Freddo pallore, quando nell’alba il sole è soltanto un bianco alone sul limitare dell’orizzonte, confuso nella nebbia fra il cielo e l’acqua del lago, nel silenzio opaco del lento risveglio della natura.
Il lieve sciaguattio dell’acqua penetrata dai remi, disturba con garbo la quiete del momento che pian piano si popola di sparuti cinguettii e sonnolenti squittii sparsi nel cieco candore nebbioso del mattino.
Scivola la canoa in quell’umido lancinante che squarcia ossa e polmoni, disturbando il volo rasente degli aironi che termina sui rami affioranti dal pelo dell’acqua.
Tutto scorre pieno di vita e ti accompagna rilassante verso l’inizio del giorno che, passata la nebbia, il sole scalderà.
Quando il tuo piede affonda nella neve fresca ti sembra di fare un piccolo passo nel vuoto.
Non sai quando la suola della tua scarpa troverà qualcosa ad opporle resistenza. E’ solo una frazione infinitesimale di tempo, ma in quell’attimo ti devi abbandonare. C’è un’incognita sotto di te. Il tuo piede potrebbe non trovare qualcosa che lo sostiene, il manto bianco abbagliante potrebbe rivelarsi precario, come uno spesso lenzuolo teso fra due speroni di roccia che nasconde solo il vuoto. E allora potresti precipitare giù, nell’abisso, nel crepaccio, nel niente.
Invece no. La neve subito si compatta e diventa dura come cemento. Semmai sprofondi fino al ginocchio in quella polvere così fine, impalpabile. Te ne porti una manciata alla bocca e ti rinfreschi, dissetandoti.
Alzi gli occhi. La nebbia avvolge tutto, quassù, a quasi tremila metri. Il rifugio Rosetta è là, da qualche parte, più in basso, ma non si vede. E’ mezzogiorno ma le nuvole bianche, ora compatte e spesse, ora sfilacciate, lasciano solo intravedere il disco del sole, di un bianco lattiginoso che ne smorza la potenza. Fiocchi di nebbia ti lambiscono, ti accarezzano i fianchi, le spalle, il volto. Le respiri, senti le goccioline salire su per il naso, facendoti sorridere. Un altro passo, la neve scricchiola, affondi, ti senti precipitare ma ancora una volta il piede si ferma. Pensi che è proprio vero, per imparare a camminare bisogna lasciarsi cadere …
Ti appoggi con una mano al muro candido e freddo che si innalza alla tua destra. Il tuo guanto rosso lascia per un istante come un’ombra, una traccia di sé, un riflesso di colore sulla parete immacolata. E’ una goccia, un segno evanescente del tuo passaggio che dura solo il tempo di un respiro.
Si alza un po’ di vento e porta con sé cristalli di acqua ricamata. Se ne poggiano alcuni sul tuo piumino azzurro e sembrano atterrati sopra un cielo al contrario. Li guardi, sono perfetti: un ricamo complicatissimo che ripete migliaia di volte un intreccio perfetto che sa di poesia.
Le nuvole si fanno leggere, la presa si allenta e alcune davanti a te si fanno più luminose. Riflettono un raggio di sole che si fa strada fra i fiocchi di vapore mentre si sollevano e si dissolvono più in alto. Riesci a intravedere il rifugio, il tetto carico di una coltre nevosa, le finestre con le ante aperte, un cuore intagliato nel legno le ingentilisce. Ti fermi a respirare quel momento. Tutto è sospeso, tutto è possibile, tutto è bianco, perfetto così com’è. Ti senti calma e serena, appagata. Se la tua vita finisse in quell’istante saresti felice perché il viaggio verso l’assoluto sarebbe facile, breve, leggero.
“Mamma, mamma, dai, muoviti, abbiamo fame!” Eccoli lì, i tuoi figli, il vostro cane, tutti a saltellare felici nella neve. Corrono sollevando polvere, ruzzolano imbiancandosi e ridendo con quel grosso cane nero spolverato di bianco che sembra impazzito per la novità.
E’ il 27 marzo 2016. E’ Pasqua, la Pasqua più bella della tua vita. La luce della Resurrezione si è fatta realtà, respiro, cosa da toccare. Ti senti colma di gratitudine e riconoscente ti volti a guardare dietro di te quella croce di legno che all’improvviso, emersa dalla nebbia, dalla cima del monte sovrasta tutta la conca innevata.
E allarghi le braccia, come lei, per accogliere tutto.
La stanza dello studio era esposta ad Est, per questo godeva del ponentino estivo e dell’ombra ristoratrice dopo le due del pomeriggio.
In inverno era invece tutta un’altra storia.
Se pioveva, folate di vento e acqua sbattevano violente contro le finestre “inzaccherando” i vetri, così diceva la nonna, che poi correva a lucidarli con carta di giornale, alcol e olio di gomiti.
Lo capì molti anni dopo, Agnese, il significato di olio di gomiti, a suo discapito!!
In quel periodo pensava fosse un’alchimia strana che la nonna esercitava per ottenere i risultati splendenti.
L’altro versante della casa esposto ad Ovest, godeva dei suoi bei tramonti su Firenze con luci e colori inebrianti, e di una protezione quasi soprannaturale, da vento pioggia e quant’altro.
Le tende delle studio si riempivano sempre del ponentino, nelle sere di estate, tanto da sembrare delle vele spiegate verso un orizzonte sconosciuto. Come i vetri erano trasparenti, quasi inesistenti, così le vele erano bianche di un bianco “scaciato”.
Agnese si infilava fra esse, muovendosi come un serpentello schizzato, nel tentativo di non incontrarsi mai con quella stoffa iridescente .
Era un gioco gioioso che le permetteva di trascorrere quei lunghi pomeriggi estivi senza coricarsi, come avrebbe voluto sua nonna.
Intanto la matrona russava nella stanza accanto come un contrabbasso, con pause lunghe seguite da l’intervento improvviso di un piffero sfondato.
Rideva Agnese di un bel sorriso schietto che faceva mostra dei suoi denti bianchissimi, come la tenda dello studio.
Quel gioco comprendeva un’infinità di gincane per evitare che il visino accalorato catturasse la vela come un sudario.
Contava tutte le possibilità per evitare l’incontro.
Erano belle quelle tende, quanto lavoro di ago per quel giornino perfetto in fondo alla balza. All’angolo un puntino rosso, un po’ stentato, che quando era piccola credeva fosse una macchia di sangue.
La nonna le diceva , sapessi quanto sangue ho sputato per queste tende, ma erano del mio corredo e dovevano essere perfette!!
Olio di gomiti, sputare sangue, mah era proprio strana, chissà quali altre magie conosceva!!
Quando iniziò ad andare a scuola e imparò a leggere vide che quel puntino rosso non erano che le iniziali della nonna “L.B.”
Quelle vele compresse sugli occhi l’avevano fatta sentire magica e a volte invisibile.
Filtravano la realtà dalle loro trame spesse, sfioravano il viso come una carezza graffiante, emanavano un odore di fresco e di lavanda. Avevano proprietà magiche, come colei che le aveva cucite.
Si prostravano a terra in inverno, intristite dal buio che arrivava precoce. Si ergevano erette e distanti dal pavimento di almeno tre dita l’estate, gioiose e sbarazzine.
Quando la nonna partì per il suo lungo viaggio, Agnese staccò le tende dallo studio, le fece lavare con cura e ricamare da mani esperte .
Fece mantenere giornino e piccole iniziali, ma al centro, dove il suo visino si calcava, due belle cifre grandi, sode: le sue.