Apro la finestra e mi accorgo che l’inverno e’ finalmente finito. Il vecchio ciliegio che fino ad ieri non dava segno di vitalita’, scuro e arrampicato con i suoi rami nudi verso il cielo, e’ esploso in una pioggia di fiori. Fiori a migliaia biancorosati, piccoli bouquet di pura gioia. Nessuno si ricorda quando sia stato piantato, noi lo vediamo li’ da sempre, quasi appoggiato all’angolo della casa, nel posto piu’ riparato dell’orto. E’ cresciuto da solo, nessuno lo ha mai potato o innestato, forse per questo I suoi frutti non sono molto dolci, mantengono un aspro sapore anche in piena maturazione. Ogni anno pensiamo che non fiorira’, che avra’ finito il suo ciclo vitale, ma lui non manca all’appuntamento con la primavera, supera i suoi anni e si ricopre di un immenso mantello di luce e di vita. Allora speriamo che non torni una gelata notturna, che non lo flagelli la grandine crudele. Quel dono di colori deve completare la sua sfera e trasformarsi in tanti frutti che coglieremo in abbondanza. Ce ne saranno per tutti, anche per i passerotti che si appollaieranno sui rami piu’ alti per fare manbassa, indisturbati. Ma in attesa che spuntino le prime piccole ciliegine ci godiamo questa festa fiorita, un invito alla speranza che si rinnova ad ogni stagione, lo stupore per tanta bellezza ci rassicura che la natura ci segue in ogni fase della vita. Fiori, fiori e poi come ultima ricompensa, i frutti.
Gli asfodeli mi ricordano il mare, Ansedonia, il Lago di Burano, Capalbio, Giannutri dove crescono selvaggiamente, spontanei, da aprile fino a primavera inoltrata, quando il mondo si risveglia nei colori. In estate quando andavo a Capalbio mi divertivo ad andare per fattorie a prendere il latte con ancora la sua abbondante bella, buona panna gialla piena di colesterolo, la verdura bruttina a vedersi, non lucidata, né alimentata, ma cresciuta così, semplicemente annaffiata e di un buono incredibile. I pomodori e la loro salsa da stappare e riversare sugli spaghetti appena scolati senza “accomodarla”. Ritrovare gli animali domestici come galline, conigli, pulcini deliziosi come un piumino giallo intenso. I cani a guardia delle pecore con gli agnelli e le caprette, le oche scherzose e dispettose, tutte a scorazzare per il grande terreno, liberi e tranquilli a cercarsi da mangiare anche dopo che il contadino aveva provveduto al loro pasto. In mezzo a loro tanti fiori, belli, di tutti i colori, margherite, ranuncoli, narcisi, calendule, asfodeli, non-ti-scordar-di-me, aquilegie, fiori di cicoria (famosi piscia-a-letto) e tantissimi altri; profumati colorati da donare allegria solo a guardarli. Campi di papaveri e fiordalisi che si sono persi nel tempo.
Sono nata in un piccolo paese dell’Umbria quasi innominabile ma l’estate era la stagione più bella che ricordo. Ci portavano nelle campagne e le mie sorelle ed io ci divertivamo a salire sugli alberi per cogliere la frutta non ancora matura e mangiarla con ingordigia. Raccoglievamo funghi e fiori di campo di ogni tipo che portavamo a casa in enormi mazzi da mettere in diversi vasi in tutte le stanze, persino nei bagni. Correre in cucina e sentire il profumo inconfondibile dei funghi cucinati e pronti da mangiare. Insieme alle nostre grida su e giù per le scale, risento anche il profumo dei fiori, del grano appena portato nel granaio dove andavamo a piedi nudi per giocare divertendoci da morire. Nonostante tutto ho avuto dei bei momenti della mia infanzia che ricordo ancora insieme agli asfodeli e alle violette, i miei preferiti.
A proposito di Tarocchi, Arcani Maggiori e Archetipi – Riflessione della dott.ssa Vanna Bigazzi psicologa
Interpretazione del presente e intuizioni sugli sviluppi futuri secondo Jung: l’intesa psichica fra interprete e interpretato può farci conoscere meglio il presente e forse anche il futuro.
Tutti gli eventi che accadono in sincronicità sono collegati tra loro da vincoli misteriosi di natura non razionale e non causale…..
Il convento dell’eremo di Monte San Michele alla fine di quell’inverno era ancora più triste di sempre. La primavera non arrivava ancora, gli alberi erano spogli e le mura fredde e tristi.
I giorni passavano tutti uguali fra le laudi e i vespri, a scandire il ritmo. L’imprevisto si manifestò quando fra’ Goffredo annunciò che doveva far ricamare una nuova tovaglia per l’altare e, siccome naturalmente i frati non ricamano, si doveva cercare il posto giusto. Un vecchio penitente raccontò della scuola di ricamo dell’Antella. Fu deciso che andasse Fra’ Bartolomeo, l’ultimo arrivato e il più giovane. Così avrebbe preso anche una boccata d’aria e si sarebbe anche distratto, visto che iniziava ad accusare l’isolamento.
Cammina cammina cammina arrivò all’Antella, le campane rintoccavano, il sole splendeva, la scuola apparve in mezzo ad un prato pieno di margherite. Lenzuola profumate erano stese ad asciugare sotto un melo appena fiorito: in piazza la primavera era già arrivata.
Le ricamatrici erano in cortile sedute in cerchio, erano vestite di bianco e chiacchieravano e ridevano contente del loro lavoro. Il giovane frate lascia la tovaglia alla maestra per il ricamo e si affretta a tornare al convento. Sulla strada del ritorno sta calando la sera: si sta abbuiando tutto, anche il suo animo. Tornare al silenzio e alla preghiera gli costa. Quando arriva in vista del convento si accorge di una figura accovacciata sotto il loggiato, sommerso di sacchetti. In un attimo sa che potrebbe scegliere: la vita nomade, tornare in città……..
Ogni volta che li vedo, questi fiori piccoli bianchissimi, attaccati in modo inatteso ai pruni nei campi, mi viene in mente un periodo, un momento speciale della vita, quando era piena di movimento, di ricerca, di esperienze e di persone
da “Un teatro per Clara” di Cecilia Trinci(dedicato a Clara Pacifici, amica non vedente)
foto di Simone Bellini
(…) La luna piena di stanotte ha di nuovo allagato la casa con la sua luce bagnata. Il prato sembra coperto di neve. Ma invece è primavera: ci sono i mille piccoli fiori degli alberi di nuovo protagonisti: il bianco dei ciliegi e dei peri, il rosa dei peschi e dappertutto un esplodere di biancospino anche dove non te lo aspetteresti. La luna bagna di una luce fresca pur essendo immensa. La casa proietta la sua ombra scura ed è tutto un contrasto di bianco e di nero.
“Fai bene a raccontarmi la luna” dice Clara, “col tempo me la sto perdendo. Mi dispiace, però, che una luce al femminile viva del riflesso del sole”. Ma è così anche per le donne: si ha bisogno del sole maschile, di vivere nel riflesso di qualcosa di più potente. Poi aggiungo “in fondo è molto tipico del femminile riuscire a fare di una piccola cosa come una luce bianca una tale allagante creazione di bellezza” . E questo finalmente la convince.
E’ il due di maggio. Da tanto tempo avevo promesso di passare un pomeriggio con lei. Clara sta male, ha ricominciato la chemio, non sta praticamente in piedi, ma vado da lei e le dico: ti porto in un prato verde e ti faccio tirare con l’arco. Dice subito: “mi metto questa maglietta, va bene?. Si gira verso di me con le mani sui fianchi. Sorride, come se si vedesse davvero riflessa nello specchio.
Attraversiamo la città e andiamo a Ugnano, al campo di tiro con l’arco della mia società. Le ho promesso il prato e lo mantengo.
Ci sistemiamo appena un po’ a distanza dagli arcieri abituali che si stanno allenando.
Le insegno come si fa.
Le spiego la mia convinzione: “Se ti metti nella posizione corretta ed esegui il gesto come si deve ce la fai di sicuro anche senza vedere. E’ la posizione del corpo che fa andare dritte le frecce, non la vista”.
Dobbiamo stare attenti a non fare danni al suo fisico provato. Ma l’arco leggero ce lo consente. Incocca e tira. Da vicino, ma raggiunge il bersaglio con un colpo soffice. Dice: “sento la freccia che parte e mi sembra di volare, sento la forza, l’energia, la speranza che partono da me e mi portano via, nello spazio, nel vento, nel sole. Voglio diventare brava”.
Ma oggi più di tre frecce è impossibile. Si siede nel prato, con i piedi nudi assapora la terra fresca e col viso cerca il sole caldo di maggio. Tra poco è il suo compleanno.
Il presidente, viene a salutarla e lei sorride e gli racconta chi è, quanto è felice di stare qui.
Tranquilla, appena lui si allontana, mi dice che non ce la fa più, sta troppo male. Bisogna andare.
Bene, dico, ora ci alziamo e la sospingo fino alla macchina. “Ce la fai? »
Dice, sì sì, ce la faccio. E sorride nonostante il dolore, l’affanno, la testa che scoppia.
Ci alziamo piano, andiamo alla macchina, affrontiamo la nausea che l’assale.
Lo so che non vuole compassione. Nessuno si accorge. Ci salutano.
In macchina ci salva un CD di Vasco Rossi.
Lui canta e a lei passa il dolore. Clara canta con lui. La musica come un calmante. Mi insegna ad ascoltarla e mi anticipa i passaggi. Canto anch’io con lei, mentre guido, come se fossimo bambine in gita scolastica.
Arrivate a casa salgo con lei. Mi dice: “vieni un attimo a vedere se ci sono stati i ladri, anche se ormai non c’è più niente da portare via.” Sembra impossibile, ma ci sono stati, lassù al quarto piano e forse sono entrati dalla finestra. Una mattina lei si è alzata, si è preparata per uscire, ma la borsa non c’era più. Allora ha capito. L’ha spaventata soprattutto pensare che possono averla vista senza che lo sapesse.
Si mette subito a letto, si spoglia ridendo. Mi dice: non guardare, ormai sono una exbella!
Sta male. Le lascio una tisana sul comodino. Ma lei dice: “che bella giornata ho passato con te! Tutto quel prato e quel sole caldo. E l’arco è fantastico! E anche Vasco Rossi!”
Mi dice anche grazie. Ma io non capisco. Ci penso. Grazie? A me? E’ lei che mi hai donato il giorno. (…)