fatta ridere moltissimo, avrebbe stimolato il suo senso ironico, prezzo 24,99 neanche tanto in fin dei conti… Zosimo infine decise di acquistarne due fra questi oggetti: quelli che rappresentavano Unicorni. Lei collezionava Unicorni fin da bambina.

Sbrigò velocemente gli acquisti, comperò una nuova giacca simile a quella perduta, trovò da un vu comprà un anello della sua misura, quasi identico alla fede ma con una piccolissima pietra, se lo infilò girando il brillantino dalla parte del palmo, infine si diresse ansioso all’Hotel “Scopella” in via del Poveromo 33, dove lo attendeva la sua Ebetina. Era impacciato per via dei pacchetti, del piccolo bagaglio rimediato strada facendo, così, tanto per essere più credibile. Aveva anche due riviste lette in treno, che non voleva buttare. Per fortuna l’Hotel era vicino alla Stazione, entrò con disinvoltura, nei limiti del possibile, con un bel sorriso stampato in volto, si diresse alla reception: conosceva bene il segretario con il quale, in occasione dei suoi viaggi di lavoro, si intratteneva a parlare, era quasi un amico. Dopo un caloroso saluto questi lo invitò a sedersi nella hall e gli offrì un succulento aperitivo. Non poteva rifiutare, chiamò il ragazzo d’albergo e gli disse: “Per favore, porti alla stanza 28 questo piccolo bagaglio e le riviste, dica alla signora che m’attenda, il tempo di un aperitivo e sarò da lei”. Trattenne con sé i due regali per vedere di persona l’effetto sorpresa. I due amici presero a parlare e forse la cosa si protrasse qualche minuto in più di quello che Zosimo prevedeva. A un certo punto comunque, Zosimo sorridendo si alzò e si congedò dall’amico. Ascensore, primo piano, dove vi erano le camere migliori e via via lungo il corridoio, fiancheggiato dalle tante stanze. “Ah, ultima cosa, devo scartare i regali, mi presenterò a lei con uno in una mano e uno nell’altra,  rimarrà di stucco!” Così fu, arrivato alla camera 28, sempre un po’ trafelato, pensò: “Non busso, ho le mani impegnate, apro la maniglia con il gomito e la sorprendo, come piace a lei!” Detto fatto,  da  da  da  dan, con un balzo fu in camera. Un urlo fulmineo smorzò il suo sorriso dilatato, una confusione davanti ai suoi occhi: le immagini non raggiungevano correttamente il cervello, si sforzò per vedere meglio. Ebetina, discinta sul letto, era mezza aggrovigliata col ragazzo d’albergo, indossava una mise che Zosimo non conosceva: un pagliaccetto in pizzo rosso dal quale fuoriuscivano i suoi coscioni abbastanza disgustosi, evidentemente appetibili per il ragazzo. Subito il giovane si ritrasse, lasciando il corpo di lei allo scoperto. Seguì un silenzio agghiacciante, sembrava che l’eternità fosse discesa in quella stanza. Nessuno si muoveva, i tre: tre statue di sale. Non altro da dire, se non la sensazione di sbalordimento provata da Zosimo: vedeva se stesso all’interno di uno scenario metafisico, surreale: lui, un’impronta statica costellata di miriadi di  corna: quelle della felpa, quella dell’unicorno del carica-batterie, tutte quelle che  sentiva scendere dall’alto, come gocce infuocate, sulla sua testa, in un tripudio esaltante, trionfale. Un’apoteosi grandiosa che, pian piano, lo dissociava sempre più dalla realtà.