Bianco lenzuolo – di Carmela De Pilla
Il pallore del tuo volto
si confondeva
con il bianco lenzuolo
che avvolgeva il corpo
e lo proteggeva
dal gelido alito della morte
appena giunta.
La tua anima gentile
ora vaga
nell’ immenso.
E io sono piena di te
“G” – di Gabriella Crisafulli
Sorvolo con le ali di una follia
fatta della più bianca solitudine
i panni stesi all’aria
le tende che si muovono al vento
i dipinti non immacolati
la neve che affonda
il tulle di un vestito da sogno
Trovo nel diario non scritto
orde di fantasmi dimenticati
Cerco parole
per rivendicare
un trauma
pari all’incredulità
Ho reso estranei me stessa
e quel che mi stava intorno
Ho immolato l’io
agli ideali
e ho perduto
avvenire e futuro
Non posso più stendere
un velo pietoso
Rincorro un viagra
per dare forza
a nuove idee irresolute e confuse
che vagano e si perdono
Ispeziono il vocabolario
alla lettera G
Desidero parole positive
ma anche irrazionali
scarmigliate
libere
Oh
finalmente
Dopo dieci facciate
trovo a pagina 1063
“garbo” e lì mi fermo:
ho da pensare
Foto in bianco e nero – di Nadia Peruzzi

E’ una piccola foto che mi giro per le mani da qualche tempo. Ci sono due ragazze con abiti di 60 anni fa. In braccio una delle due ha un fagottino con pochi capelli, agghindato in un vestitino con una gonna ampia. Anche quello del tipo che oggi non se ne vedono quasi più. Immagine che trasmette serenità, leggerezza, promessa di futuro.
Quando le si va a cercare foto come questa spesso non è un bel segno. Nella bonaccia e nel tran tran si sa di averle, sono parte di te anche se non le guardi mai, sai sempre in che punto dell’album si possono trovare al primo colpo. Pezzi piccoli o grandi del mosaico che compone le nostre vite.
L’ho ripresa in mano e carezzata il giorno prima del mio compleanno appena è arrivata la notizia che la cugina di mia mamma, la ragazza che nella foto mi tiene amorevolmente in braccio, non era più con noi.
In ospedale per accertamenti, è arrivato il covid e se l’è presa, lasciando vuoto e incredulità insieme, dolore e incapacità di prendere atto.
Nessuno ha potuto assisterla in ospedale, nessuno ha più potuto vederla, carezzarla, accompagnarla nel viaggio definitivo. Cose che sappiamo, ma quando ti toccano dilaniano.
Si resta sospesi come devono esserlo state le famiglie dei dispersi in guerra. Senza aver potuto piangere su quei corpi, in un angolino del cuore resta sempre una porta aperta su un altrove dove l’impossibile potrebbe anche tornare possibile.
Ancora oggi si fatica a distanza di due mesi a realizzare che sia successo davvero.
Eppure la realtà bussa alla porta.
E devi ammettere e accettare che un altro pezzo fondamentale di vita e di affetti non c’è più, mentre la fragilità e la sensazione di solitudine si insinuano come piaga in tutto il tuo essere.
Brutta bestia il dolore che non si accontenta di sbatterti in faccia un caso per volta e finita li fino a che non si presenta il prossimo. No. Li riapre tutti. Non in un rivolo o in una sola goccia. No! In una cascata intera o in un uragano a cui non si riesce a frapporre barriere.
Nella vita di ciascuno ci sono figure che contano più di altre. Oltre i gradi di parentela scritti su carta ci sono gli intrecci reali, i ruoli, i sentimenti, le affinità a creare legami inestricabili che accompagnano ogni stagione della vita.
A guardare quella piccola foto avremmo potuto essere quasi madre e figlia. Per scarto d’età ci mancava un soffio. Negli anni è stata un po’ sorella maggiore durante i mesi delle mie vacanze estive a Genova, quando insieme andavamo al mare e a esplorare gli angoli della città che ho imparato ad amare come un pezzo importante della mia storia personale. Crescendo il ruolo di sorella maggiore si è attenuato, lei è tornata ad essere la cugina della mamma e in ultimo, quando la differenza d’età si era fatta sottile fin quasi a passare in secondo piano, una donna con cui rapportarsi da donna.
Ognuno di questi passaggi lo senti perduto per sempre, mancano i nessi, i raccordi, manca tutto e il pensiero non basta a colmare il vuoto che senti. Realizzo oggi mentre scrivo e riesco dopo molto tempo a trovare la voglia e la forza di tornare a scrivere che a destabilizzare è proprio la consapevolezza che manca un punto di raccordo. Perché la ragazza che ho sentito per molto tempo un po’ sorella maggiore, era nello stesso tempo un po’ sorella minore di mia mamma per le circostanze della vita vissuta da entrambe.
Un cerchio ci ha tenuto unite in tutti questi anni malgrado i chilometri di distanza e i tempi a volte dilatati nei quali col passare del tempo potevamo poi realmente vederci.
Quello che resta ora è un cerchio frantumato. Rimane solo un piccolo pezzo mentre gli altri due son volati via.
Restano i ricordi, ma sono ricordi che scavano voragini e non accennano ancora a far bene.
Nemmeno quando rivedi quelle foto in cui tutti son più giovani di 30 anni buoni, sprizzano gioia e serenità dopo aver raggiunto la meta prefissata di una lunga camminata in montagna.
Vero che per un attimo te li senti vicini, quasi riesci e sentire le voci e le loro risate. Diventano vive e si fanno sonore, mentre anche gli occhi e gli sguardi sembrano parlare.
Poi tutto torna a spegnersi e devi fare i conti con l’anima a pezzi che faticano a ricomporsi. Non c’è modo ancora di poter veleggiare in un mare meno tempestoso e destabilizzante.
Il bianco del primo giorno – di Carla Faggi

Bianco il grembiulino del primo giorno di scuola, un grande fiocco rosa, due codine laterali , lo sguardo in basso, il broncio, una gran voglia di piangere.
Dai, forza, ci sono anche le tue amichette, l’Anna, la Maria, disse la mamma, non aver paura, non sei sola.
Speriamo di andare nel banco con l’Anna pensò, ma l’Anna si mise a sedere nel banchino con la Maria.
Voglia di piangere, non sapere dove andare.
Vieni qui, disse la maestra e la mise al primo banco insieme ad una sconosciuta.
Tutto iniziò così.
La bambina sconosciuta divenne la più popolare della scuola, lei fece un po’ da principe consorte.
I grembiuli cambiarono, poi sparirono.
Il primo giorno di ogni anno sempre un gran timore per la timidezza ormai cronica.
Cambiarono le scuole, lei cambiò, ma la timidezza del primo giorno mai.
Anche il primo giorno da matita era timida ma poi…forse è l’età che ti fa meno timida o forse chi ti accoglie…
Ora è di fronte ad un foglio bianco e vorrebbe scrivere qualcosa ma non sa cosa…va bè, domani è un altro giorno, si vedrà.
La gioia di scrivere – di Wislawa Szymborska
La gioia di scrivere
Dove corre questa cerva scritta in un bosco scritto?
Ad abbeverarsi ad un’acqua scritta
che riflette il suo musetto come carta carbone?
Perché alza la testa, sente forse qualcosa?
Poggiata su esili zampe prese in prestito dalla verità,
da sotto le mie dita rizza le orecchie.
Silenzio – anche questa parola fruscia sulla carta
e scosta
i rami generati dalla parola “bosco”.
Sopra il foglio bianco si preparano al balzo
lettere che possono mettersi male,
un assedio di frasi
che non lasceranno scampo.
In una goccia d’inchiostro c’è una buona scorta
di cacciatori con l’occhio al mirino,
pronti a correr giù per la ripida penna,
a circondare la cerva, a puntare.
Dimenticano che la vita non è qui.
Altre leggi, nero su bianco, vigono qui.
Un batter d’occhio durerà quanto dico io,
si lascerà dividere in piccole eternità
piene di pallottole fermate in volo.
Non una cosa avverrà qui se non voglio.
Senza il mio assenso non cadrà foglia,
né si piegherà stelo sotto il punto del piccolo zoccolo.
C’è dunque un mondo
di cui reggo le sorti indipendenti?
Un tempo che lego con catene di segni?
Un esistere a mio comando incessante?
La gioia di scrivere
Il potere di perpetuare.
La vendetta d’una mano mortale.
Le vele bianche dei ricordi – di Stefania Bonanni

Foto di Willi Heidelbach da Pixabay
I ricordi sono bianche vele piegate e legate strette da corde sicure, che un venticello puo’ sciogliere e gonfiare, e spiegare e spingere, che fanno viaggiare veloci imbarcazioni ferme da tempo che i marinai credevano fuori uso, pronte per lo smantellamento. Sapevo di avere vele bianchissime, negli occhi, le ho cercate e trovate, così bianche da far brillare il resto, così fresche da profumare di vento, così fragranti da essere nello stesso tempo morbide e croccanti, al tatto e all’udito. Così semplicemente bianche, da sventolare per sempre. Ha scritto Pamuk, che la vita che si è fatto fino all’età di dieci anni, resta in noi per sempre, pronta ad affiorare, al bisogno. Io ci ho fatto affidamento su quelle vele, che ho ripensato come ali e rifugio. Possibilità di volare, al sicuro di un porto sereno. Erano bianchissime lenzuola stese su fili di ferro, a sfiorare l’erba del prato del lavandaio, davanti a casa. Il prato cominciava proprio davanti. Era un tappeto verdissimo, senza sassi, senza pozzanghere, con l’erba tenuta corta, perché non ci si fregassero le lenzuola , mentre ballavano al ritmo di misteriose melodie. Quando dicevano: “dove sono i bambini?”, la risposta era sempre “nel prato “. Subito, dalla mattina. Era un posto perfetto: lì, davanti a casa, ma a momenti nascosti alla vista. Ci si sentiva liberi. L’unica cosa a cui si doveva stare attenti erano le mani, che non dovevano essere sporche di marmellata o, pericolosissimo, di cioccolata. Si era sentito di impronte digitali, ed eravamo sicuri che avrebbero fatto l”esame, se avessero trovato impronte. Era come stare dietro un sipario, in una scenografia fantastica che diventava qualunque cosa, a patto fosse bianca. Un giorno erano montagne con tanta neve, dalle pareti così lisce che rendevano l’arrampicata impossibile. Un giorno ventoso erano mare, con onde altissime. Un giorno tende nel deserto, quando era estate calda, ma noi eravamo all’ombra. Un giorno erano sipari, che all’improvviso potevano aprirsi e mostrare i nostri numeri di ballo, di giochi di prestigio, o sfilate di moda. Lì ci sono stati castelli con tanto di ponti levatoi a difesa dell’entrata, o accampamenti di soldati nemici , che dovevano fare attenzione ai cavalli, che non sporcassero. Una dimensione magica, che solo il vento poteva cambiare. Quando aveva asciugato in fretta, a volte si restava allo scoperto. Per fortuna lavavano lenzuola in continuazione, ce n’erano sempre, di bagnate da stendere. Il vento gentile dell’estate che passava e si faceva scorgere solo nel movimento delle lenzuola, le faceva somigliare a ballerine di danza classica. Lasciava di se’ una scia profumata di acqua fresca e sapone giallo in pezzi grossi.
Poi, si tornava a scuola, arrivavano le piogge, il prato si riempiva di fango, i lenzuoli venivano stesi nella stanza del calorifero. Per fortuna durava poco, sembravano giorni più lunghi, di più, più freschi, più caldi, più colorati, più bianchi, quelli dell’estate. Alcuni di quei bambini sono forse rimasti tra quelle lenzuola, nel prato sembra faranno un parcheggio. Per fortuna, nessuno puo’cancellare tutto quel bianco dagli occhi di quei bambini, ne’ lo può toccare, cambiare, colorare. Sarà bianco, per sempre.