Fiori che parlano

Fiori – di Nadia Peruzzi


C’è un fiore che mi rappresenta di più? Uno che mi sta più a cuore? Me lo sto chiedendo da quando ho visto tutta la sequenza di foto magnifiche sul nostro gruppo di Matite.
Per quanto ci provi, non riesco ad eleggerne uno in particolare. Li amo tutti, mi emozionano tutti per motivi diversi ma complementari.
Ognuno a suo modo esprime la ricchezza della natura. Sia che si tratti del più comune che spunta nei campi in solitudine o in gruppo, senza alcun aiuto da parte degli umani, e per merito di un’ape sbarazzina ,del vento, dell’aria, del sole o della pioggia che bagna e ristora.
Che siano semplici, comuni o pregiati esempi di mondi ed habitat lontani che abbiamo addomesticato come le orchidee ognuno racconta una storia potente che porta gioia ,arricchisce regalando sensazioni.
Parlano i fiori a chi li sa ascoltare.
A seconda dei colori da una semplice rosa deriva la descrizione di sentimenti che più umani non possono essere. Rosso, passione. Giallo, vivacità e più di un pizzico di gelosia. Bianco, purezza e spiritualità.
Un papavero rosso messo all’occhiello in un tempo lontano e sotto il regime fascista era l’evidenza di una ribellione che covava sotto un consenso che più asfissiante non poteva essere. Spesso era causa di bastonature e indigestione di olio di ricino, ma come per la Fenice gli antifascisti non cessavano di farlo risorgere mettendolo di nuovo al suo posto come gesto di sfida.
Anche dopo e pure in un contesto diverso e insieme a delle papere in una canzone i papaveri erano in grado di far sentire la loro carica di rottura di uno schema attraverso una bella satira di tipo politico.

foto di Nadia Peruzzi


Il Primo Maggio francese regala a tutti mazzolini di mughetto. Non c’è semaforo o incrocio anche fuori dalle grandi città che non veda gruppi di volontari pronti a offrirli a chi passa.
È capitato anche a me di riceverne uno di questi mazzetti delicati e profumati. Bonne chance, buona fortuna il motto di accompagnamento. Un dirselo con i fiori che superava i confini, aveva un significato universale e andava oltre il gesto fra chi me lo donava e me. 

foto di Mimma Caravaggi


I prati di montagna nel rigoglio estivo conquistano per diversità di tipi, colori, profumi. Un mix che trovo senza uguali. In prati così ti viene voglia di farci un tuffo per nuotarci dentro. Povero Zio Paperone che il mondo lo vede dall’interno del suo deposito pieno di dollari e il bagno lo fa circondato da monete luccicanti di freddo e insensibile metallo.
Mentre scrivo getto un occhio di riguardo alle mie orchidee e ogni volta che lo faccio mi dico che vorrei poter una volta o l’altra trovarmi immersa in un bosco colorato dalle loro mille e mille sfumature. Si fa sempre più difficile andare a pescarne qualcuno a giro per il mondo di questi tempi e allora accontentiamoci di vederle rinascere anno per anno. Lo considero un regalo per aver trovato dopo alcuni tentativi falliti ,un posto pieno di luce che a quanto pare le fa star bene.

Bouquet da sposa

Il bouquet da sposa – di Gabriella Crisafulli

foto di Cecilia

Quella mattina aveva aperto gli occhi alle prime luci dell’alba.

Si era destata al muggito dei buoi ed era molto stupita.

C’erano le stalle in quel resort a molte stelle?

Aveva detto qualcosa a sua sorella che dormiva accanto ma lei non si era accorta di nulla.

Faticava a riaddormentarsi perché l’eccitazione era troppo forte: era il giorno del suo matrimonio ed era follemente felice.

A tanti anni di distanza non ricordava tutto di quell’evento ma una cosa le era rimasta dentro.

Dopo il rinfresco con parenti e amici, erano andati via in automobile da Rimaggio in direzione di Firenze, lungo la strada che segue il percorso del fiume.

Al bivio, al n°1 di via Villamagna, appena sorpassata la villa “La Vagaloggia” che copriva la vista del fiume, gli aveva chiesto di accostare a destra. Era scesa, si era affacciata alla spalletta e aveva affidato alle acque il suo mazzolino da sposa: non voleva vederlo appassire. 

Adesso sapeva che al momento giusto si sarebbe tuffata e lo avrebbe ripescato.

Era rimasto intatto, ne era certa, e lo avrebbe portato al suo amore.

La scoperta dei fiori

Incontro – di Gabriella Crisafulli

foto di Carmela De Pilla, Patrizia Fusi e Lucia Bettoni

Il viaggio era stato lungo e fumoso con la locomotiva che per tutto il percorso aveva sbuffato una nuvola nera dalla ciminiera.

La zia abitava davvero lontano.

In quel viaggio dei suoi dieci anni scoprì molte cose, che lei, chiusa in una caserma, non aveva mai visto.

La casa dove la zia viveva con la famiglia era molto diversa dalle abitazioni conosciute fino ad allora. Non era un appartamento, non era una villa, non era un edificio imponente e massiccio come una caserma.

Era un fabbricato inserito in una serie di residenze unifamiliari a schiera affacciate sul lungomare dove al pianterreno si trovavano soggiorno e cucina mentre al primo piano erano disposte le camere da letto e i servizi. Ma la cosa più sorprendente per lei fu rendersi conto che una casa poteva avere un giardino. Infatti sul retro ce n’era uno, grande, disordinato, affollato, fitto di alberi e di aiuole.

Fu allora che scoprì l’esistenza dei fiori.

C’erano dalie, zinie, gerbere, gigli, … e, arrampicati in fondo, contro la collina, buganvillea e gelsomino.

Per lei che veniva dalla fatica del ritrovamento di timide primule e delicati mughetti nascosti nelle pieghe del terreno, da rintracciare con impegno nelle rare passeggiate e anche dalle trionfanti ortensie coltivate in residenze signorili, tutti fiori privi di odore e dai colori tenui, vedere quell’esplosioni di tinte forti e di profumi intensi significò capire che quello era un altro mondo.

Ci sarebbe ritornata in quel mondo una decina d’anni dopo.

In un mondo dove i fiori, gli animali e le persone si curano e si crescono per quelli che sono, in un dialogo fatto di rispetto, di amore e di cura che mantiene vivi.

Ci sarebbe rimasta a lungo.

Ma adesso era davvero troppo doloroso ricordare.

foto di Nadia Peruzzi

«C’è un salice che cresce storto sul ruscello e specchia le sue foglie canute nella vitrea corrente; laggiù lei intrecciava ghirlande fantastiche di ranuncoli, di ortiche, di margherite, e lunghi fiori color porpora cui i pastori sboccati danno un nome più indecente, ma che le nostre illibate fanciulle chiamano dita di morto.
Lì, sui rami pendenti mentre s’arrampicava per appendere le sue coroncine, un ramoscello maligno si spezzò, e giù caddero i suoi verdi trofei e lei stessa nel piangente ruscello.
Le sue vesti si gonfiarono, e come una sirena per un poco la sorressero, mentre cantava brani di canzoni antiche, come una ignara del suo stesso rischio, o come una creatura nata e formata per quell’elemento. Ma non poté durare a lungo, finché le sue vesti, pesanti dal loro imbeversi, trassero la povera infelice dalle sue melodie alla morte fangosa.»
(Amleto, Atto IV, scena VII)

Dove c’è un fiore c’è casa

I fiori del nostro giardino – di Tina Conti

foto di Tina Conti e Cecilia

FORSE PERCHÉ SONO NATO POVERO, DA ME NON C’ERANO FIORI.  LA PRIMA A PORTARMENE, E’ STATA BELLA……………POI IN FRANCIA ………….SI PUÒ RIFLETTERE E PENSARE A LUNGO SUL SENSO DEI  FIORI, MA PER ME SONO LA VITA STESSA NELLA SUA SMAGLIANTE FELICITÀ. NON È POSSIBILE  FARE A MENO DEI FIORI. I FIORI POSSONO  FARE DIMENTICARE UN MOMENTO DRAMMATICO, MA POSSONO ANCHE RIEVOCARLO…..”

                                 Marc Chagall   1931 

Nelle opere di Chagall , ci sono sempre  mazzi di fiori, mi sono accorta che anche nella mia vita i fiori sono  importanti.

Nel bicchierino vuoto del gelato, in una vecchia bottiglietta, nella scatola di latta arrugginita, la mia casa di bambina e quella di adulta si è sempre scaldata con un piccolo mazzolino.

Anche quando sono in viaggio mi ritrovo in albergo con un ciuffo  di fiori nel bicchiere, è diventato un gesto indispensabile. Per sentire. La pace nel cuore e la sicurezza  protettiva della natura.

Quando sono in un posto nuovo, ho chiara la consapevolezza del tipo di piante e fiori che ho incontrato.

Mi piace condividere questa passione  e sperimentare l’allevamento di piante che possono adattarsi al clima del mio habitat.

I giardinieri sono stati i miei primi amori, mi sembrava magia quello che facevano con le piante, e immagazzinavo tutte le indicazioni possibili per  impadronirmi dei loro segreti.

Il mio babbo, nel suo orto, dedicava spazi marginali  ai suoi fiori.

Il lilla’, una rosa rampicante, le dalie, qualche giacinto.

Erano i fiori che la domenica, accompagnati da  rametti verdi, portava al cimitero, al fratello, alla mamma.

Non si compravano fiori, si curavano e si crescevano, era un atto d’amore che durava una stagione, era un dialogo che rimaneva vivo.

Queste consuetudini restano, si assorbono senza esserne consapevoli.

Io porto  i fiori come un messaggio, un collegamento con la casa, la famiglia, la stagione, i ricordi e l’affetto, li sistemo  con raccoglimento lasciando un pezzo di vita e ascoltando i ricordi e le emozioni.

Se non ho fatto in tempo e devo comprarli, non mi sento a posto, mi piace portare i fiori del  nostro giardino, piante che trasportano amore e gratitudine.

Fiori di rosmarino

Fiori di rosmarino – di Carla Faggi

foto di Carla Faggi

Piccoli petali scaruffati, non allineati, viola pallido, celeste, lilla, non saprei definire il colore, ma di una cosa sono certa è un colore delicato e trasparente come l’acqua del mare.

Piccoli fiori fragili che vicini e raggruppati sanno stare insieme e insieme fanno un rametto fantastico di fiori e foglioline e insieme sono forti, robusti e coloratissimi…..

e insieme fiori e foglioline sanno distribuire a chi ne ha bisogno tutto quello che possiedono, la loro bellezza le loro proprietà benefiche, il loro aroma ed il loro profumo.

Le foglioline sono aghiformi ma la loro punta è arrotondata, sono tantissime e insieme ai tantissimi fiori creano degli arbusti resistenti , puoi strapparne un ramo , ma la pianta del rosmarino resta lì, tenace, forte e robusta.

A chi dedico questo fiore, questa pianta del rosmarino?

La dedico a tutti quegli uomini che sanno piangere davanti ad un film, che sanno dare tutto quello che possono perchè solo insieme agli altri si costruisce un mondo migliore….

che sono coloratissimi e trasparenti perchè la bellezza dei nostri sentimenti, chi vuole può percepirla, che sanno che si può proteggere con le punte arrotondate e con la condivisione.

Grazie babbo che hai fatto parte di questi uomini.

Un mazzo di fiori di campo

Mazzo di fiori – di Patrizia Fusi

foto di Patrizia Fusi

Vorrei poter portare un bel mazzo di fiori di campo, colorati e profumati a mia mamma, per ringraziarla per tutto quello che ha fatto per me e per tutta la famiglia, e chiederle scusa di non averla capita prima.

Ora che sono vecchia ho riflettuto tanto su di lei e ho capito i valori che mi ha trasmesso senza dirmi parole ma seminando dentro di me, con gesti quotidiani e con l’esempio. Semi che tenevo dentro anche quando la contestavo, erano dormienti, ma piano piano sono venuti fuori e ho iniziato a seguire la mia, di famiglia, seguendo il suo esempio.

Vorrei che il mio mazzo fosse di fiori semplici, dal più piccolo che si trova nei prati, nei campi o lungo i bordi delle strade o nelle macchie, come le manine di Gesù di un color giallo e rosa tenue, ai fiori più complicati: la calla così elegante nel suo fiore bianco con il pistillo giallo e le belle foglie verdi grandi come ali, fino ai lilium, alle rose profumate, ai gigli, ai tulipani e alle dalie che non usano più….

Vorrei che portarle questo mazzo fosse un momento di gioia.

Per lei e per me.


Il Tempo

Il Tempo – di Simone Rovida

Testo registrato direttamente dall’intervento di Simone Rovida sul Tempo, il giorno 4 aprile 2017, al Monastero Dell’Incontro, riservato al gruppo delle Matite

Sant’Agostino uno dei padri fondatori del pensiero cristiano, ha scritto una delle più importanti riflessioni sul tempo.

Siamo alla fine dell’antichità eppure dice:  “Cos’è il tempo? Chi saprebbe spiegarlo in forma  piana e breve? Chi saprebbe formarsene anche solo il concetto  nella mente   per poi esprimerlo a parole? Eppure quale parola più familiare e nota del tempo ritorna nelle nostre conversazioni? Che cos’è il tempo? Se  nessuno mi interroga io lo so, se volessi spiegarlo a chi mi interroga, non lo so. Quindi non possiamo parlare con verità dell’esistenza del tempo”.

Ha ragione S. Agostino. Quante frasi  ci sono comuni: non ho tempo, ho fatto tardi, ho perso tempo, il domani, il passato….ma se chiedessi: chi può definire  il tempo?

Abbiamo bisogno di capire, di dare il nome alle cose, come ha fatto Adamo. E se volessimo dare un significato al tempo come lo potremmo definire?…..e poi il tempo esiste?

(Germana: è un miscuglio di umori, siamo fatti di tempo, il tempo esiste dentro di noi.)

Nella storia dell’umanità sono state date spiegazioni diverse. E’ un tema aperto, non c’è nulla che non sia stato detto e nulla che non sia stato considerato vero o considerato falso.  I filosofi si sono chiesti: forse il tempo esiste perché esistiamo noi? Lo abbiamo inventato noi?

(Aldo: il tempo è una definizione convenzionale che usiamo per definire qualcosa che non si può percepire con i sensi ma che ci riguarda sempre. Viviamo in questa bolla che abbiamo voluto definire con questa parola)

C’è chi ha considerato il tempo come qualcosa che vive dentro di noi, ma abbiamo bisogno di capire qualsiasi cosa e dare anche un nome e lo diamo anche a ciò che è immateriale. Spesso pensiamo a qualcosa di astratto come se fosse materiale. E lo facciamo anche col tempo. Io sego il tempo quando dico: passato, presente, futuro, ma di fatto queste tre cose non esistono. Consideriamo con regole materiali quello che materiale non  è.

Per esempio riusciamo a capire l’infinito?

Il problema dell’essere umano è riuscire a concepire qualcosa che è astratto. Non abbiamo percezione dell’infinito. Lo capiamo attraverso la ragione, i calcoli, l’astrazione, ma la concretezza dell’esperienza ci manca.

Siamo esseri meravigliosi ma di fronte a problemi così vasti, come il tempo, non riusciamo ad essere del tutto convinti. Pensiamo il tempo come a qualcosa di concreto su cui agiamo in modo concreto. Per questo lo tagliamo, come dice l’etimologia della parola. Il passato, il presente, il futuro sono sezioni di qualcosa che in realtà non è concreto.

Vediamo le possibili  forme del tempo.

Un cerchio.

E’ una linea che delimita uno spazio, che si ripete, (Germana ci vede una cosa chiusa, non ci vede prospettiva.  Cecilia: se si guarda il dentro si vede il limite, se si guarda il fuori si vede l’infinito. Dipende dagli occhi con cui si guarda. )

Fuori è infinito. Dentro? (Aldo: c’è il presente)

Si aprono considerazioni anche su altro, per esempio l’anima. Il cammino è cosa c’è al di là di quello di cui possiamo avere esperienza diretta?  (Cecilia: la parola “sempre” è l’infinito) Siamo talmente cocciuti che cerchiamo di definire con parole anche quello di cui non abbiamo competenza. La creiamo noi e poi ci crediamo. Il tempo lo si racconta. Non esiste ma ne parliamo.  (Cecilia anche il tagliare in epoche: passato, presente, futuro è una nostra umana volontà, lo decidiamo noi dove porre il taglio)

Con il cerchio hanno definito il tempo i primi filosofi. Qualcuno ha detto che il non tempo è il divino.

Eterno è il tempo dell’assoluto, del divino, il nostro pensiero non lo concepisce. Si accetta per fede.

Dio non ha né inizio né fine, il suo segno è il cerchio. In un cerchio è impossibile trovare inizio e fine. Il centro è l’essere, ciò che non nasce mai, non muore mai. E’ l’essere, un’astrazione che si accetta per razionalità.

Anche Dante ne parlava: il Motore Eterno. Il tempo delle cose divine.

Altro segno è:

Il tempo che si ripete. Una sequenza con una freccia. Alti e bassi, corsi e ricorsi della storia, fasi, alternanza.

Concezione successiva del tempo, già più complessa.

 Di Platone e Aristotele, il tempo ciclico. Circolare non vuol dire ciclico. Il movimento esiste se c’è una spinta iniziale. Questo è un movimento ciclico, questi filosofi credevano che il tempo ricominciasse.  Il tempo diventa esperienza quotidiana. Si domandano cos’è l’agire, cosa sono le esperienze. Il tempo non è più solo un concetto astratto, ma entra nella quotidianità.  Anche quando si torna indietro in realtà andiamo in una direzione. Non siamo fermi.

Nella nostra vita pensiamo alle stagioni. Anche se sono sempre diverse, siamo noi a credere che torni  LA primavera sempre uguale. Le stagioni in realtà sono sempre diverse. Ci piace pensare alle quattro stagioni, in realtà sono diverse….forse non sono quattro…

Il movimento ci riguarda più da vicino, non si tratta più di un tempo astratto lontano dall’uomo.

Questo tempo è l’Evum.  C’è un corpo che muore ma un concetto che resta. Per esempio la Chiesa lo adatta al concetto del Papa. Il papa muore ma non la sua essenza. Ma anche il re vive della stessa concezione. Il re muore ma la regalità resta.

La vera novità del pensiero cristiano riguardo al tempo è stata il campanile. Le torri campanarie rappresentano la nostra municipalità. Si cominciano a costruire campanili. Poi gli orologi meccanici. L’idea rivoluzionaria è che non solo il campanile scandisce la liturgia, ma anche il lavoro. Per la prima volta nella storia dell’uomo il tempo si può possedere. Il tempo diventa tuo perché la campana e l’orologio ci danno il tempo nostro. Ogni singolo individuo può avere tempo. Il tempo è denaro nasce in questo periodo. Si scende dalle grandi considerazioni e si scende nel pratico. Siamo nel  XII-XIII secolo

Altro segno: un punto

Può essere un centro, mi proietta nell’infinito. Il piano è infinito perché formato da infiniti punti.

I grandi filosofi greci rappresentano il tempo con un punto. Kairòs. E’ il momento, è l’occasione,  è l’esserci ora. In questo momento sento l’assoluto. L’essere umano anela a questo momento. C’è chi dice che è nell’attesa che si consuma il massimo del piacere. Si dà per la prima volta un’interpretazione qualitativa e non quantitativa del tempo. Cerchio o linea sono quantità. Il punto è il tempo-occasione, è il tempo nostro. L’essere umano crede di aver raggiunto il suo obiettivo. E’ il momento….. ma è occasionale. C’è il punto anche nell’ortografia  e indica una scelta.

(Germana: Un punto può essere anche un addio, qualcosa che finisce per sempre)

(Aldo: nasce e muore lì)

(Cecilia: quando si mette punto e a capo, il valore di quel punto è che decidiamo dove finire qualcosa. Decidiamo mettendo un punto)

(Aldo: nel momento in cui finisce ricomincia qualcosa d’altro visto che il tempo non si può fermare)

Questo è un concetto caro al Romanticismo. Aneliamo a qualcosa di perfetto che non raggiungiamo.

Qui è più difficile pensare al movimento. Il punto è fermo.

(Lorenza: forse il concetto giorno-notte rientra in questo concetto e vale per tutti, dall’inizio del mondo)

In realtà parliamo del tempo ma forse parliamo invece di spazio. I disegni che stiamo guardando sono “spazio”. Non riusciamo a scorporare tempo e spazio. Qualcuno dice allora il tempo è spazio?

Il sole è il primo datore di tempo, nasce dal sole la nostra percezione di tempo. Ma il sole è anche spazio.

Il tempo produce effetti su di noi, che vediamo. Il primo effetto che vediamo è l’alternanza notte giorno.

Perdere tempo, non c’è tempo, non abbiamo tempo……sempre, come in queste espressioni,  c’è una relazione con qualcosa d’altro.

Tutti i filosofi si sono occupati del tempo non venendone mai a capo.

Quello che avete detto è che kairòs è il tempo della scelta.

Vi parlo di Seneca, che dice: il sapiente è quello che ha consapevolezza, è quello che riesce a capire che il tempo è una questione di scelte” Seguendo la ragione l’uomo fa il bene. È anche una scelta morale dunque. 

L’uomo si comporta bene quando si comporta secondo ragione. Il sapiente è chi si rende conto che il tempo è una questione di scelta. In questo momento è giusto fare o non fare questa scelta. Altrimenti si pensa il tempo come qualcosa di concreto. Seneca distingue gli uomini in due categorie:

 occupatus è chi fa cose per sentirsi il tempo dentro, è chi fa tante cose, chi si sente obbligato.

Il quiescens aspetta lo scorrere del tempo senza fare scelte. Amleto rappresenta questo soggetto. Chi non sceglie rappresenta  un’aberrazione. Chi è saggio sceglie ed è l’unico modo per essere felici.

(Stefania si può essere obbligati ad essere in un modo o nell’altro ma l’importante è la consapevolezza di quello che si fa)

L’unica cosa per Seneca che conta è essere qua ora.

Il passato non mi tocca più, il futuro ancora non mi tocca. Può essere una posizione contestabile anche se l’ha detto Seneca. Quello che conta è un presente infinito. Ogni momento che faccio una scelta è un Kairòs che mi può aprire porte infinite.

Altro segno è: un inizio che va verso qualcosa. Linea retta

E’ il tempo finito, lineare. Non è né circolare, né ciclico…è un tempo finito. E’ il più facile da comprendere.

Tempo medievale. Si distingue il tempo dell’uomo(finito) e il tempo divino (infinito)

E’ ciò che nasce, cresce e muore. E’ il tempo occidentale. Si agisce in vista di uno scopo unico. E’ ben direzionato e lo possiamo dividere. E’ una rappresentazione quantitativa: c’è oggi, ieri e domani.

E’ un tempo irreversibile, non si torna indietro, si può solo andare avanti. E’ il tempo biologico.

L’ultimo è tra 1500-600.

Segno:

E’ un tempo spiraliforme, la visione moderna.

Rappresentazione più complicata del tempo. Quando ci si convince che è il sole al centro dell’universo tutto viene sconvolto. Tutte le categorie del tempo vengono sconvolte. Crollano le divisioni ben separate di tempo, si mescolano. Il concetto di tempo si confonde, può essere l’infinitamente grande ma anche l’infinitamente piccolo,  non è un motore immobile, può essere un movimento perenne, può essere il tempo di Dio e della Natura.  Giordano Bruno, Galileo Galilei sono i pensatori d questo periodo…..è stata la crisi delle certezze. Il tempo ritorna ma è diverso, c’è chi parla dell’eterno ritorno dell’uguale.

E’ il tempo moderno, come concepiamo oggi l’infinito. E’ il tempo di una cosa come il mare perché quando diciamo “vado al mare” pensiamo a qualcosa che crediamo sempre lì. Lo vediamo sempre uguale,  fatto di acqua, con un moto ondoso, poeticamente percepiamo “le onde del mare”, ma ogni onda è unica, ognuna è diversa e quando ha finito ha finito. Lo percepiamo come unità che si muove, e  ci dà l’idea di eterno, di qualcosa che si ripete e che si trasforma. E’ perenne o è finito? E’ tutte e due le cose: è la vertigine della concezione moderna del tempo.  

Non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume anche se il fiume rimane quello.

Essere e divenire sono la stessa cosa

Poi si arriva a Einstein. Si arriva al concetto velocità-tempo e al fatto che aumentando la velocità diminuisce il tempo. Addirittura si arriva alla teoria che si possa tornare indietro nel tempo variando la velocità.

E’ il clima in cui ha vissuto Shakespeare. Montaigne dice che quello che posso fare è solo raccontare la mia testimonianza di un passaggio, non posso raccontare l’essenza delle cose. Non si racconta l’essenza ma il passaggio.

Shakespeare nel monologo finale di Macbeth dice: ”E Domani e  domani e domani,  Il tempo striscia fino all’ultima sillaba del tempo registrato (concesso) ” e ancora dice che “il tempo è la vita di un attore che strilla sul palcoscenico di cui dopo non si saprà più nulla”. E ancora “la vita è il racconto di un idiota che non significa niente”.

Tutto quello che posso fare rispetto al tempo è raccontarlo. Anche Shakespeare dice che ci è concesso un tempo e lo viviamo finché arriviamo all’ultima sillaba e usa questo termine, lo sceglie, non dice goccia o punto.  

Nel monologo finale di Macbeth Shakespeare dice che forse dopo la morte non ci sarà nulla ma quello che conta è vivere  la sillaba del tempo che abbiamo avuto. Il tempo è un racconto. Il tempo lo posso solo raccontare e basta. Non lo posso capire, non lo posso spiegare, rischio che non esista e allora l’unica cosa possibile è che ne posso parlare, lo posso raccontare. Il tempo è una costruzione narrativa. Per poterlo raccontare, per poterne parlare l’evento deve essere concluso, finito. Non possiamo scrivere di qualcosa che stiamo ancora vivendo. Scrivere implica un momento successivo a quello in cui lo abbiamo vissuto. Ogni storia si può solo raccontare dalla fine, infatti per scrivere ci si volta indietro e si sceglie un inizio, una fine e un corpo centrale di qualcosa che è già accaduto.

Quindi possiamo dire con Shakespeare che quello che conta è la parola e il racconto. Il tempo esiste nelle storie dove necessariamente lo scrittore o il narratore  deve muoversi  in un prima e in un dopo.

 L’uomo dunque, forse, è il solo vero inventore del tempo.

Fiori di campo

Fiori di campo – di Sandra Conticini

foto di Cecilia, Sandra, Patrizia, Tina

I fiori più belli, per me, sono i fiori di campo, anemoni, tromboncini, fresie, giacintini, che nascono nei campi e, anche se sembrano fragili, reggono l’acqua, il sole, il vento e spesso  l’ultima neve di stagione. Annunciano la primavera e

l’ inizio della rinascita.

Altri fiori a cui sono molto legata sono i garofanini profumati bianchi,  perchè erano nel giardino del nonno e, quando andavo a scuola e arrivava maggio, mese della Madonna, tutti i giorni la maestra, insieme al rosario, ci faceva portare un fiore con un bigliettino attaccato dove dovevamo scrivere il fioretto che avevamo fatto quel giorno. Io spesso portavo i fiori di quel giardino che potevano esssere o  roselline rosse o garofanini.

Un messaggio fiorito – di Sandra Conticini

Vorrei ricoprirti di fiori, quei fiori semplici, che tante volte abbiamo raccolto insieme. I nostri fiori di tutti i colori: gialli, bianchi, rossi, pervinca e profumati come eri te quando ti stringevi e ti stringi a me in cerca di conforto.

Vorrei poter correre ancora insieme, ridendo a crepapelle e vedere chi arriva prima a cogliere il fiore più bello e più lontano, ma il fiore più bello sei te e io sono e sarò sempre qui ad ascoltarti e a darti aiuto in caso di bisogno.

Un grandissimo abbraccio!!!!

Rosa d’autore

Pierre de Ronsard – di Carmela De Pilla

foto e fiori di Carmela De Pilla

Me ne sono innamorata subito, appena l’ho vista.

Fra tutte lei era la più bella, mille sfumature l’accarezzavano e diventava unica, il rosa intenso del cuore via via si tramutava in rosa pallido fino a confondersi con il bianco perlaceo.

Lei, così fragile, ma così sicura di sé, consapevole della sua bellezza si pavoneggiava in mezzo ad altrettanta bellezza e teneva ben dritto il capo quasi a dire” Prendimi”.

Non ho cercato altro, lei mi bastava, era proprio così che la volevo, decisi di prenderla davvero pur essendo ancora piccola e delicata, ma ero certa che sarebbe diventata bellissima.

Sono anni che mi prendo cura di lei, lo faccio con amore stando attenta ad ogni suo minimo cambiamento, la osservo scrupolosamente pronta ad intervenire qualora avesse bisogno del mio aiuto.

Prima ancora che arrivi la primavera mi piace dedicarle un po’ del mio tempo, come sempre saprà essere molto più generosa di quanto non lo sia io con lei così mentre la curo… canto, so che mi ascolta e un benessere reciproco ci avvolge.

Pierre de Ronsard si chiama, perfino il nome mi piace, immagino il signor Meilland, romantico e sognatore che dopo tanti tentativi trova l’armonia tra colore, forma e profumo.

È diventato un roso ormai e quando Maggio fa capolino, i boccioli eleganti quasi fossero di porcellana si fanno spazio a decine tra le foglie verde scuro e vogliosi di esprimere tutta la loro bellezza si alternano a rose già sbocciate le cui corolle sensuali e ricche di petali guardano in basso un po’ intimidite dalla loro stessa bellezza e nelle notti di luna piena l’argenteo raggio le illumina e un attimo di gioia mi riempie tutta.

Dal passato: una storia fiorita

Il canto della terra (2017)

foto di Anna Meli, Carmela De Pilla, Lucia Bettoni, Mimma Caravaggi, Patrizia Fusi

Storia a più mani scritto da (nell’ordine): Elisabetta Brunelleschi, Stefania Bonanni, Rossella Gallori, Lorenzo Salsi, Emilia Caravaggi, Patrizia Fusi, Nadia Peruzzi, M. Laura Tripodi, Sandra Conticini, Simone Bellini

Da un  robusto cancello di ferro sempre spalancato iniziano i due chilometri di viale che conducono a villa Velci. La strada sterrata che da qui si dipana, sale tra terrazzamenti popolati di olivi, vigne e file ordinate di giaggioli.

Non ci sono recinti e il giardino si annunzia con il lento cedere della campagna coltivata a balzi occupati da viburno e allori, incroci segnati da cipressi, collinette con corbezzoli e conifere. Poi lecci, vetusti e ombrosi lecci che sempre più fitti si sostituiscono ai luminosi oliveti, fino a formare un suggestivo bosco che finalmente proclama l’esistenza di un giardino ampio e multiforme.

Il viale avanza in una verde galleria di rami contorti. Quando il buio del bosco sembra non finire, improvvisamente il panorama si apre sulla neoclassica facciata della villa, preceduta da un laghetto e da un prato immenso, che ad ogni primavera si riveste dei colori di margherite, ranuncoli, anemoni, giacinti. Migliaia di fiori sparsi nell’erba e chiusi da una corona di tazzette, tromboni e giunchiglie allineata sul limitare del prato.

Il viale attraversa il prato, lambisce il laghetto popolato  di pesci rossi e abbellito da ninfee  che creano riflessi di luce e ombra nelle acque trasparenti e alla fine approda nello spiazzo lastricato prospiciente l’ingresso tra da vasi di gerani e panchine in ferro battuto.

Il portone, sormontato da un ormai sbiadito stemma di famiglia, immette nel cortile quadrato. Da  un lato lo scalone monumentale che conduce ai piani nobili, dall’altro le porte che immettono ai saloni del piano terra e, nel fondo, una vetrata lascia intravedere la zona del giardino forse più intima e particolare che si affaccia sulla sottostante vallata.

Al centro è posta una vasca con un putto alato e zampillante e cespugli di rose antiche delicatamente profumate crescono tra le siepi.

Giuseppe Brandini, trisavolo di Linetta e Giovanna, le attuali proprietarie, era un facoltoso commerciante di vini nel quartiere di Santa Croce. Nel 1860 si decise a investire l’ingente capitale, nell’acquisto di quell’ampia e antica tenuta da anni trascurata. Sotto la sua guida  ritornarono a produrre i dodici poderi coltivati da altrettante famiglie di coloni, la villa riprese il suo antico splendore e il parco \giardino, invaso dai rovi e decimato da anni di tagli indiscriminati, fu completamente rifatto. Ora questa ampia architettura di verde impegna giorno e notte i pensieri e il portafoglio delle due sorelle. I giardini sono esseri fragili e bisognosi di cure. Bastano pochi mesi di incuria e la magia di un prato si può perdere in penosi rotolii di cinghiali. Un temporale più forte del solito e rami o alberi interi se possono andare. Mentre gli accumuli di fogliame non rimossi possono occludere il lento defluire delle acque dal laghetto verso i fossi che scendono nel bosco.

Per questo non possono fare a meno di un giardiniere. 

 Quando scelsero Beppe lo fecero perché era bravo, anche se tutti  dicevano sempre che era un perdigiorno, che faceva i balocchi, invece di pensare a mettere insieme il desinare con la cena. Perdeva le giornate con il naso tra la salvia e il ramerino. Seguiva le farfalle, si perdeva tra i petali che cadevano in primavera dai peri e dai mandorli. Di zappare, non se ne parlava. Di concimare, meno che mai. Solo profumi, e fiori, e farfalle. Lo pigliavano un po’ in giro. Lo chiamavano “contadino profumato”  Fu allora che cominciò a farsi chiamare “curatore di giardini”, e poi “curatore di giardini antichi”, quando cominciarono ad andare di moda le ville che si aprivano ai turisti.

Frequentava contesse e marchese, pettinava le loro siepi e colorava pomeriggi solitari di vecchie signore con sorrisi cortesi e grandi conche piene di piante fiorite. Ed anche lui faceva la sua bella figura, così alto, elegante, abbronzato e con quegli occhi di cielo. Beppe il Bello. E più passava il tempo, più diventava bello.

Se lo contendevano, le gran signore, ormai faceva da corredo nei parchi illuminati.

Si vestiva da giardiniere, di giorno, poi la sera da gentiluomo di campagna, con foularini colorati e pantaloni di fustagno. E proponeva brindisi, mentre si lanciava in dettagliate spiegazioni che raccontavano quanto sarebbero costati i restauri dei giardini delle ville che di volta in volta lo ospitavano. Caricando sempre di più la spesa, quanto più questi giardini si volevano antichi. E le contesse gradivano le cortesie e la sua presenza, ed era ricercato e pieno di lavoro.

Nessuno sapeva della sua vita privata, e l’aura di mistero a Beppe conveniva, gli consentiva di continuare a sdilinquirsi in galanteria, senza timori.

Non si seppe mai di una donna che l’aspettasse a casa.

Durante quei giorni di anticipo di primavera  si pensò di organizzare una settimana di feste e balli nel giardino della Villa. Furono invitati i più noti personaggi, tra cui Giordana Stecas, una cantante triste e molto famosa, ormai sull’inizio del suo tramonto artistico.

La sua camera era piccola ma elegante, con una splendida finestra sul giardino

Appena arrivata si guardò  allo specchio, decise di farlo non solo con gli occhi…..collegare cuore e cervello le era sempre più difficile….

Forse se non fosse stata sempre osannata, vezzeggiata , viziata avrebbe avuto un visione di sé più  veritiera.

Alta, indubbiamente  di parecchi centimetri  di troppo  per la sua generazione, giunonica, massiccia, con un seno prorompente, ed abilmente sorretto e corretto da tutto quello che era possibile, il pizzo nero era la sua passione  e le guepierrre il suo vezzo, portava ancora il reggicalze, ignorando i collant, moderni, ma così poco sexy, le cosce ben tornite le rendevano ancora giustizia…..Per quanto ancora? I cinquanta  avevano bussato alla porta da pochi mesi….impertinenti ed inopportuni.

Si avvicinò allo specchio, GIORDANA, per meglio aggiustare quella massa di riccioli color carbone, e nascondere qualche filo…bianco  che spudorato sfuggiva al suo controllo ….i suoi occhi brillarono, con l’ aiuto del kajal, c’era sempre più  Spagna nel suo sguardo ed anche nella sua voce….

Ooooooo……aaaaaaa……uuuuuu

Esta noce esta noce iiiiiii oooooo aaaaaa

Gli anni non avevano tolto  niente al suo cantare…..al suo mostrarsi….al suo voler essere sempre in scena, anche se i partner, spesso, non erano alla sua altezza, come nella vita d’altronde…..

Infilò la morbida e lunga vestaglia di ciniglia bordeaux ….sarebbe scesa così a cena, in quella casa vetusta ed ospitale, un po’ come il suo stato d’ animo….. la cucitura delle calze nere, appariva e spariva, nel suo incidere, il reggiseno, abile argano, saliva e scendeva ad ogni suo sospiro…..

Dalla immensa finestra aperta sul parco intravide un torso  nudo…..due braccia possenti……due mani forti…dimenticare ….ecco voleva dimenticare ….se parti , anche per poco qualcosa, a casa devi o vuoi dimenticare……

Scese le scale e non fu più  GIORDANA…… intonò il suo canto disperato e fu TOSCA:

AMOR CHE SEPPE A TE VITA SERBARE, CI SARA GUIDA IN TERRA………..NOCCHIERE E VAGO……..A RIGUADARRRRRRRRRRR…….A SOL CADENTE NUVOLE LEGGERE……EEEEEEE

Fu nell’avvicinarsi fra loro che oltre agli occhi si mescolarono gli odori, odori non fittizi, non procurati solo da  bottigliette con nomi di grandi stilisti, ma i profumi dati dalle loro pelli. Certo che c’erano su di  loro anche  delle fragranze agrumate o asiatiche ma chiunque “indossi” profumi comunque li mescola, li abbina al proprio di odore che si sprigiona dalla pelle.  Un miscuglio individuale che esiste solo per se stessi e per chi odora;  così particolare così estremamente particolare che ti da modo di capire quasi chi si ha davanti , se ti piace o ti dispiace.

Lui : ” Buongiorno !”
Lei : ” Buongiorno !”

Non si può dire che all’acchito fossero due chiacchieroni, ma non erano neppure dei timidi, eppure l’imbarazzo dell’incontro, nonostante l’età non, diciamo, a rischio di rigurgito post poppata, era evidente, pesante .
Lui : “Si passeggia?” 
Lei: “Eh già …..” 
Lui : “Mah … la sta più zitta d’una lapide ….” disse fra sé.

Lei : “Che occhi, assassino fra gli assassini, lo sai quante ne ha …… va be’ lasciamo perdere” rimuginava mentalmente “e che profumo di natura che ha addosso”

Lui : “Mi chiamo Beppe, son giardiniere “
Lei : “Che bel lavoro , piace alle donne …( attimo di sospensione)… fare il giardino!” disse imbarazzata dal doppio senso che ne poteva derivare.

Lui : “Piace parecchio anche a me, …..eppure mi par d’essere poco femminile…. “.
Solo in quell’istante lei si accorse che il torso di lui non era nudo, come le pareva da lontano, ma coperto da una di quelle salopette stile Far West, lanose e a coste fini, jeans sbiaditi, stivali da cavallo in pelle,  poco più in là una giacca da caccia in velluto 500 righe; pensare che lo credeva nudo ….
Lei : ” Ho visto che abbracciava l’albero poc’anzi !”

Lui : ” Già … eheh non  è che non avevo frenato e mi ci ero appiccicato. In realtà è un modo per sentire, in maniera empirica, se ci sono cavità nel fusto …con questo ” e le mostrò il martelletto.

Lei : “Come fanno sui muri ! Ah mi chiamo Jordana, mi scusi la mala educacion ma ero muy curiosa (col raddoppio della esse) del suo abrazo ! ” continuò dicendo “Dunque lei siente le cavità degli alberi?” 

Lui : “E’ un metodo antico e pratico, non sempre preciso ma utile, oggi ci son altri sistemi più scientifici. Però , vede, per ascoltare i colpetti devi abbracciare il tronco. E’ una sensazione bellissima, almeno per me, torno ad essere un preistorico, annuso la corteccia, sento se ci sono muffe, torno indietro di millenni, perché noi umani siamo cambiati ma “loro” no , non son cambiati ” indicando l’albero con la testa.

Lei : “Se scuote di nuovo la testa con quei capelli bianchi, lunghini….. giuro che non so cosa posso fare … invece lo so, lo so !” pensò ancora Jordana.

Lui : “Tutti ogni tanto dovrebbero abbracciare un albero, averlo come amico, come appoggio, come sostegno, come polmone “.

Lei : “Madre mia questo mi manda a gambe ritte, se parla ancora gli salto addosso e chi s’è visto, s’è visto”.

Lui : “E lei? Ha mestiere? Vive di qualche lavoro o …..” 
Lei : “Cantante, sono  cantante lirica, affermata  anche perché se non mi fossi affermata ora o farei un altro lavoro o la fame “
Lui : “Spiritosa pure oltre che belloccia ” pensò e aggiunse:   “Sento dal suono della sua voce un origine non italiana …Sud America ?” le disse fermando i propri precedenti pensieri.

Lei : “Spagnola , soy de Granada ” mentendo.

Lui : “Granada , Alhambra, fantastica …. pensi, ci son stato nel millennio passato in un giorno in cui eravamo 10 persone soltanto .
Bella, mondi mescolati , dei mescolati, rispetto per l’arte degli musulmani e dei cattolici …. un po’ meno per le rispettive teste .”

Si lasciarono un po’ bruscamente, lei presa da un insolito tremore e lui ricordandosi del lavoro lasciato a mezzo sul vialetto di ontani. Fuggì quasi, Giordana, veleggiando nel parco nei suoi vestiti troppo  leggeri per scomparire in una verde nuvola di bosso e Beppe raccolse con lentezza le sue cose e si avviò.

Una mattina Giordana s’incamminò lungo il parco a passo piuttosto svelto mentre il venticello mattiniero faceva svolazzare  il suo bell’abito rosso spagnoleggiante intorno alle gambe snelle e ben fatte.  Avvicinandosi al luogo dell’appuntamento con Beppe, pensava se si fosse vestita in modo adatto per quell’incontro, se il suo collier e gli orecchini abbinati lo avrebbero impressionato al punto tale da farle un complimento. La sera avanti si erano casualmente rincontrati nel viale dei cipressi dietro la villa e lui era stato molto affettuoso nei suoi confronti. Stamani già gli mancava molto. Questo però non era il suo unico pensiero. Era molto nervosa ed in ansia perché consapevole di non essere stata del tutto sincera con lui. Non si era sbilanciata  nel raccontargli la sua vita. Si era tenuta per se la parte più importante : Denis. Realizzando al momento che stava ingannando anche il marito rimasto a casa e che probabilmente laspettava fiducioso il suo rientro. E a Beppe  non gliene aveva ancora parlato: non se l’era sentita di aprirsi totalmente. La loro storia era appena iniziata e lei aveva tante preoccupazioni che le confondevano le idee. Era ospite dei suoi amici per rimettersi da un piccolo esaurimento nervoso, dovuto più alla stanchezza che altro e doveva pensare al suo rientro a casa e come affrontare Denis, pensare alla nuova tournée di concerti che il suo Manager le stava preparando e per questo non faceva che telefonare ogni giorno per sapere come stava. All’improvviso si rese conto che erano già le 7,30 e Beppe non si vedeva ancora a breve dovevano rientrare per la colazione, ma dove si era cacciato ? Questa cosa le divorava l’anima voleva parlare con Beppe,  subito, raccontargli  la verità  anche se un pensiero le arrivò come una frecciata dentro a quel subbuglio di pensieri: ma Beppe….chi era veramente? e le aveva davvero raccontato tutto ? O anche lui aveva un segreto che non aveva rivelato?

I giorni passano lenti. Giordana e Beppe continuano a vedersi tra gli ontani, le siepi di bosso e i vecchi cipressi. Parlano senza dirsi mai la verità. Parlano del presente delle passioni ritrovate, degli alberi e della vita.

I giorni passano e  Giordana comincia a pensare che niente dura in eterno. Il suo spirito si fa sempre più fragile , il corpo sembra cedere a una segreta malattia e anche  la sua voce comincia a tremare. Come il suo cuore, invaso dai presentimenti.

Quella mattina tutto era come sempre.  Dalle grandi vetrate della sala entrano tiepidi e dorati i raggi del sole che invadono il tavolo dove è apparecchiato per la prima colazione. Giordana è seduta e aspetta.

Dopo un lungo intervallo di pensieri e presentimenti viene a sapere dal cameriere che Beppe ha lasciato la villa la mattina presto e non ha lasciato nessun recapito.

 Lei rimane di gesso. La notte intima e appassionata trascorsa insieme non ha potuto fermarlo e Giordana, come in un film rivede la giornata precedente.

 In camera si sta preparando per la cena  con Beppe,  emozionata perché sente di essersi innamorata e  non si rende conto di come sia potuto succedere.

 E’ indecisa su cosa indossare, vuole essere bella, e decide per un vestito lungo nero di un tessuto avvolgente con un grande scollo che mette in mostra il suo bel corpo che l’età non ha ancora sciupato ma reso solo un po’ più florido, biancheria di pizzo nera,  scarpe particolari adornate con degli stras.

 La massa dei capelli corvini scendono sulle spalle morbidamente,   orecchi di brillanti le illuminano il volto,  è truccata con cura, sulle labbra ha messo un rossetto di una tonalità rosso intenso e alle unghie ha uno smalto dello stesso colore.

 E’ molto emozionata per questo incontro, è bello Beppe con quel suo fisico massiccio, ha un aspetto virile, i capelli bianchi che dolcemente gli incorniciano il volto, gli occhi azzurri spiccano sull’abbronzatura. Giordana si è innamorata di lui ne è attratta fisicamente pur non sapendo niente della sua vita. Una tavola apparecchiata con cura, cibo gustoso, vini scelti con attenzione, le luci suffuse finché Beppe le chiede di salire in camera da lei.

Trascorrono  ore d’amore appassionate e alle prime ore dell’alba Beppe rientra nella sua camera, si vedranno per la colazione, senza dare nell’occhio.

Tutto questo ora è solo un ricordo, Giordana sente  lo stomaco contrarsi e l’amaro in bocca, per questo addio inatteso e per essersi illusa sui sentimenti di Beppe.

 La Villa d’improvviso diventa il luogo più triste della terra. Le voci le risate, le chiacchiere diventano suoni ovattati d’oltretomba. La data del concerto si avvicina paurosamente e il cuore è secco come una fiumara nel deserto. Bisognava tornare a casa. Subito, senza voltarsi indietro, senza dare spiegazioni.

Scese dal taxi senza gioia. Salire le scale di casa lo sentì come un peso. Ad ogni gradino la fatica aumentava. Sperava che Denis non fosse in casa. Giordana aveva bisogno di tempo per mettere ordine nel suo caos interiore. Troppi pensieri l’avevano accompagnata durante tutto il viaggio. Pensieri contrastanti, alcuni addirittura spiacevoli. Si rese conto che i più spiacevoli erano proprio quelli che riguardavano la sua vita con Denis. Quello che era successo alla villa l’aveva costretta a ripensare a questo rapporto che sentiva ormai esaurito. Del resto non era mai decollato come lei avrebbe desiderato. Lo sapeva da tempo, adesso ne aveva acquistato certezza. Non voleva che accadesse, voleva avere un po’ di tempo per sé all’arrivo, e invece, se lo trovò li davanti, del tutto inatteso, freddo e scostante così come era stato nelle settimane e nei giorni precedenti  alla sua partenza. A mala pena le fece un cenno con la testa, mentre non smetteva di parlare, parlare e parlare al cellulare. Argomento, quello di sempre. Accordi sottobanco, liste, uomini come comparse da spostare qui e là ,dove serviva.

Eccolo qui, si disse, prepotente ed arrogante come non mai, il gran burattinaio. Non solo nei gesti, anche nei tratti. La chioma leonina, il corpo strabordante a malapena contenuto negli abiti confezionati su misura. Lo sguardo indagatore, sempre alla ricerca delle debolezze altrui, che si faceva tagliente e denso di minacce non appena qualcuno osava contraddirlo .Mai tenero, umano né compassionevole, si disse quel giorno Giordana, pensando a come sul viso di Denis un cenno di disappunto potesse diventare velocemente, quasi in automatico, smorfia condita di crudeltà e perfidia. L’aveva ammaliata con l’aura di potere che si riusciva a percepire in ogni suo gesto, quella sera al ricevimento del grande industriale dell’auto. Denis stava in un crocchio, tutto al maschile, a dispensare ammicchi, pacche sulle spalle, battute pesanti al limite del volgare, mentre gli altri non osavano fiatare. Servili e proni, lasciavano a lui la ribalta. Se avesse voluto vedere, Giordana avrebbe visto già tutto allora. Il commediante, il sapiente affabulatore, il freddo calcolatore, l’abbindolatore seriale ,il mentitore. Quelli che stavano al suo gioco, era noto, venivano accolti a braccia aperte nel suo cerchio magico, dispensatore di favori, incarichi, prebende. Ad altri, anche per futili motivi, dispensava disprezzo e in più di un caso pure cattiverie senza uguali. Avrebbe potuto e dovuto vedere, forse aveva preferito non farlo. In fondo, anche a lei quell’uso del potere e quelle entrature erano serviti non poco per rilanciare la sua carriera. Si erano usati a vicenda, anche se a lei, in quel gioco, non poteva toccare altro che  il ruolo di comparsa. 

La trama vera del testo aveva girato sempre e  solo attorno a Denis ,alle sue ambizioni, alla sua brama di potere e controllo su tutto e tutti.   Lui sempre via per riunioni da un capo all’altro del paese a brigare e intrigare.

Mai o quasi mai con lei, se non all’inizio, quando si era incaponito di farne cosa sua. La gran cantante, bella e procace, da poter sfoggiare nei salotti e di cui potersi vantare con gli amici, come si fa per una preda ambita un po’ da tutti ma caduta ai piedi di uno solo. Lui, Denis. A casa però, sempre attaccato al maledettissimo cellulare. Non si curava di lei, cui dedicava pochi cenni e pochi discorsi. Quasi come se col tempo Giordana fosse diventata trasparente, senza gran valore come un qualsiasi soprammobile di quella casa. Anche quel giorno il “come stai” quasi di ordinanza, fu subito seguito da uno “scusa, stasera mi hanno organizzato una cena elettorale ,e domani devo partire per Milano. Dovrei rientrare tra due giorni, ma non è sicuro”. 

Giordana registrò il tutto senza emozione.  

  Anche se immaginava che si sarebbe portato dietro la Cinzia, l’ultima di una lunga serie di amanti, non disse nulla .

  Sibilò solo uno spento  “va bene, fai come vuoi” e se ne andò diritta nella sua camera. Voleva pensare bene a cosa avrebbe fatto l’indomani.   

Mi ricordo quando ho conosciuto Denis, …eravamo innamorati l’uno dell’altro e ci bastava stare insieme e guardarsi negli occhi… sono  momenti che io non riuscirò mai a scordare. Io e lui da soli a sognare il nostro futuro  fatto solo di belle cose…. nella nostra casa avevamo messo anche dei bambini…che naturalmente sarebbero stati educati da qualche baby sitter di alto livello, tanto non avremmo avuto nessun tipo di problema…. doveva essere una bella famiglia sotto  tutti gli aspetti…. Però le cose non sono andate come dovevano….l’incantesimo si è rotto…..ma è forse colpa mia se non sono diventata la cantante lirica di successo come speravo…. e non sono riuscita a dargli dei figli!!!!! Giorno dopo giorno ha iniziato a odiarmi, lo percepivo, e quando lo chiedevo, mentendo, diceva che non era vero, così  ci siamo allontanati sempre  più fino ad arrivare a  parlare di cose futili o cercando ogni scusa per vedersi il meno possibile, altrimenti per ogni sciocchezza erano  discussioni… “Caro Denis, se dovessi fare un bilancio della mia vita direi che è stata un inferno accanto a te…ma non ho mai avuto il coraggio di lasciarti perché per me sei ancora importante nonostante il tuo comportamento poco trasparente....”

Basta…non voglio più pensare…ho deciso. Vado nella vecchia casetta della nonna, in riva al mare a Marciana Marina!!!! Lì ho trascorso tante estati felici fino all’adolescenza, quando arrivavo alla fine della scuola e tornavo a Firenze a fine settembre.

E’ lì che sono sbocciati i miei primi amori…. Duravano  poco.. una settimana… quindici giorni… massimo un mese…e che dolore quando le mie vittime se ne andavano…alla partenza  ci scrivevamo il numero di telefono, l’indirizzo con la promessa di tenersi in contatto e di rivedersi il prossimo anno, ma spesso le promesse non venivano mantenute… al massimo un biglietto di auguri per Natale e Pasqua e poi più niente…solo la speranza nell’estate futura di rivedersi….ma l’anno successivo era la solita storia…..altri amori ricominciavano…  Quella casa per me è magica….e tutto  parla del mio passato…chissà…

 Quella di andarsene le era sembrata la decisione più giusta. Mettere le distanze, ecco.  Denis l’aveva accolta con un saluto distratto e non c’era stato un gesto affettuoso, una tenerezza che avrebbe  lenito la sua delusione. Dopo tutti quei giorni di lontananza avrebbe avuto bisogno di un’accoglienza diversa. Invece niente.

Ma d’altra parte era lei che aveva tradito e il senso di colpa annacquava un poco il suo rancore. Solo provava  un senso di profonda solitudine e sentiva che questo sentimento doveva essere nutrito .

Adesso in quella casetta dove aveva vissuto le estati dell’infanzia  avrebbe cercato in se stessa una risposta, o almeno un po’ di pace.

Un bagliore accecante la investì quando aprì la porta. Il sole, allo zenit,  rifletteva i propri raggi su onde di un mare calmissimo, quasi immobile. Socchiuse gli occhi fino a che non divennero due minuscole fessure e il palcoscenico della natura trasformò l’acqua in mille scintille colorate. Inspirò profondamente e sentì il cuore saltare un battito. 

Le arrivarono fluttuanti e leggeri i profumi  di quella primavera, come se Eolo invece che liberare i venti avesse deciso di far uscire dall’anfora l’aroma del rosmarino e quello delle ginestre e l’odore di salmastro si fosse fuso con quello della resina del pino marittimo.   Ma lei non sapeva esattamente di quale  emozione si trattasse. Si rivide bambina con le orme dei suoi piedini che segnavano la sabbia bagnata mentre correva verso non si sa cosa. Poi la sua mente  si spostò  ai personaggi  famosi delle opere che aveva interpretato e sorrise all’idea che lei aveva trasferito nella vita reale parti di quelle tragedie , le aveva rese proprie. Nella sua meravigliosa notte d’amore con Beppe era stata libera e trasgressiva come Carmen  e un po’ prostituta, come Violetta. Nel suo quotidiano con Denis aveva imbrogliato ed era stata imbrogliata, come Tosca. Ma adesso i suoi abiti di scena giacevano mollemente in un angolo della sua mente mentre un altro angolo, nel posto più  remoto del suo cuore,  si preparava ad accogliere sensazioni di cui credeva di non riconoscere il sapore.

Si accorse improvvisamente di star bene, come se il clamore dello spettacolo si fosse di colpo acquietato e il sipario fosse sceso sulla semplicità di un giorno di sole profumato di primavera.

E si riconobbe: era Giordana

Marciana Marina. Giordana aveva bisogno di ritornare ad assaporare il profumo del passato per capire e riordinare il presente, che gli appariva confuso e nebuloso, un po’ come quella vecchia casa, chiusa ormai da troppo tempo, dove l’umidità aveva preso il sopravvento sugli stanchi muri.

Aria, aveva bisogno di aria fresca che ripulisse la casa e i suoi pensieri. Doveva aprire le finestre al prorompere del sole per scaldare la bellezza di quelle pareti ,  che ,affrescate come fine tappezzeria ,  avevano rallegrato anni indimenticabili con Denis ,pieni di un amore intenso che col matrimonio gradualmente, con lenta, costante routine si era affievolito ,sfaldandosi ,come quei muri con l’umidità e l’incuria.

Non si parlavano più ,non riuscivano più a confidarsi le gioie, i dubbi, i desideri, le paure ,i tormenti; tutto si era appiattito nell’indifferenza reciproca. Denis si era rifugiato nel lavoro che assorbiva tutto il suo tempo e il suo interesse.

Giordana doveva uscire, concedersi del tempo per passeggiare, con la mente libera dai pensieri, dai ricordi bellissimi di una volta ,tramutati adesso in dolorosi rimorsi che le trafiggevano il cuore, come le spine dei rovi cresciuti nell’incuria di quel giardino un tempo meraviglioso.

Doveva uscire e respirare il salmastro portato dai venti marini.

Aveva un assoluto bisogno di concentrarsi sul prossimo concerto per immedesimarsi sul suo personaggio “Tosca”.

I suoi gorgheggi riecheggiavano in quelle stanze insalubri e nel giardino , scaldando l’aria frizzante del mattino.

L’ incanto di quella voce veniva, di tanto in tanto, interrotto da qualche colpo di tosse che, a causa  dell’ambiente umido e pieno di spifferi, si faceva sempre più insistente, fino a renderla totalmente afona .

No! Non era possibile! Non poteva ammalarsi adesso, a pochi giorni dal concerto!

Disperata, come il suo personaggio, sgomenta per questa vita che le stava negando tutto, passeggiò sconvolta fino all’antica Torre del Cotone e, come la Tosca, si buttò.

Ma il suo volo fu fermato all’ultimo istante dalle mani di Denis che le afferrarono per un braccio tenendola sospesa nel vuoto.

– Cerca un appiglio ,amore mio – disse suo marito – perché non so quanto potrò resistere ancora !-

Era tornato ! Era tornato per lei ! Questa nuova speranza le diede la forza di afferrare il primo appiglio che le capitò davanti : un solitario lembo di stoffa .

 Vi si aggrappò con tutte le sue forze per cercare di salvarsi, fino a quando sentì un…”CROCK ! “

Terrorizzata alzò lo sguardo …………quello che si era spezzato non era un ramo, ma il collo di Denis, soffocato dal nodo scorsoio della cravatta alla quale si era ciecamente aggrappata.

Adesso quel corpo inerme iniziava a scivolare verso di lei trascinato dal suo peso.

La fine, era la fine !

Improvvisamente la discesa si bloccò.

Uno strattone la fece risalire di qualche centimetro.

Qualcuno stava tirando indietro il corpo di Denis fino a portarla in salvo.

Era Beppe,il giardiniere, che l’aveva presa fra le sue possenti braccia e la stava inondando di baci, corrisposti !

– Perdonami – le disse – non ti lascerò mai più ! –

Bastò uno sguardo per capirsi, non c’era nessuno intorno a loro, presero Denis per le gambe e lo scaraventarono di sotto…………e poi …..via , verso una nuova vita piena di amore e felicità !!!! –

Rosa

La ragazza e la rosa – di Gabriella Crisafulli

foto di Simone Bellini

La bambina stava lì al sole, tutta concentrata, la testa china sul fiore appena raccolto, poggiato nelle sue mani. Le dita sottili e affusolate raccolte a formare un nido. Ad occhi chiusi assaporava la quiete di quel momento di libertà, lontana dai bambini della pluriclasse dove insegnava sua madre, che lei e la sorella seguivano al lavoro. Stava fra le vigne che non aveva mai visto in vita sua, in compagnia di se stessa, immersa nei sogni e nelle fantasie.

Una spina pungeva fra le dita.

Ciliegio

Un fiore, un frutto – di Gigliola Franceschini

foto di Cecilia Trinci

Apro la finestra e mi accorgo  che l’inverno e’ finalmente finito. Il vecchio ciliegio che fino ad ieri non dava segno di vitalita’, scuro e arrampicato con i suoi rami nudi verso il cielo, e’ esploso in una pioggia di fiori. Fiori a migliaia biancorosati,  piccoli bouquet di pura gioia. Nessuno si ricorda quando sia stato piantato, noi lo vediamo li’ da sempre, quasi appoggiato all’angolo della casa, nel posto piu’ riparato dell’orto. E’ cresciuto da solo, nessuno lo ha mai potato o innestato, forse per questo I suoi frutti  non sono molto dolci, mantengono un aspro sapore anche in piena maturazione. Ogni anno pensiamo che non fiorira’, che avra’ finito il suo ciclo vitale, ma lui non manca all’appuntamento con la primavera, supera i suoi anni e si ricopre di un immenso mantello di luce e di vita. Allora speriamo che non torni una gelata notturna, che non lo flagelli la grandine crudele. Quel dono di colori deve completare la sua sfera e trasformarsi in tanti frutti  che coglieremo in abbondanza. Ce ne saranno per tutti, anche per i passerotti che si appollaieranno sui rami piu’ alti per fare manbassa, indisturbati. Ma in attesa che spuntino le prime piccole ciliegine ci godiamo questa festa fiorita, un invito alla speranza  che si rinnova ad ogni stagione, lo stupore per tanta bellezza ci rassicura che la natura ci segue in ogni fase della vita. Fiori, fiori e poi come ultima ricompensa, i frutti.

Asfodelo

Gli ASFODELI – di Mimma Caravaggi

Gli asfodeli mi ricordano il mare, Ansedonia, il Lago di Burano, Capalbio, Giannutri dove crescono selvaggiamente, spontanei, da aprile fino a primavera inoltrata, quando il mondo si risveglia nei colori. In estate quando andavo a Capalbio mi divertivo ad andare per fattorie a prendere il latte con ancora la sua abbondante bella, buona panna gialla piena di colesterolo, la verdura bruttina a vedersi, non lucidata, né alimentata, ma cresciuta così, semplicemente annaffiata e di un buono incredibile. I pomodori e la loro salsa da stappare e riversare sugli spaghetti appena scolati senza “accomodarla”. Ritrovare gli animali domestici come galline, conigli, pulcini deliziosi come un piumino giallo intenso. I cani a guardia delle pecore con gli agnelli e le caprette, le oche scherzose e dispettose, tutte a scorazzare per il grande terreno, liberi e tranquilli a cercarsi da mangiare anche dopo che il contadino aveva provveduto al loro pasto. In mezzo a loro tanti fiori, belli, di tutti i colori, margherite, ranuncoli, narcisi, calendule, asfodeli, non-ti-scordar-di-me, aquilegie, fiori di cicoria (famosi piscia-a-letto)  e tantissimi altri; profumati colorati da donare  allegria solo a guardarli. Campi di papaveri e fiordalisi che si sono persi nel tempo.

Sono nata in un piccolo paese dell’Umbria quasi innominabile ma l’estate era la stagione più bella che ricordo. Ci portavano nelle campagne e le mie sorelle ed io ci divertivamo a salire sugli alberi per cogliere la frutta non ancora matura e mangiarla con ingordigia. Raccoglievamo funghi  e fiori di campo di ogni tipo che portavamo a casa in enormi mazzi da mettere in diversi vasi in tutte le stanze, persino nei bagni. Correre in cucina e sentire il profumo inconfondibile dei funghi cucinati e pronti da mangiare. Insieme alle nostre grida su e giù per le scale, risento anche il profumo dei fiori, del grano appena portato nel granaio dove andavamo a piedi nudi per giocare divertendoci da morire. Nonostante tutto ho avuto dei bei momenti della mia infanzia che ricordo ancora insieme agli asfodeli e alle violette, i miei preferiti.

Pillole sull’inconscio collettivo

A proposito di Tarocchi, Arcani Maggiori e ArchetipiRiflessione della dott.ssa Vanna Bigazzi psicologa

Interpretazione del presente e intuizioni sugli sviluppi futuri secondo Jung: l’intesa psichica fra interprete e interpretato può farci conoscere meglio il presente e forse anche il futuro.

Tutti gli eventi che accadono in sincronicità sono collegati tra loro da vincoli misteriosi di natura non razionale e non causale…..

Fiori di melo

Storia scritta a 6 mani nel 2016

Sotto il melo fiorito – racconto di gruppo (Stefania, Laura C., Mirca)

Foto di Capri23auto da Pixabay

Il convento dell’eremo di Monte San Michele alla fine di quell’inverno era ancora più triste di sempre. La primavera non arrivava ancora, gli alberi erano spogli e le mura fredde e  tristi.

I giorni passavano tutti uguali fra le laudi e i vespri, a scandire il ritmo. L’imprevisto si manifestò quando fra’ Goffredo annunciò che doveva far ricamare una nuova tovaglia per l’altare e, siccome naturalmente i frati non ricamano, si doveva cercare il posto giusto. Un vecchio penitente raccontò della scuola di ricamo dell’Antella. Fu deciso che andasse Fra’ Bartolomeo, l’ultimo arrivato e il più giovane. Così avrebbe preso anche una boccata d’aria e si sarebbe anche distratto, visto che iniziava ad accusare l’isolamento.

Cammina cammina cammina arrivò all’Antella, le campane rintoccavano, il sole splendeva, la scuola apparve in mezzo ad un prato pieno di margherite. Lenzuola profumate erano stese ad asciugare sotto un melo appena fiorito: in piazza la primavera era già arrivata.

Le ricamatrici erano in cortile sedute in cerchio, erano vestite di bianco e chiacchieravano e ridevano contente del loro lavoro. Il giovane frate lascia la tovaglia alla maestra per il ricamo e si affretta a tornare al convento. Sulla strada del ritorno sta calando la sera: si sta abbuiando tutto, anche il suo animo. Tornare al silenzio e alla preghiera gli costa. Quando arriva in vista del convento si accorge di una figura accovacciata sotto il loggiato, sommerso di sacchetti. In un attimo sa che potrebbe scegliere: la vita nomade, tornare in città……..

E rientra  in convento.

Fiori di biancospino

Ogni volta che li vedo, questi fiori piccoli bianchissimi, attaccati in modo inatteso ai pruni nei campi, mi viene in mente un periodo, un momento speciale della vita, quando era piena di movimento, di ricerca, di esperienze e di persone

Foto di Les Whalley da Pixabay

da “Un teatro per Clara” di Cecilia Trinci (dedicato a Clara Pacifici, amica non vedente)

foto di Simone Bellini

(…) La luna piena di stanotte  ha di nuovo allagato la casa con la sua luce bagnata. Il prato sembra coperto di neve. Ma invece è primavera: ci sono i mille piccoli fiori degli alberi di nuovo protagonisti: il bianco dei ciliegi e dei peri, il rosa dei peschi e dappertutto un esplodere di biancospino anche dove non te lo aspetteresti. La luna bagna di una luce fresca pur essendo immensa. La casa proietta la sua ombra scura ed è tutto un contrasto di bianco e di nero.

“Fai bene a raccontarmi la luna” dice Clara, “col tempo me la sto perdendo. Mi dispiace, però, che una luce al femminile viva del riflesso del sole”. Ma è così anche per le donne: si ha bisogno del sole maschile, di vivere nel riflesso di qualcosa di  più potente. Poi aggiungo “in fondo è molto tipico del femminile riuscire a fare di una piccola cosa come una luce bianca una tale allagante creazione di bellezza” . E questo finalmente la convince.

E’ il due di maggio. Da tanto tempo avevo promesso di passare un pomeriggio con lei. Clara sta male, ha ricominciato la chemio, non sta praticamente in piedi, ma vado da lei e le dico: ti porto in un prato verde e ti faccio tirare con l’arco. Dice subito: “mi metto questa maglietta, va bene?. Si gira verso di me con le mani sui fianchi. Sorride, come se si vedesse davvero riflessa nello specchio.

Attraversiamo la città e andiamo a Ugnano, al campo di tiro con l’arco della mia società. Le ho promesso il prato e lo mantengo.

Ci sistemiamo  appena un po’ a distanza dagli arcieri abituali che si stanno allenando.

Le insegno  come si fa.

Le spiego la mia convinzione: “Se ti metti nella posizione corretta ed esegui il gesto come si deve ce la fai di sicuro anche senza vedere. E’ la posizione del corpo che fa andare dritte le frecce, non la vista”.

Dobbiamo stare attenti a non fare danni al suo fisico provato.  Ma l’arco leggero ce lo consente. Incocca e tira. Da vicino, ma raggiunge il bersaglio con un colpo soffice. Dice: “sento la freccia che parte e mi sembra di volare, sento la forza, l’energia, la speranza che partono da me e mi portano via, nello spazio, nel vento, nel sole. Voglio diventare brava”.

Ma oggi più di tre frecce è impossibile. Si siede nel prato, con i piedi nudi assapora la terra fresca e col viso cerca il sole caldo di maggio. Tra poco è il suo compleanno.

Il presidente, viene a salutarla e lei sorride e gli racconta chi è, quanto è felice di stare qui.

Tranquilla, appena lui si allontana, mi dice che non ce la fa più, sta troppo male. Bisogna andare.

Bene, dico, ora ci alziamo  e la sospingo fino alla macchina. “Ce la fai? » 

Dice, sì sì, ce la faccio. E sorride nonostante il dolore, l’affanno, la testa che scoppia.

Ci alziamo piano, andiamo alla macchina, affrontiamo la nausea che l’assale.

Lo so che non vuole compassione. Nessuno si accorge. Ci salutano.

In macchina ci salva un CD di Vasco Rossi.

Lui canta e a lei passa il dolore. Clara canta con lui. La musica come un calmante. Mi insegna ad ascoltarla e mi anticipa i passaggi. Canto anch’io con lei, mentre guido, come se fossimo bambine in gita scolastica.

Arrivate a casa salgo con lei. Mi dice: “vieni un attimo a vedere se ci sono stati i ladri, anche se ormai non c’è più niente da portare via.” Sembra impossibile, ma ci sono stati, lassù al quarto piano e forse sono entrati dalla finestra. Una mattina lei si è alzata, si è preparata per uscire, ma la borsa non c’era più. Allora ha capito. L’ha spaventata soprattutto pensare che possono averla vista senza che  lo sapesse.

Si mette subito a letto, si spoglia ridendo. Mi dice: non guardare, ormai sono una exbella!

Sta male. Le lascio una tisana sul comodino. Ma lei dice: “che bella giornata ho passato con te! Tutto quel prato e quel sole caldo. E l’arco è fantastico! E anche  Vasco Rossi!”

Mi dice anche grazie. Ma io non capisco. Ci penso. Grazie? A me? E’ lei che mi hai donato il giorno. (…)

foto di Cecilia Trinci

Piantina grassa coraggiosa

Il coraggio di una piantina – di M.Laura Tripodi

foto di M.Laura Tripodi

Era una composizione di piante grasse piccola piccola ospitata in un vasetto ovale smaltato di rosso  di 15 centimetri.

Per qualche giorno è stata in casa, ma non mi sembrava che l’ambiente le fosse gradito.

Però mi dispiaceva separarmene.

Ci siamo guardate: lei avanzava mute richieste. Io le ignoravo.

Poi la sua sofferenza è stata palese.

A malincuore le ho trovato un posto sulla mensola del terrazzino, già stracolma di altre piante.

Da protagonista momentanea dentro casa è divenuta una delle tante nella giungla di piante grasse, all’esterno.

Ma lei aveva  gradito il cambiamento.

Forse l’aria, forse la luce, forse la compagnia.

Sembrava proprio a suo agio.

Piano piano cominciava a far parte dell’insieme. Ma……

A un certo punto le singole piantine hanno cominciato a crescere. Scomposte, disordinate, ognuna con la propria caratteristica, ma mai creandosi problemi a vicenda.

Una di queste, la più esterna, quella che cresceva guardando il sole, a sud est, a un certo punto ha trovato la spondina della mensola. Deve avere avuto qualche incertezza, forse anche qualche paura di non farcela.

Io presto sempre molta attenzione alle mie piantine, ma questa mi incuriosiva per quel suo modo pervicace di alzare la testa a dispetto delle compagne e di quell’ostacolo che sembra insormontabile.

Col tempo il suo fragile  gambo si è fatto legnoso e non so come si è arrampicato fino a sovrastare la spondina per poi superarla e ricominciare a calare.

Ora è cresciuta tantissimo. E’ una specie di ortensia con le foglie cicciute verde argenteo.

Tutte le volte che la guardo mi fa tenerezza. Ha sfidato lo spazio, la confusione, l’ombra.

Ha voluto prepotentemente la luce.

L’ha voluta, l’ha cercata, l’ha trovata.

Adesso sta affacciata a godersi il sole ben ancorata con il suo tronchetto legnoso.

Sembra una bambina curiosa affacciata alla finestra del mondo.

Fra qualche giorno mi (si) regalerà qualche fiore.

Peonie d’amore rose di rancore

Peonie – di Rossella Gallori

foto di Mimma Caravaggi

Sono rimaste li, nella “casaculla”  pancia di babbo, tra i fucili nascosti sotto terra, che non mi han mai fatto paura, con un profumo che toglieva il respiro, le aiuole si rincorrevano, il giardino era immenso  nascosto agli occhi della strada.

Mi ci rannicchiavo nella “siepequasirosa” per uscirne al calar del sole, appena sentivo quel fischio, quel suo fischio, canto di uccello libero….arrivavo io, cane arruffato senza guinzaglio, io piena d’amore….sono rimaste li,  le mie peonie, anche se un altro giardino rosso di sangue e rabbia le ha accolte, qualche petalo è rimasto attaccato al mio cuore stanco…profuma ancora….ogni tanto odo un fischio lontano…oggi piovono  bocci di peonie, mi bagno non apro l’ombrello…..

Messaggio con rose – di Rossella Gallori

foto di Mirella Calvelli e Daniele Violi

Lettera per te

Che vuoi che ti scriva amico mio

Che vuoi che faccia ancora per te

Che vuoi che dica, non ripetendomi

Che vuoi che diventi, per piacerti

Ti contagerò  con i miei fiori

Rose rosse con un significato solo

Rose rosse con un gambo lungo e legnoso

Rose rosse, rosso pianto

Rose rosse dal profumo ignorante

E spine tante

E graffi che non saprai curare

E sangue che macchierà il tuo sonno

E lacrime che non saranno mai abbastanza

Le canzoni sono come fiori

Una Canzone Per Te – di Vasco Rossi

Una canzone per te
non te l’aspettavi eh!
invece eccola qua
come mi è venuta
e chi lo sa
le mie canzoni nascono da sole
vengono fuori già con le parole
Una canzone per te
e non ci credi eh!
sorridi e abbassi gli occhi un istante
e dici “non credo di essere
così importante”
ma dici una bugia
e infatti scappi via

Una canzone per te
come non è vero sei te!
ma tu non ti ci riconosci neanche
lei è troppo chiara
e tu sei già troppo grande
e io continuo a parlare di te
ma chissà pure perché

Ma le canzoni
son come i fiori
nascon da sole
e sono come i sogni
e a noi non resta
che scriverle in fretta perché poi svaniscono
e non si ricordano più 

Il coraggio di un fiore

Provocazione coraggiosa di un piccolo fiore – di Vanna Bigazzi

foto di Patrizia Fusi

In un pallido sfondo, dimorano

bianchi brandelli di anima.

Niente rimane d’intero,

nessun avanzo di vita.

Nella distesa di un suolo riarso,

solo, uno sterile tralcio compare.

Triste reperto…

non fronde, non rami

han forza di regger

la grande afflizione.

In questa delusa rinuncia,

nel solco di un’arida zolla,

un piccolo fiore si affaccia,

senza amicizia, senza conforto,

sfida altezzoso

quell’arido vuoto perenne.