Scatola bianca

SCATOLA BIANCA – di Laura Galgani

Foto di Anna Larin da Pixabay


Una pagina bianca cos’è, se non una stanza dalle pareti vuote, candide, immacolate, imbottite di morbido cotone per attutire il suono di quelle parole che ancora nemmeno sai?
Ci puoi entrare quando vuoi: nei momenti più bui, quando qualcosa ti stringe la gola e vuole uscire e ti graffia con gli artigli su per la trachea e tu cerchi di ricacciarla giù, perché no, non adesso, non ancora, anche se sanguina e fa male. Ma appena raggiungi il tuo spazio e varchi la soglia di quella scatola bianca che
è la pagina, ecco che l’urlo può uscire ed essere forte, rosso, spietato, tanto acuto da tagliare la pagina in due, se potesse prendere la forma di una lama. E nessuno se ne accorge, finché non vi posa gli occhi sopra.
Ma tu non lo permetti a nessuno. Hai questa libertà e questo potere. Lasciare che altri entrino in quella stanza è solo una tua scelta.
Oggi no, hai ancora bisogno di pareti imbottite su cui gettarti senza farti troppo male, di un soffitto a cui appenderti e camminare a testa in giù per vedere le cose da un punto di vista diverso, di sapere che la porta è chiusa e nessun suono, lettera o frammento di parola potrà uscire da lì, dalla tua scatola imbottita.
Chissà, magari un giorno sarà diverso, arriverà la primavera e deciderai di aprire la porta di quella scatola bianca.
Una nuvola di farfalle colorate ne uscirà e con leggeri battiti d’ali andrà a dipingere il mondo con le tue parole piene d’amore.

Incontro virtuale – 19 gennaio 2021

con Cecilia Trinci

La discussione è partita, in entrambi i gruppi, dal video volutamente provocatorio di Messer Bianconiglio, messo nel blog proprio la stessa mattina.

L’attenzione è stata monopolizzata dal tema “amore”, che è stato definito in più modi e con varie parole. Molta parte dell’attenzione è stata attirata dalla espressione “non posso amarti” rivolta ad Alice che non ama abbastanza se stessa e quindi non potrebbe affrontare il dolore di certe inevitabili ferite legate ad un rapporto interpersonale.

Vari i punti di vista di tutti. Ne ricordo uno, di Vanna, che fa pensare molto: il Bianconiglio direbbe queste parole proprio perché, contrariamente alla sua affermazione (Io non posso amarti), dimostrerebbe proprio il contrario.

L’essenziale comunque, in ogni caso, è raggiungere CONSAPEVOLEZZA DI SE’ per poter amare ed essere amati.

Molte sono le parole con cui tutti hanno descritto un amore maturo e capace di esistere.

Si è parlato della necessità di aver avuto amore da piccoli e del “saperlo riconoscere” quando si incontra.

Si è parlato della necessità degli altri e della grande importanza della RELAZIONE

Si è parlato di SICUREZZA, di CONSAPEVOLEZZA, di CORRISPONDENZA, di CONQUISTA, di OSTACOLI, di TIMIDEZZA, e anche di EQUIVOCI, alcuni anche pericolosi. Di Gabriella è l’accenno all’amore malato o all’uso dell’espressione “SANGUE MIO”.

Si è parlato di CENTRALITA’ della persona che deve sentirsi padrona del proprio essere e di come questo sia capace di ATTRARRE amore a sua volta.

Si è parlato della FIDUCIA che si deve avere, ma anche della CAPACITA’ DI DIRE DI NO, di SCELTA e di DIFESA, della necessità di riconoscere SEGNALI.

Si è parlato di RISPETTO, verso se stessi e verso gli altri, di LIMITE e di LIMITI da rispettare.

Si è parlato di RELAZIONE NON STRUMENTALE, di capacità di SVELARSI.

Dopo la discussione generale ho illustrato come tutti questi concetti si attagliano perfettamente alla SCRITTURA che ha appunto bisogno, per essere piacevole e benefica di:

  • relazione
  • consapevolezza di sé
  • rispetto
  • riconoscersi
  • svelarsi
  • fiducia
  • ostacoli da superare
  • scelta delle emozioni da RIVELARE
  • senso del limite
  • volersi bene e voler bene alle proprie idee….
  • ……tanto da saper accettare serenamente anche chi non è d’accordo con noi

Il bianco dei mandorli

Segnali di rinascita – di Tina Conti

foto di Tina Conti

Passate le feste, comincio a scrutare la terra e la campagna cercando i primi segnali di risveglio.

Le gemme ingrossate sugli alberi spogli, i primi bocci socchiusi fra le foglie di elleboro, le spelacchiate margherite bianche nei prati ghiacciati, le giunchiglie a mazzetto nelle prode al sole.

Ma quello che amo scoprire sono le nuvole bianche dei mandorli.

Che gioia passare vicino o  vedere nel mezzo a un campo  tutto quel chiaro, a volte sfumato sul rosa, sentire quell’energia , quella vita in esplosione che apre il concerto della primavera.

E poi tutto si muove, fra le foglie secche fanno capolino i bulbi piantati in autunno, ricomincia quella magia che incanta e commuove.

Passa il tempo, accadono tante cose, la natura sapiente riscrive le sue sinfonie.

Messer Bianconiglio

dal web

Una riflessione, un pretesto per pensare:

«Ma tu mi ami?» chiese Alice. «No, non ti amo.» rispose il Bianconiglio.

Alice corrugò la fronte e iniziò a sfregarsi nervosamente le mani, come faceva sempre quando si sentiva ferita.
«Ecco, vedi? – disse il Bianconiglio – Ora ti starai chiedendo quale sia la tua colpa, perché non riesci a volerti almeno un po’ di bene, cosa ti renda così imperfetta, frammentata. Proprio per questo non posso amarti. Perché ci saranno dei giorni nei quali sarò stanco, adirato, con la testa tra le nuvole e ti ferirò. Ogni giorno accade di calpestare i sentimenti per noia, sbadataggine, incomprensione. Ma se non ti ami almeno un po’, se non crei una corazza di pura gioia intorno al tuo cuore, i miei deboli dardi si faranno letali e ti distruggeranno.
La prima volta che ti ho incontrata ho fatto un patto con me stesso: mi sarei impedito di amarti fino a che non avessi imparato tu per prima a sentirti preziosa per te stessa. Perciò, Alice no, non ti amo. Non posso farlo.»

Bianco garbo

“G” – di Gabriella Crisafulli

Foto di Лера_K da Pixabay

Sorvolo con le ali di una follia

fatta della più bianca solitudine

i panni stesi all’aria

le tende che si muovono al vento

i dipinti non immacolati

la neve che affonda

il tulle di un vestito da sogno

Trovo nel diario non scritto

orde di fantasmi dimenticati

Cerco parole

per rivendicare

un trauma

pari all’incredulità

Ho reso estranei me stessa

e quel che mi stava intorno

Ho immolato l’io

agli ideali

e ho perduto

avvenire e futuro

Non posso più stendere

un velo pietoso

Rincorro un viagra

per dare forza

a nuove idee irresolute e confuse

che vagano e si perdono

Ispeziono il vocabolario

alla lettera G

Desidero parole positive

ma anche irrazionali

scarmigliate

libere

Oh

finalmente

Dopo dieci facciate

trovo a pagina 1063

“garbo” e lì mi fermo:

ho da pensare

Bianco e nero in una foto

Foto in bianco e nero – di Nadia Peruzzi

Foto di Free-Photos da Pixabay


E’ una piccola foto che mi giro per le mani da qualche tempo. Ci sono due ragazze con abiti di 60 anni fa. In braccio una delle due ha un fagottino con pochi capelli, agghindato in un vestitino con una gonna ampia. Anche quello del tipo che oggi non se ne vedono quasi più. Immagine che trasmette serenità, leggerezza, promessa di futuro.
Quando le si va a cercare foto come questa spesso non è un bel segno. Nella bonaccia e nel tran tran si sa di averle, sono parte di te anche se non le guardi mai, sai sempre in che punto dell’album si possono trovare al primo colpo. Pezzi piccoli o grandi del mosaico che compone le nostre vite.
L’ho ripresa in mano e carezzata il giorno prima del mio compleanno appena è arrivata la notizia che la cugina di mia mamma, la ragazza che nella foto mi tiene amorevolmente in braccio, non era più con noi.
In ospedale per accertamenti, è arrivato il covid e se l’è presa, lasciando vuoto e incredulità insieme, dolore e incapacità di prendere atto.
Nessuno ha potuto assisterla in ospedale, nessuno ha più potuto vederla, carezzarla, accompagnarla nel viaggio definitivo. Cose che sappiamo, ma quando ti toccano dilaniano.
Si resta sospesi come devono esserlo state le famiglie dei dispersi in guerra. Senza aver potuto piangere su quei corpi, in un angolino del cuore resta sempre una porta aperta su un altrove dove l’impossibile potrebbe anche tornare possibile.
Ancora oggi si fatica a distanza di due mesi a realizzare che sia successo davvero.
Eppure la realtà bussa alla porta.
E devi ammettere e accettare che un altro pezzo fondamentale di vita e di affetti non c’è più, mentre la fragilità e la sensazione di solitudine si insinuano come piaga in tutto il tuo essere.
Brutta bestia il dolore che non si accontenta di sbatterti in faccia un caso per volta e finita li fino a che non si presenta il prossimo. No. Li riapre tutti. Non in un rivolo o in una sola goccia. No!  In una cascata intera o in un uragano a cui non si riesce a frapporre barriere.
Nella vita di ciascuno ci sono figure che contano più di altre. Oltre i gradi di parentela scritti su carta ci sono gli intrecci reali, i ruoli, i sentimenti, le affinità a creare legami inestricabili che accompagnano ogni stagione della vita.
A guardare quella piccola foto avremmo potuto essere quasi madre e figlia. Per scarto d’età ci mancava un soffio. Negli anni è stata un po’ sorella maggiore durante i mesi delle mie vacanze estive a Genova, quando insieme andavamo al mare e a esplorare gli angoli della città che ho imparato ad amare come un pezzo importante della mia storia personale. Crescendo il ruolo di sorella maggiore si è attenuato, lei è tornata ad essere la cugina della mamma e in ultimo, quando la differenza d’età si era fatta sottile fin quasi a passare in secondo piano, una donna con cui rapportarsi da donna.
Ognuno di questi passaggi lo senti perduto per sempre, mancano i nessi, i raccordi, manca tutto e il pensiero non basta a colmare il vuoto che senti. Realizzo oggi mentre scrivo e riesco dopo molto tempo a trovare la voglia e la forza di tornare a scrivere che a destabilizzare è proprio la consapevolezza che manca un punto di raccordo. Perché la ragazza che ho sentito per molto tempo un po’ sorella maggiore, era nello stesso tempo un po’ sorella minore di mia mamma per le circostanze della vita vissuta da entrambe.
Un cerchio ci ha tenuto unite in tutti questi anni malgrado i chilometri di distanza e i tempi a volte dilatati nei quali col passare del tempo potevamo poi realmente vederci.
Quello che resta ora è un cerchio frantumato. Rimane solo un piccolo pezzo mentre gli altri due son volati via.
Restano i ricordi, ma sono ricordi che scavano voragini e non accennano ancora a far bene.
Nemmeno quando rivedi quelle foto in cui tutti son più giovani di 30 anni buoni, sprizzano gioia e serenità dopo aver raggiunto la meta prefissata di una lunga camminata in montagna.
Vero che per un attimo te li senti vicini, quasi riesci e sentire le voci e le loro risate. Diventano vive e si fanno sonore, mentre anche gli occhi e gli sguardi sembrano parlare.
Poi tutto torna a spegnersi e devi fare i conti con l’anima a pezzi che faticano a ricomporsi. Non c’è modo ancora di poter veleggiare in un mare meno tempestoso e destabilizzante.

Bianco timidezza

Il bianco del primo giorno – di Carla Faggi

Foto di Courton da Pixabay

Bianco il grembiulino del primo giorno di scuola, un grande fiocco rosa, due codine laterali , lo sguardo in basso, il broncio, una gran voglia di piangere.

Dai, forza, ci sono anche le tue amichette, l’Anna, la Maria, disse la mamma, non aver paura, non sei sola.

Speriamo di andare nel banco con l’Anna pensò, ma l’Anna si mise a sedere nel banchino con la Maria.

Voglia di piangere, non sapere dove andare.

Vieni qui, disse la maestra e la mise al primo banco insieme ad una sconosciuta.

Tutto iniziò così.

La bambina sconosciuta divenne la più popolare della scuola, lei fece un po’ da principe consorte.

I grembiuli cambiarono, poi sparirono.

Il primo giorno di ogni anno sempre un gran timore per la timidezza ormai cronica.

Cambiarono le scuole, lei cambiò, ma la timidezza del primo giorno mai.

Anche il primo giorno da matita era timida ma poi…forse è l’età che ti fa meno timida o forse chi ti accoglie…

Ora è di fronte ad un foglio bianco e vorrebbe scrivere qualcosa ma non sa cosa…va bè, domani è un altro giorno, si vedrà.

Il bianco su cui scrivere

La gioia di scrivere – di Wislawa Szymborska

La gioia di scrivere

Dove corre questa cerva scritta in un bosco scritto?
Ad abbeverarsi ad un’acqua scritta
che riflette il suo musetto come carta carbone?
Perché alza la testa, sente forse qualcosa?
Poggiata su esili zampe prese in prestito dalla verità,
da sotto le mie dita rizza le orecchie.
Silenzio – anche questa parola fruscia sulla carta
e scosta
i rami generati dalla parola “bosco”.

Sopra il foglio bianco si preparano al balzo
lettere che possono mettersi male,
un assedio di frasi
che non lasceranno scampo.

In una goccia d’inchiostro c’è una buona scorta
di cacciatori con l’occhio al mirino,
pronti a correr giù per la ripida penna,
a circondare la cerva, a puntare.

Dimenticano che la vita non è qui.
Altre leggi, nero su bianco, vigono qui.
Un batter d’occhio durerà quanto dico io,
si lascerà dividere in piccole eternità
piene di pallottole fermate in volo.
Non una cosa avverrà qui se non voglio.
Senza il mio assenso non cadrà foglia,
né si piegherà stelo sotto il punto del piccolo zoccolo.

C’è dunque un mondo
di cui reggo le sorti indipendenti?
Un tempo che lego con catene di segni?
Un esistere a mio comando incessante?

La gioia di scrivere
Il potere di perpetuare.
La vendetta d’una mano mortale.

Wislawa SzymborskaWislawa Szymborska

Ricordi bianchi

Le vele bianche dei ricordi – di Stefania Bonanni

Foto di Willi Heidelbach da Pixabay

I ricordi sono bianche vele piegate e legate strette da corde sicure, che un venticello puo’ sciogliere e gonfiare, e spiegare e spingere, che fanno viaggiare veloci imbarcazioni ferme da tempo che i marinai credevano fuori uso, pronte per lo smantellamento. Sapevo di avere vele bianchissime, negli occhi, le ho cercate e trovate, così  bianche da far brillare il resto, così fresche da profumare di vento, così fragranti da essere nello stesso tempo morbide e croccanti, al tatto e all’udito. Così semplicemente bianche, da sventolare per sempre. Ha scritto Pamuk, che la vita che si è fatto fino all’età di dieci anni, resta in noi per sempre, pronta ad affiorare, al bisogno. Io ci ho fatto affidamento su quelle vele, che ho ripensato come ali e rifugio. Possibilità di volare,  al sicuro di un porto sereno. Erano bianchissime lenzuola stese su fili di ferro, a sfiorare l’erba del prato del lavandaio, davanti a casa. Il prato cominciava proprio davanti. Era un tappeto verdissimo, senza sassi, senza pozzanghere, con  l’erba tenuta corta, perché non ci si fregassero le lenzuola ,  mentre ballavano al ritmo di misteriose melodie. Quando dicevano: “dove sono i bambini?”, la risposta era sempre “nel prato “. Subito, dalla mattina. Era un posto perfetto: lì,  davanti a casa, ma a momenti nascosti alla vista.  Ci si sentiva liberi. L’unica cosa a cui si doveva stare attenti erano le mani, che non dovevano essere sporche di marmellata o, pericolosissimo, di cioccolata. Si era sentito di impronte digitali, ed eravamo sicuri che avrebbero fatto l”esame, se avessero trovato impronte. Era come stare dietro un sipario, in una scenografia fantastica che diventava qualunque cosa,  a patto fosse bianca. Un giorno erano montagne con tanta neve, dalle pareti così lisce che rendevano l’arrampicata impossibile. Un giorno ventoso erano  mare, con onde altissime. Un giorno tende nel deserto, quando era estate calda, ma noi eravamo all’ombra. Un giorno erano sipari, che all’improvviso potevano aprirsi e mostrare i nostri numeri di ballo, di giochi di prestigio, o sfilate di moda. Lì ci sono stati castelli con tanto di ponti levatoi a difesa dell’entrata, o accampamenti di soldati nemici , che dovevano fare attenzione ai cavalli, che non sporcassero. Una dimensione magica, che solo il vento poteva cambiare. Quando aveva asciugato in fretta, a volte si restava allo scoperto. Per fortuna lavavano lenzuola in continuazione, ce n’erano sempre, di bagnate da stendere. Il vento gentile dell’estate che passava e si faceva scorgere solo nel movimento delle lenzuola, le faceva somigliare a ballerine di danza classica. Lasciava di se’ una scia profumata di acqua fresca e sapone giallo in pezzi grossi.

Poi, si tornava a scuola, arrivavano le piogge, il prato si riempiva di fango, i lenzuoli venivano stesi nella stanza del calorifero. Per fortuna durava poco, sembravano giorni più lunghi, di più,  più  freschi, più caldi, più colorati, più  bianchi,  quelli dell’estate. Alcuni di quei bambini sono forse rimasti tra quelle lenzuola, nel prato sembra faranno un parcheggio. Per fortuna, nessuno puo’cancellare tutto quel bianco dagli occhi di quei bambini, ne’ lo può toccare, cambiare, colorare. Sarà bianco, per sempre.

Bianco come una sposa

Bianco – di Sandra Conticini

Bianco,

come il vestito del giorno più bello della vita di una ragazza. Era stato difficile sceglierlo perchè ce n’erano a decine in ogni negozio che confezionavano abiti da sposa. I vari modelli si  moltiplicavano perchè si poteva fare il corpetto di uno e la gonna di un altro con le maniche di un altro ancora. Non si sapeva decidere, li avrebbe comprati tutti, finchè stabilì  che quello che le piaceva più degli altri era proprio quello. Bianco con corpetto in tulle  ricamato con perline ed una gonna molto ampia in raso lucido e dietro un bel fiocco di tulle.  

Ogni volta che andava a provarlo  era sempre più convinta di aver fatto la scelta giusta. Quando andò a ritirarlo non sapeva come infilarlo nella sua 126, non si doveva sgualcire e soprattutto c’erano due grandi scatole con  sottabito ed una sottogonna con il cerchio ma, comunque, riuscì a portarlo a casa.

Arrivò il grande giorno e lei si sentiva proprio bene in quel vestito da principessa, era felice  perchè anche lui aveva apprezzato il suo look.

Bianco,

come quel pezzo di marmo che lo chiude e dove sopra c’è scritto il suo nome e quella fotografia fatta in una domenica di primavera in campagna. Se n’è andato troppo presto,  lui che amava la vita e voleva veder crescere la sua amata bambina.

Proprio lui, che non avrebbe mai fatto del male a nessuno, sempre calmo e riservato con tanti anni ancora da vivere, ha mollato tutto e tutti in poco tempo, lasciando un grande vuoto.

Quando vanno a salutarlo o a lasciargli un fiore  accoglie tutti con il suo bel sorriso e la sua serenità che lo aveva sempre contraddistinto. 

Il bianco in una Mostra d’arte

Tracce sulle colline toscane – Una mostra in bianco dei quadri di Lucia Bettoni

foto, quadri e commenti dei bambini di Lucia Bettoni

Lucia presenta qui un estratto della sua mostra di alcuni anni fa, di quadri ispirati al paesaggio toscano e che lei realizzò nei toni del bianco. La mostra fu proposta ad alcuni bambini delle classi seconda e terza elementare che si accesero di incredibili emozioni.

I bambini commentarono così le suggestioni ricevute dalle immagini:

Cosa vedono i bambini (2^e 3^elementare):

 Il grano appena maturato falciato dall’uomo (Francesco)
Un vortice di aria argentata che avanza maestosamente verso un campo di grano (Lorenzo)
Un ghiacciaio che scivola fra la terra e si spezza (Martino)
Uno stagno incantato (Braian)
Un bosco dove ci sono degli alberi gialli e il vento li infreddolisce (Francesca)
La lava che schizza (Giulia)
Delle spighe di grano appena falciate e abbandonate lì, quella striscia è il sole che tramonta ( Costanza)
Un campo di grano diviso dall’arcobaleno (Eleonora)
Dei raggi di sole con una stella che cade (Veronica)
I pallini gialli sono le orme dell’uomo che ha camminato sul campo (Martina)
Un campo appena maturato ( Giada)
Alberi con la chioma d’oro (Cosimo)
Un bosco dove è appena piovuto, la striscia è l’arcobaleno (Daniele)
Un golfo con gli scogli e dall’altra parte la costa (Lorenzo)
Il grano e la falce dell’uomo che lo taglia (Saverio)
Un campo interrotto da un fiume (Daniele)
Un campo di grano attraversato dal sole (Cosimo)
I campi con i monti nel mezzo (Tommaso)
Un ponte con il fiume sotto (Alessio)
I raggi del sole trapassati da un meteorite (Elena)
Un fiume e a riva delle spighe (Valentina)

Notte bianca

Puzzle in bianco – di Rossella Gallori

foto di Rossella Gallori

Ero andata a letto da poco, con la solita ansia e la solita preghiera in gola: fammi dormire, ti prego fammi dormire, poche ore, ma serene, senza  fantasmi, senza rumori, al caldo, senza urla dentro il materasso, coperta di sogni…..ti prego…

Il rumore, quindi, non mi svegliò, mi distolse solo dell’ennesima notte bianca…mi alzai lentamente aggiustando il vecchio maglione, compagno dei miei inverni…è così da anni t.schirt  in estate, golfoni  da novembre a marzo..

Scansai la thonet, accanto al letto, che non sapevo di avere, percorsi il  lungo corridoio illuminato da un fragile raggio di luna  bianco antico….

Lo trovai per terra, caduto da chissà dove, minuzzoli di cartone spiaggiati sul finto  kilim color crema….migliaia di pezzi  erano piovuti dal cielo, interrompendo il mio finto riposo, erano lì come una bianca lapide di marmo distrutta dal tempo…

Il puzzle della mia vita, distrutto in una notte qualsiasi di un anno uguale ad un altro…Non accesi la luce, qualcuno  aveva lasciato la bugia sul tavolo, il mozzicone di candela sarebbe stato sufficiente, non avevo bisogno di molta illuminazione per vegliare i miei ricordi color ghiaccio, che di freddo non avevano che il colore….aprii le persiane sul cielo stellato, un brivido color zinco, percorse la mia schiena….confermandomi che sarebbe stata notte per poco ancora.

Riconobbi il pezzo con la bianca colomba, quello più grande con l’ orso polare, i dieci pezzi con i fuochi d’artificio color platino, il morso di cartone con la copertina verde acqua, che una luce bugiarda faceva sembrare bianca, quanta lana, quante lune…. E quel manicotto di ermellino color burro, sfumature di vita?

Trovai la tazza di latte bollente sul tavolinetto da fumo decapè,  frutto di una tinta sbagliata, la presi tra le mani  e mi sedetti per terra, senza pensare a come rialzarmi….chi aveva scaldato il latte per me è chi aveva fatto cadere un puzzle che non esisteva più da anni?

Il tappeto mi accolse caldo e polveroso, accarezzai con amore i pezzi con il tuo viso magro ed i capelli argento, quelli con il cappottino di pelliccetta del mio amore traballante sugli stivalini di vernice… trovai quelli con un indecente vestito di frange, sorrisi ad un mazzo di nuvole, bouquet sbagliato di un vestito da sposa che non era bianco….quanti pezzi ancora da rimettere insieme, quanti….

Fioca la candela, lesinava la sua luce,  un attimo e RIMASI al buio, mi sfiorò il braccio una minuscola mano di porcellana trasparente e morbida, un  gracile  corpicino mi aiutò ad alzarmi, riconducendomi a letto, dormiva anche la luna. Nei primi rumori del giorno mi addormentai, seduto  sulla thonet che non c’era il piccolo fantasma  dagli occhi color fumo, vegliava su di me, un insolito soffio di vento agitava il suo bianco vestito di seta…….

Pagine bianche

Le pagine non scritte – di Gigliola Franceschini

Foto di DarkmoonArt_de da Pixabay

.Il due ottobre di un anno lontano: quindici anni, tanta allegria e tanti regali. Uno particolarmente gradito, un grosso quaderno con la copertina  di tela colorata con piccoli fiori, un lucchetto a chiudere ed una piccola chiave dorata. Un diario dato cosi’ , spoglio di incarti e fiocchi, come piace a me ricevere i doni. Lo aprii quando rimasi sola dopo un pomeriggio passato a fare merenda sotto il pergolato dell’orto con gli amici piu’ vicini. Pensavo ad uno di quei diari che riportano in ogni pagina una frase celebre, una citazione… niente di tutto questo. Mi si aprirono candide di un bianco assoluto le pagine sottili, tante pagine lievi come nuvole, un invito alla mia voglia di condividere pensieri e sensazioni, voglia di futuro e sentimenti nascenti. Mi proposi di scrivere e confidarmi, gioire e rattristarmi con quel nuovo amico. Non lo feci mai. Aprivo spesso il diario, mi soffermavo in attesa davanti alle pagine bianche e non mi decidevo a violare quel tacito invito, pensavo a lungo e scrivevo nella mia mente le prime delusioni, un successo inaspettato, progetti di vita e sentimenti che nascevano e si spegnevano presto. Cosi’ sono passati gli anni, il diario sara’ nascosto da qualche parte, forse tra i libri di scuola, le pagine saranno certamente ingiallite. Non desidero riaprirlo ora che tutto o quasi e’ gia’ passato. Basta il ricordo di un giorno lontano di pagine vergini. In un certo modo ho scritto le fasi della mia vita come i capitoli di un diario mai realizzato. Ho raccolto tutto dentro di me conservando memorie e immagini. Era un due ottobre di tanti anni lontani, quindici anni, un diario per una vita appena in cammino, lungo non sapevo quanto, pagine bianche da riempire forse mai.

Bianca follia

Celebrazione della Follia ( Follia Bianca) – di Vanna Bigazzi

La follia è divina, perfetta e ideale,

non sa di compromessi,

non conosce il male.

L’astrarsi è una difesa,

per non sentir dolore.

Si rifugia in un mondo virtuale:

Iperuranio a sublimar ferite…

Beata, si eleva da terra

e vola, vola in alto

per non dover sfidare.

E’ beata nelle più tristi condizioni:

il corpo non siste,

è priva di emozioni.

Se la ferocia umana

Incontra il delicato,

proietta su di lei

ogni ombra, ogni peccato.

Allor l’indifferenza…

Il corpo non esiste,

nell’assenza dei sensi,

a piedi nudi, il senno se n’è andato.

E’ entrato in un’altra dimensione,

di fissità, di non belligeranza.

Inattaccabile, lontana dal fragore,

lei ride e piange

quando lo decide.

La follia, incapace di tradire,

non è tradita,

se offesa si dilegua:

fallaci sassi in chiare acque di mare.

La follia è pura, non conosce inganno,

vergine bianca,

con sacro, eterno rito,

immòla solo l’io, mai l’anima ed il cuore

Bianco solitudine

Dimensione bianca – di Vanna Bigazzi

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Negli stati di conflitto, il silenzio interiore ci è di aiuto, crea lo spazio necessario per far nascere una terza dimensione che non conosce costrizioni, luoghi comuni, false sicurezze e nella sua bianca purezza rimane luogo libero. Momenti mentali che proiettano noi stessi nella totalità. Pensieri astratti che però hanno il potere di indicarti un orientamento. Sono liberi dal ricordo, dalle passioni, non sono il riflesso di niente perché chi vi si trova è dentro la più bianca solitudine.

Consigli di lettura

U malo tiempo – di Stefano Salmoria

Un’opera prima, un debutto che ci apre una storia sullo sfondo di una Sicilia calda di sole e di segreti. Un suicidio sullo sfondo di un mare troppo bello per pensare alla morte, il brivido di un triller non previsto in uno scorrere di vita apparentemente anonimo. Intorno rapide pennellate di sentimenti e ricordi appena sussurrati.

Una lettura che tiene compagnia e mantiene l’attenzione accesa dalla prima all’ultima parola…..

Bianco opaco

NEBBIA – di Simone Bellini

Foto di Free-Photos da Pixabay

Freddo pallore, quando nell’alba il sole è soltanto un bianco alone sul limitare dell’orizzonte, confuso nella nebbia fra il cielo e l’acqua del lago, nel silenzio opaco del lento risveglio della natura.

Il lieve sciaguattio dell’acqua penetrata dai remi, disturba con garbo la quiete del momento che pian piano si popola di sparuti cinguettii e sonnolenti squittii sparsi nel cieco candore nebbioso del mattino.

Scivola la canoa in quell’umido lancinante che squarcia ossa e polmoni, disturbando il volo rasente degli aironi che termina sui rami affioranti dal pelo dell’acqua.

Tutto scorre pieno di vita e ti accompagna rilassante verso l’inizio del giorno che, passata la nebbia, il sole scalderà.

Bianco assoluto

Due passi nel nulla, nel tutto – di Laura Galgani

Foto di kinkate da Pixabay

Quando il tuo piede affonda nella neve fresca ti sembra di fare un piccolo passo nel vuoto.

Non sai quando la suola della tua scarpa troverà qualcosa ad opporle resistenza. E’ solo una frazione infinitesimale di tempo, ma in quell’attimo ti devi abbandonare. C’è un’incognita sotto di te. Il tuo piede potrebbe non trovare qualcosa che lo sostiene, il manto bianco abbagliante potrebbe rivelarsi precario, come uno spesso lenzuolo teso fra due speroni di roccia che nasconde solo il vuoto. E allora potresti precipitare giù, nell’abisso, nel crepaccio, nel niente.

Invece no. La neve subito si compatta e diventa dura come cemento. Semmai sprofondi fino al ginocchio in quella polvere così fine, impalpabile. Te ne porti una manciata alla bocca e ti rinfreschi, dissetandoti.

Alzi gli occhi. La nebbia avvolge tutto, quassù, a quasi tremila metri. Il rifugio Rosetta è là, da qualche parte, più in basso, ma non si vede. E’ mezzogiorno ma le nuvole bianche, ora compatte e spesse, ora sfilacciate, lasciano solo intravedere il disco del sole, di un bianco lattiginoso che ne smorza la potenza. Fiocchi di nebbia ti lambiscono, ti accarezzano i fianchi, le spalle, il volto. Le respiri, senti le goccioline salire su per il naso, facendoti sorridere. Un altro passo, la neve scricchiola, affondi, ti senti precipitare ma ancora una volta il piede si ferma. Pensi che è proprio vero, per imparare a camminare bisogna lasciarsi cadere …

Ti appoggi con una mano al muro candido e freddo che si innalza alla tua destra. Il tuo guanto rosso lascia per un istante come un’ombra, una traccia di sé, un riflesso di colore sulla parete immacolata. E’ una goccia, un segno evanescente del tuo passaggio che dura solo il tempo di un respiro.

Si alza un po’ di vento e porta con sé cristalli di acqua ricamata. Se ne poggiano alcuni sul tuo piumino azzurro e sembrano atterrati sopra un cielo al contrario. Li guardi, sono perfetti: un ricamo complicatissimo che ripete migliaia di volte un intreccio perfetto che sa di poesia.

Le nuvole si fanno leggere, la presa si allenta e alcune davanti a te si fanno più luminose. Riflettono un raggio di sole che si fa strada fra i fiocchi di vapore mentre si sollevano e si dissolvono più in alto. Riesci a intravedere il rifugio, il tetto carico di una coltre nevosa, le finestre con le ante aperte, un cuore intagliato nel legno le ingentilisce. Ti fermi a respirare quel momento. Tutto è sospeso, tutto è possibile, tutto è bianco, perfetto così com’è. Ti senti calma e serena, appagata. Se la tua vita finisse in quell’istante saresti felice perché il viaggio verso l’assoluto sarebbe facile, breve, leggero.

“Mamma, mamma, dai, muoviti, abbiamo fame!” Eccoli lì, i tuoi figli, il vostro cane, tutti a saltellare felici nella neve. Corrono sollevando polvere, ruzzolano imbiancandosi e ridendo con quel grosso cane nero spolverato di bianco che sembra impazzito per la novità.

E’ il 27 marzo 2016. E’ Pasqua, la Pasqua più bella della tua vita. La luce della Resurrezione si è fatta realtà, respiro, cosa da toccare. Ti senti colma di gratitudine e riconoscente ti volti a guardare dietro di te quella croce di legno che all’improvviso, emersa dalla nebbia, dalla cima del monte sovrasta tutta la conca innevata.

E allarghi le braccia, come lei, per accogliere tutto.

Il bianco delle tende

LE TENDE   – di Mirella Calvelli                         

Foto di Pexels da Pixabay

 La stanza dello studio era esposta ad Est, per questo godeva del ponentino estivo e dell’ombra ristoratrice dopo le due del pomeriggio.

  In inverno era invece tutta un’altra storia.

Se pioveva, folate di vento e acqua sbattevano violente contro le  finestre “inzaccherando” i vetri, così diceva la nonna, che poi correva a lucidarli con carta di giornale, alcol e olio di gomiti.

Lo capì  molti anni dopo, Agnese, il significato di olio di gomiti, a suo discapito!!

 In quel periodo pensava fosse un’alchimia strana che la nonna esercitava per ottenere i risultati splendenti.

L’altro versante della casa esposto ad Ovest, godeva dei suoi bei tramonti su Firenze con luci e colori inebrianti, e di una protezione quasi soprannaturale, da vento pioggia e quant’altro.

Le tende delle studio si riempivano sempre del ponentino, nelle sere di estate, tanto da sembrare delle vele spiegate verso un orizzonte sconosciuto. Come i vetri erano trasparenti, quasi inesistenti, così le vele erano bianche di un bianco “scaciato”.

Agnese si infilava  fra esse, muovendosi  come un serpentello schizzato, nel tentativo di non incontrarsi  mai con quella stoffa iridescente .

 Era un gioco gioioso che le permetteva di trascorrere quei lunghi pomeriggi estivi senza coricarsi, come avrebbe voluto sua nonna.

Intanto la matrona russava nella stanza accanto come un contrabbasso, con pause lunghe seguite da l’intervento improvviso di un piffero sfondato.

Rideva Agnese di un bel sorriso schietto che faceva mostra dei suoi denti bianchissimi, come la tenda dello studio.

Quel gioco comprendeva un’infinità di gincane per evitare che il visino accalorato catturasse la vela come un sudario.

Contava tutte le possibilità per evitare l’incontro.

Erano belle quelle tende,  quanto lavoro di ago per quel giornino perfetto in fondo alla balza. All’angolo un puntino rosso, un po’ stentato, che quando era piccola credeva fosse una macchia di sangue.

La nonna le diceva , sapessi quanto sangue ho sputato per queste tende, ma erano del mio corredo e dovevano essere perfette!!

Olio di gomiti, sputare sangue, mah era proprio strana, chissà quali altre magie conosceva!!

Quando iniziò ad andare a scuola e imparò a leggere  vide che quel puntino rosso non erano che le iniziali della nonna “L.B.”

Quelle vele compresse sugli occhi l’avevano fatta sentire magica e a volte invisibile.

Filtravano la realtà dalle loro trame spesse, sfioravano il viso come una carezza graffiante, emanavano un odore di fresco e di lavanda. Avevano proprietà magiche, come colei che le aveva cucite.

 Si prostravano a terra in inverno, intristite dal buio che arrivava precoce. Si ergevano erette e distanti dal pavimento di almeno tre dita l’estate, gioiose e sbarazzine.

Quando la nonna partì per il suo lungo viaggio, Agnese staccò le tende dallo studio, le fece lavare con cura e ricamare da mani esperte .

Fece mantenere giornino e piccole iniziali, ma al centro, dove il suo visino si calcava, due belle cifre  grandi, sode: le sue.