Un colore può fare la differenza? forse si o forse no.. Allora mi sono chiesta: quanto sono essenziali per me i colori? Molto nascosto, in me, c è un colore che ignoravo, l’indaco.
Mentre guardo il soffitto ad ogni fine giornata cerco di riassumere le ore appena passate con due spennellate di colore immaginario, in questo sfondo bianco. Stasera ho incontrato e stretto il cuore all’indaco e ho dipinto il soffitto di questo colore.
La prima pannellata racchiude la profondità di questo tempo.
La seconda l’incertezza degli sguardi.
La terza l’incontro dei colori che insieme danno vita all’indaco e così lo sento come segno d’incontri fra gli uomini, creando speranza.
Indaco ora che ti ho incontrato non scappare da me……
Vedo orizzonti, dove altri vedono confini. E non sono di un altro pianeta, solo una che da questa estate si sente Frida addosso. L’ho letta, ho copiato i suoi quadri, ho rivisto il film sulla sua vita, l’ho pensata, e sentita. E cerco gli orizzonti, e so che i confini me li porto dietro, costruiti con alte mura. Ma gli orizzonti li vedo immensi, colorati d’Alba, di tramonto, di foglie di ulivi argentati, o di alberi rossi d’autunno. Come tutto quello che ci si offre disteso dalle scale davanti alla Chiesa di San Quirico a Ruballa. Come la vista alla quale si sono girate le spalle , per cercare riparo dalla pioggia, quando siamo entrate. Salvo scoprire che l’interno è pieno di esterno. Le pareti sono dipinte di verde, i quadri colorano come i fiori i prati. La Croce d’oro sembra raggio di sole. Il povero Cristo, un uomo dolente, addolorato da una vita dura e faticosa, giovane e tormentato. La Croce che non può smettere di portare, abbraccia lui e chi lo guarda, in uno stesso orizzonte. Tanti colori, ma resta negli occhi l’indaco, che riesce nel suo scopo di rimanere impresso negli sguardi. Così diverso dai rossi, marroni, gialli, verdi, rubati alla natura intorno, normali. Così stupefacente che dipinge solo vesti di santi, e sempre quelle della Madonna. E fa pensare al cielo, all’immenso, al divino. Tutte cose che mettono soggezione. Salvo che poi, quando un paio di giorni dopo la visita alla chiesina, il cielo ha smesso di rovesciarci addosso tutte le lacrime che aveva messo in serbo, ed è tornato il sereno, mi sono sentita avvolta dall’indaco. Tutto il cielo era azzurro, o celeste, o forse indaco, proprio quello strano incrocio di ciano virato al magenta. Invece era solo cielo, tappezzato di nuvole bianche, gonfie, stracciate. Sembrava che qualcuno avesse voluto trattenere la Madonna tirandola per l’orlo del mantello indaco, che si è strappato, formando filamenti di nuvole bianche. Era cielo, solo cielo. Il cielo su di noi, che si colora degli occhi nei quali si specchia.
INDACO un colore particolare che mi porta indietro nel tempo, nei miei viaggi in Turchia, il paese dell’indaco, con le sue sfumature di azzurro che trovi dovunque dal cielo alle pietre di lapislazzuli con le sue particolari pagliuzze dorate che li rendono preziosi e difficili da trovare. Vetri, gioielli, foulards, stoffe, tappeti Kilim tipici e un’abbondanza di merci dove i tuoi occhi si soffermarono giusto per un battito d’ali per passare ad altre vetrine ed oggetti che attirano il tuo sguardo per il luccichio e colore dell’oro, dell’argento e del blu. Le moschee ricoperte internamente ed esternamente di bellissime piastrelle o mosaici sempre con i diversi blu insieme all’arte orientale che primeggia dovunque con i suoi intarsi in legno e madreperla. Mobili, tappeti, ceramiche vetri e suppellettili varie che non smettono di stupirti di lasciarti a bocca spalancata come un bambino davanti ad una vetrina di giocattoli. Ricordo bene il mio allegro girovagare per le stradine di Istanbul con i suoi musei e moschee antiche e questi suoi blu che ti avvolgono insieme ai profumi particolari di incensi attirando strada facendo lo sguardo sulla bellissima Moschea Blu. I suoi mercati abbondanti di oggetti lavorati a mano e i negozianti che ti invitano gentilmente ad entrare offrendoti un the alla mela buonissimo che aiuta a riscaldarti e una volta entrata difficilmente esci a mani vuote. Quel susseguirsi di negozi illuminati sempre a festa affollati di persone e di merci che attirano l’attenzione. I manufatti in argento, oro e pietre preziose e il suo famoso Occhio di Allah abbellito con oro o argento. Dicono che porti fortuna per cui non c’è persona che non lo indossi e addirittura viene attaccato con una catenina alla marmitta della propria automobile ! Vetrine di gioiellieri traboccanti di merci dove affoghi gli occhi stancando vista e fisico così diversi e lontani dai nostri dove la merce è esposta più con eleganza che magnificenza. Nonostante l’affollamento di merci è divertente e piacevole visitare i mercati come quello famoso di Istanbul o della Cittadella antica di Ankara. I tappeti nuovi, vecchi, antichi attirano l’attenzione di tutti fosse solo per la pazienza e gli anni che impiegano per tesserli. Mi riferisco a quelli fatti a mano con pazienza e amore. Ho girato molto per negozi e mercati e nei viaggi di ritorno ho sempre riportato a casa vari oggetti e molti di color indaco quel blu profondo e brillante con un piccolo accenno di rosso fino ad arrivare al turchese altro colore della Turchia, terra di storia antica bella a volte selvaggia con i suoi poveri che non si stancano di sorriderti ed essere gentili sempre pronti ad aiutarti. Ho riempito casa di oggetti che spesso quando mi guardo intorno mi ricordano questo bellissimo paese dove ho lasciato un pezzo del mio cuore.
Era la mamma di tutti Lucia, sapeva trovare sempre le parole giuste nel momento giusto, la sua saggezza era la sintesi di una vita difficile fatta di cadute e ricadute, ma era sempre riuscita a fronteggiarne le difficoltà reagendo con slancio agli ostacoli contro ogni previsione, sapeva gioire di ciò che la natura le offriva e col tempo aveva imparato anche a sorridere.
Trascorreva gran parte dei mesi estivi nella sua modesta casa al mare dove suo padre, pescatore già da bambino, aveva vissuto fino alla morte.
-Il mare mi entra dentro viscere, diceva, con la sua forza mi fa volare!
E volava Lucia, volava con la mente e con il cuore, attraversava le praterie dei suoi sogni immaginando vite straordinarie.
Era quel momento del giorno in cui il sole dà il benvenuto alla luna, per un attimo si guardarono, l’una difronte all’altro ignari di ciò che accadeva sotto di loro, Lucia amava quel momento della giornata e spesso andava in terrazza per godere di quello spettacolo.
L’azzurro del mare e del cielo la circondò e lei si lasciò cullare da quell’immensità, per un attimo ebbe quasi paura di sprofondarci poi aprì le braccia come se volesse imprigionare quell’immagine e assaporò fino in fondo l’ emozione di essere lì.
Il sole ormai si era nascosto oltre l’orizzonte e aveva lasciato dietro di sé mille veli dai colori indefiniti che si intrecciavano l’uno con l’altro regalando sfumature quasi trasparenti tra il rosa e il viola, poi più niente… il cielo si fece azzurro e l’indaco si diffuse timidamente in quella vastità, persino le onde si zittirono e un grande silenzio avvolse Lucia.
Il sole entra con forza dalla finestra, non riesco a rimanere in casa, la bambina nata e vissuta in campagna si agita dentro di me, lei era abituata a stare sempre fuori da sola o con gli altri bambini del vicinato.
I loro giochi erano all’ aperto, solo quando pioveva si ritrovavano in qualche andito, o quando potevano andavano a casa di una bambina che aveva un stanza a disposizione, creando giochi con la sola fantasia.
Oggi quel sole mi chiama fuori, lascio tutto ed esco.
Quando sono fuori il sole mi accarezza, il cuore mi torna leggero, mi sento bene, alla prima salita il fiato mi diventa pesante, piano, piano prendo il ritmo.
Il canino Milo dei vicini quando mi vede passare abbaia con foga, come a farsi coraggio, lo chiamo per nome, il suo abbaiare diventa più dolce e lentamente si spenge.
Sento sempre un po’ di fatica a camminare, sono arrivata alla strada vicinale che porta alla villa dei Ginori, nei tempi passati era adoperata per raggiungere alcuni campi con più facilità e per accorciare il tempo per arrivare in paese.
Nella strada ci sono delle pietre sfalsate appartenenti al terreno della collina, andando più avanti trovo scarti edili, ci sono tanti piccoli frammenti di mattoni che formano un tratto di strada arancione.
I campi intorno a me sono abbandonati, il sottobosco li sta invadendo, gli olivi per strapparsi a quell’abbraccio mortale sono cresciuti in altezza[P1] , un fruscio nel folto del balzo, un fagiano spicca il volo, il sole illumina i bei colori del suo piumaggio.
Andando avanti trovo un appezzamento di terreno con ulivi curati, il sole mi riscalda, rumore di trattore in lontananza.
Dietro di me, nella collina sinistra, la villa del Petriali spicca nel verde argentato degli olivi.
Il sole illumina tutta la vallata, il campanile della pieve svetta su tutto.
Accanto al paese un serpentone gli passa vicino e produce un fruscio rombante con varie intensità di suono.
Devo farci l’occhio, è la modernità della nostra società.
Nel cielo bianche nuvole disegnano morbide piume, il sole e più tiepido.
Quella mattina Lucio Davoli, nel suo ufficio, stava leggendo il quotidiano della sua città. Si godeva sempre quello scorcio di tranquillità mattutino prima che segretarie, sindacati, riunioni, progetti…tutte cose create per infliggergli le più acute sofferenze, cominciassero la loro ronda giornaliera .
L’aveva colpito un articolo, in terza pagina, sorprendente e un po’ insolito. Si intitolava ”L’indaco, questo colore sconosciuto”. Cominciò a leggere, curioso per come il titolo trattava quel bell’azzurro che invece era ben noto in natura e nella pittura…e una delle sfumature più affascinanti dell’arcobaleno.
Leggendo però, il punto di vista dell’autore, uno sconosciuto studioso di arte, gli fu chiaro.
Raccontava che, per secoli l’azzurrite, di colore indaco, nella pittura, era stato il fratello minore del più nobile lapislazzulo…. una specie di “blu de noantri”, più economico e meno fulgido. L’autore proseguiva dicendo che invece, se ben usato, anche il modesto indaco, fatto con materiali più nostrali ed economici, poteva sortire effetti sorprendenti, che nulla avevano da invidiare a quelli ottenuti dal suo più nobile fratello…. e citava vari capolavori, soprattutto di artisti toscani che, costretti dalla tirchieria dei committenti, erano tuttavia riusciti ad ottenere prestazioni affascinanti da questo colore così trascurato…
Fu distratto dal telefono: ”Ciao Lucio, sono Vittorio…”. Vittorio Ducetti, uno dei più noti perdigiorno della Direzione, sempre perso in progetti più o meno pazzoidi, che regolarmente erano inattuabili, però una persona colta e sensibile. . e poi, era un amico. .
“Dimmi Vittorio…”. Piccolo silenzio…poi ”Senti Lucio, da quant’è che non parli con qualcuno della Direzione. . ?!”
Davoli sentì un lieve brivido al collo. . in effetti aveva messo il dito sulla piaga. . era proprio quello che lo assillava in quei giorni. . lo strano e insolito silenzio della Direzione Aziendale.
“Beh. . in effetti sono parecchi giorni…”
“Lucio, lo sai meglio di me…questi silenzi assordanti non significano mai nulla di buono…. ”.
Lucio Davoli si irrigidì…che diavolo voleva dire . . era sempre stato criptico. . ma ora….
“Vittorio. . se sai qualcosa dimmelo subito…non fare scherzi …”
“No no. . io non so nulla . . vedo solo una certa agitazione. . ”
Bugiardo. . sapeva eccome, Lucio ne era più che sicuro. .
Chiuse la conversazione con un grave senso di oppressione al petto…. Sentiva la realtà come restringersi intorno imprigionandolo come una specie di una catena impalpabile…
E gli venne in mente quando, qualche tempo prima, alla fine di una esasperante riunione sindacale, uno dei più ignobili partecipanti, un sindacalista che tale era solo di nome, dato che aveva fondato una sigla con solo sé stesso, gli aveva detto: ”Ingegnere, non si rallegri, verranno anche per lei tempi brutti…”. Era un mentecatto, ma Lucio ogni tanto ci rabbrividiva sopra…
Sentì il bisogno di rassicurazione. . telefonò ad un collega che sapeva essere grande intrallazzatore. . lui qualcosa doveva saperla…
Fu servito a dovere…”Ah. . non lo sai. . ? Come mai non ti sei interessato…?” …Ora era anche colpa sua….
“ E io dove vado a finire?” Più che una domanda era un grido d’angoscia. .
“Sarai responsabile dei magazzini…. ”
Dunque questo era il suo futuro. . un magazziniere di lusso….
Uscì…insomma. . gli avevano or ora detto che aveva perso il posto…Tutto gli sembrava così irreale….
Alzò gli occhi in alto, fu avvolto dal meraviglioso indaco del cielo: nitido, brillante, senza neanche una nuvola che ne offuscasse lo splendore.
E quella magnificenza lo avvolse. . e lui fu trasportato in un iperuranio dove i miserabili intrighi, la colossale Direzione e l’Azienda non furono che pigmei trascurabili.
E meno male che l’indaco era l’azzurro dei poveri…..
Mi distendo senza pensarci due volte: il prato è fresco, coperto di fiori di ogni colore. La terra è dura, sotto, nasconde tesori. Non ho paura, come credevo prima di farlo. Non penso più che rettili pericolosi potrebbero minacciare questa esperienza. Mi sento accolta, come in un rifugio che si è proposto solo per me.
Lascio che qualche fiore mi solletichi il viso, distendo i capelli e li accomodo, così da non avvertire alcuna tensione. Faccio un respiro profondo e alzo lo sguardo proprio in verticale, sopra di me. L’ora è tarda, il giorno si sta spegnendo. Sopra di me l’azzurro chiaro dell’estate si carica di toni accesi, una goccia di rosso tramonto si mescola al blu e il cielo vira all’indaco. Nemmeno una nube ad interrompere il colore. Alla mia destra avverto la presenza di montagne importanti. Le ho guardate per giorni, assaporate, bevute, invocate. Le ho pregate di rimanere per sempre con me. Ora non le vedo, ma so che ci sono e mi osservano attente.
L’indaco del cielo mi attrae, ha un potere magnetico su di me. Mi ascolto, mi chiedo come sto, cosa sento. Sto bene, il mio respiro è calmo, regolare. Mi sento esattamente dove sono e per un attimo ho la percezione netta della mia posizione nell’universo. Ho la consapevolezza di essere un minuscolo corpo posato su un punto infinitesimale di una sfera che ruota su sé stessa ad una velocità enorme. Ho la sensazione precisa della rotondità della superficie su cui mi trovo, solo in apparenza piatta. Potrei facilmente cadere giù da questo punto microscopico che mi sorregge e fluttuare, vagare, perdermi nel sistema solare. E’ una sensazione bellissima, mi riempie di stupore. Percepisco la vastità dello spazio che mi sovrasta, gli occhi puntati verso l’indaco che mi chiama, mi vuole. E allora mi lascio andare. Mi libero del mio corpo, mi sento leggera, respiro dolcemente e mi lascio attrarre dal colore che mi avvolge, facendosi sempre più intenso. E’ una vibrazione forte quella che mi arriva dall’indaco e tutto il mio essere vi si accorda, si adegua, come una corda di violino al “la” del diapason. Aumenta, mi ha presa. Mi porta sempre più in alto, sempre oltre. La Terra è ormai sotto di me, lontana. Vedo i pianeti del sistema solare scorrermi accanto. Il Sole brilla ma non brucia, mi inonda di luce e d’oro. La vibrazione non mi lascia, mi porta ancora oltre. Vedo tutta la Via Lattea, lo scintillio di miriadi di stelle, la Nebulosa di Antares, Andromeda … la vibrazione si trasforma, si fa quasi canto, ma senza una melodia precisa. E’ un suono oltre l’umano, non proviene da una voce, è intrinseco allo spazio. Sono consapevole di me, so di essere qui per cercare qualcosa. Desidero con amore la luce, la invoco, la cerco. Non mi delude, mi si dona. Mi appaga.
E’ solo un attimo, lo so, non posso rimanere a lungo, ancora. Non sono pronta, non è il momento.
Il viaggio a ritroso è più rapido dell’ascesa, la vibrazione mi avvolge e come tendendo un filo mi mostra la via per tornare a casa. Navigo sicura fra gli astri e presto vedo la Terra. Il nostro Pianeta Blu, con tante sfumature indaco. Ecco il continente africano, enorme, caldo. E l’Europa, che la sfiora a Gibilterra. Le Alpi fanno da corona alla nostra penisola, mi sposto a est, so bene come ritrovare la mia destinazione. Le Dolomiti mi salutano coi toni accesi del tramonto. Ecco il Sasso Lungo e il Sasso Piatto, ecco l’Alpe di Siusi. Il mio corpo è ancora là, su quel prato fiorito. Su quel minuscolo puntino che lo sorregge, non lo fa cadere giù. Prendo un bel respiro e accolgo quella parte di me che è stata in viaggio. Bentornata, anima mia.
Indaco, indaco …. o che colore è indaco,dove si trova in natura?
Mah ! Ora lo domando a quel contadino.
Scusi l’ indaco dove lo trovo?-
In Comune! Dove vole che sia,ma unno so se ce lo trova,gl’è sempre a giro!-
Ma chi ?-
Il sindaco!-
Il sindaco ?-
In comune …….. non sempre però … anzi quasi mai !-
INDACO !…… IN .. DA .. CO !!-
E va bbene gliel’ indico. Allora guardi, la prende la seconda a sinistra dopo il semafero, poi la va tutto a dritto e la ci schianta sopra !!! La vedrà che la un si sbaglia !
MA NOOOOOO …..L’ INDACOOOO !!!!!-
Ohooo la un si scardi tanto, perché io son bono e tranquillo e le cose gl’e l’ho dette perbenino, ma se mi salta la mosca al naso e ti do uno stonfo ti fo un occhio viola quasi blu –
INDACOOOOOO !!!! –
Bravo proprio quello !!! – SPAAM !!!
Ohioi, eccolo, l’indaco l’ho trovato! Ohioi !! Vado subito a vedermi allo specchio !! Ohioi !!! GRAZIE, GRAZIE !!!!
“Fummo quello che non si racconta, né si ammette, ma che mai si dimentica”
Come era arrivata li, quasi non lo ricordava, si era ritrovata in una piazzetta, di un posto un po’ qualunque affacciato su un qualcos’altro.
Posteggiare male scendere di corsa, sbattere lo sportello erano stati i suoi ultimi gesti con un senso compiuto.
Si era avviata su per la salita mentre cominciava a piovere, una pioggerellina stupida che a malapena la bagnava, una grossa nuvola color glicine le apparve come un fenicottero mutilato indicandole un posto poco lontano…
Le apparve così San Quirico, tra profumo d’erba tagliata e silenzio accogliente.
Gli scalini un po’ scivolosi la fecero traballare si appoggiò al nulla ma non cadde, entrò in punta di piedi, per non disturbare, avvertiva gente, nel deserto assoluto, alzò gli occhi verso quel Cristo, incombente, non fu generosa, nemmeno un segno di rispetto per quel Dio morto da uomo.
Si sedette nella prima panca, stanca nell’ anima, ma rassicurata dai colori caldi, da stemma famigliari, di persone che non c’erano….si mosse leggermente quella seta violacea, forse una mano la tratteneva dall’interno, il cuore cambiò ritmo ma non si spaventò, si alzò lentamente e si inginocchiò in quel confessionale, che le parve un caldo rifugio, una soluzione per l’ anima…forse…Un leggero respiro le confermò la presenza del sacerdote…iniziò un farfugliante atto di dolore, che non ricordava ed iniziò a parlare…parlare, tra le lacrime, no non cercò pietà , non voleva nemmeno essere assolta o perdonata, le bastava solo una carezza dall’alto per continuare a vivere con meno coltelli nella schiena…
Una porta sbatteva, ma da quanto era lì? Ed il prete, perché non aveva parlato?
Solo la seta color lacca di Solferino sembrava viva in quella solitudine, svolazzando aveva rilevato il nulla….Non c’era nessuno e forse non c’era mai stato…
Non voltò le spalle a quel Gesù affumicato, indietreggiò ed uscì, sul sagrato un uomo le sorrise e non era un sacerdote: torni quando vuole, buona serata….
Riprese la strada del ritorno, il cielo aveva perso la sua cupezza, il fenicottero aveva, ora lunghe zampe ed instancabile correva , correva… facendo cadere piccole piume corallo pallido, sembrava venirle incontro, nascondendosi a tratti tra gli oleandri, riflessi tra le nuvole.
Cercò di memorizzare il percorso, sì voleva tornare, lo doveva a quella chiesa, a quella seta quasi viola, a quel sorriso che l’ aveva salutata…a se stessa. No, non aveva ammesso le sue colpe, non aveva voluto ricordare…ciò che non aveva mai dimenticato…..
Per te è normale: ti presenti a casa mia il 10 ottobre e con delicatezza e semplicità appoggi sul tavolo di cucina bianco latte, di cristallo, un oggetto sfavillante, morbido, elegante e follemente arancione.
Io so già cos’è, ma non voglio togliere a mia figlia il gusto della sorpresa.
Per il mio compleanno, in marzo – che poi è il NOSTRO compleanno – mi facesti ridere con quell’involucro giallo di stoffa sfacciatamente dorata a forma di corona, con i “raggi” proprio come il virus al microscopio: “Sì, è proprio il “Corona”, ma a te porta bene”. E infatti, dentro avevi nascosto ben tre ricche banconote.
Stavolta la “busta” è più sobria, ma raffinata. Quel fiore sulla destra la impreziosisce con semplicità.
Le stoffe, i colori, da sempre il tuo mondo. Per te è normale cercare armonia fra i colori e creare mondi in drappeggi inusuali. Basta che tu abbia per le mani due o tre sciarpe, di quelle sottili, di voile drammaticamente sintetico, che una per una non indosserei mai, tanto sono prevedibili nell’effetto, che in un attimo le prendi, le leghi da una parte, ci fai un nodo morbido che diventa subito un fiore e poi me le avvolgi intorno al collo ed ecco fatto, ho un prato fiorito intorno al viso. Peccato che quando ci riprovo da sola la magia non esca più e le sciarpe tornino ad apparirmi grigie.
Solo dalle tue mani quella bellezza si sprigiona. Come farò quando potrò solo ricordarlo?
Ma ora, ancora, ci sei, e sorprendi mia figlia con quella busta arancione di stoffa morbida. Ho negli occhi quel colore così acceso che in un attimo ci riporta tutte e tre laggiù, in India, dove tutto è cominciato.
Tu, mamma, là, in quella “stanza – magazzino – studio” dell’orfanotrofio, mi hai visto partorire la mia maternità adottiva. Tu, insieme a me, sei stata così felice di vivere con me la nascita di Tushna come figlia. Ti ricordi? La direttrice – la saggia e bella signora Kumar – entrò tenendola per mano, avvolta nel sari giallo e argento che ogni bambina quando è il suo turno indossa il giorno del primo incontro con i genitori adottivi, e semplicemente le disse: “go to your mam” – vai dalla tua mamma – e lei quasi correndo mi salì sulle ginocchia e si accomodò sul mio grembo. Sorrideva. E non mi conosceva neanche. Tu eri lì, mamma, davanti a me, e con me piangevi di gioia.
Ricordo quel momento tutto in arancione, come le pareti della stanza – magazzino – studio, come la divisa delle ragazze che lavoravano all’orfanotrofio, come le mura esterne delle casette dormitorio dove c’era il suo lettino a castello, come la terra del giardino incolto dove andammo a giocare a palla.
Sono passati 16 anni da allora. Il 10 ottobre abbiamo festeggiato il ventesimo compleanno di tua nipote. Il colore arancione della tua busta – biglietto non è un caso, è il colore di un sentimento, di una storia, di un ricordo, di un mondo e delle sue spezie. Del nostro cuore che ne è pieno.
Colore affascinante, parola dal suono evocativo, INDACO è anche un profumo
L’INDACO viene estratto da foglie della pianta dell’indigofera tinctoria, diffusa in tutto il pianeta. Si usa da sempre per tingere i tessuti, ed è affascinante per la particolare profondità del blu che riesce a dare. Una volta fiorita, la pianta viene tagliata e marinata in grandi vasche riempite d’ acqua. L’acqua di macerazione si tinge di blu scuro.
Da Wikipedia: “L’indaco è una sostanza colorante di origine vegetale, già noto in Asia 4000 anni fa: il suo nome deriva infatti dall’India, che ne era il principale produttore. Con lo stesso nome viene identificata anche la sua molecola, derivata dall’indolo...”
E’ un colore dell’ARCOBALENO e si ottiene da CIANO e MAGENTA.
Nella filosofia New Age si ritiene che favorisca l’apertura del Terzo Occhio, che agevoli il rilassamento e la meditazione, che stimoli l’intuizione e la percezione.
Non sono nuove “scintille” ma solo aiuti al nostro riflettere.
A S. Quirico a Ruballa, nella sala dove Alberto Casini ci ha accolto (in piena sicurezza) con grande generosità, abbiamo condiviso piccole riflessioni e “storie che fanno bene”, in un pomeriggio che si era aperto piovoso e che poi ci ha permesso di osservare bellezze inaspettate.
Ho chiesto e chiedo al gruppo di pensare ad un colore personale, magari suscitato dalla visione dal vivo dei paesaggi e delle opere che abbiamo osservato insieme in questa occasione.
Ho aggiunto la lettura di alcune frasi che vi propongo anche qui: (da Cromorama, di Riccardo Falcinelli)
“Un’idea del colore è sempre, inevitabilmente, anche un’ideologia, magari anche politica.”
“Fummo quello che non si racconta né si ammette, ma che mai si dimentica”
“Niente è assoluto, tutto cambia, tutto si muove, tutto gira, tutto vola e va via“
E infine una frase di Frida Kahlo:
“Non far caso a me. Io vengo da un altro pianeta. Io ancora vedo orizzonti dove tu disegni confini”.
Caldi, avvolgenti raggi di sole, diffondevano una rilassante luce arancione attraverso l’accogliente coperta di seta che l’avvolgeva interamente. Il tepore che la coccolava rallentava la voglia di svegliarsi da quel sonno profondo, intenso e rigenerante. Era arrivato il tempo di mettere il capo fuori per godere della nuova giornata. Uscì pigramente distendendo le membra intorpidite. Aprì gli occhi sbadigliando, un’altra stiratina e sentì distendersi delle ali nuove, mai avute, di una bellezza inebriante arancioni come la sua felicita? Un salto e….via ! A scoprire dall’alto, in un batter d’ ali, la bellezza dell’ “ isola che non c’ e’”!
E ancora una volta fu sveglio. Sveglio da un sonno agitato, infestato da incubi e da mille Erinni. Strinse gli occhi, sforzandosi di non pensare a quello che avrebbe visto, quello che da tre settimane, più o meno, gli si presentava davanti. Aprì gli occhi, ma…eccolo lì. . quel muro infinito, grigio e possente. Si stendeva a perdita d’occhio a destra e a sinistra…. . Eppure si curvava, lui lo sapeva dopo aver percorso chilometri e chilometri cercando una via di fuga. Era talmente immenso che i cambiamenti di direzione erano impercettibili e di vie di fuga non ce n’erano. Se si poteva uscire da lì avrebbe dovuto sfruttare altri sistemi…ma non gliene veniva in mente nemmeno uno. .
L’altro lato – si fa per dire – del larghissimo vialone era fatto di piante, fiori, frutti…era stata la prima via d’uscita che aveva tentato, prima di accorgersi che, se possibile, era ancora più impenetrabile dell’immane muraglia.
Che non era proprio ostile, a quanto pareva, dato che a intervalli regolari si apriva una fessura da cui su una specie di mensola compariva una scodella colma di una zuppa dal vago odore di funghi. Il sapore poi era delizioso, come aveva constatato. Insieme ad una brocca di acqua scintillante, questa era la colazione, il pranzo e la cena, indipendentemente da dove si trovava, in quel labirinto apparentemente sempre uguale. Per lui.
Il tempo passava, se il tempo era un concetto utilizzabile in quell’universo così immutabile. I giorni si alternavano alle notti e quando il sole tramontava quel luogo veniva inondato da una dolce luminescenza aranciata, che si spengeva quando lui era stanco. Ed era allora che compariva la visione fantastica di un cielo come pochi, ”prima”, avevano avuto la fortuna di poter vedere. E lui era uno di questi fortunati; anzi , proprio mentre stava lavorando al VLT, sul Cerro Paranal, a 5000 metri sulle Ande Peruviane gli era capitato l’”incidente”. Ormai lui lo chiamava così: ”lì “ si era addormentato e” qui” si era svegliato. Punto e basta.
Tanto per ingannare il tempo, aveva cercato di capire almeno “dove” era, se non “quando”, ma questo era molto più difficile. Perciò si era concentrato sulla prima domanda. Alzando gli occhi aveva visto, quasi allo Zenith, la costellazione della Croce del Sud, con a fianco la sua fedele ancella: la stella Alpha del Centauro…che abbagliava per il suo splendore. Quindi quel posto – se era un “posto” – si trovava nell’emisfero Sud. Per la latitudine, ricordandosi che di mestiere faceva l’astronomo, gli era bastato individuare la costellazione dell’Ottante, l’equivalente dell’Orsa Minore per il mondo australe, che conteneva la Stella Polare del Sud, e vederne a occhio l’altezza sull’orizzonte: circa 45 gradi. Quindi era in un punto qualunque a 45 gradi di latitudine Sud. Però bisognava sapere anche la longitudine. . e questo era impossibile…infatti ci rinunciò subito…
La sua attività era camminare…camminare…camminare. . nell’inconfessabile speranza che in fondo una meta, un principio, un termine, in quel labirinto temporale ci fosse.
.
Da tempo ormai i suoi abiti si erano sfarinati, viaggiava nudo…. tanto la temperatura era sempre la stessa e non pioveva mai. .
Quel Labirinto però, costringeva a pensare.
Estraneo ai tormenti del fardello quotidiano, nudo come il suo corpo, il pensiero volava libero, sorpreso e compiaciuto. Proprio come l’aquila che può cogliere visioni proibite agli umani, così anche lui poteva sentire espandersi il respiro, alitandolo come un soffio potente. E il Labirinto pareva incoraggiarlo, coi suoi silenzi e l’assoluto della sua presenza.
Perché ancora lo premeva il chiedersi con angoscia perché. . perché fosse proprio lì…Forse era impazzito. . o forse era pazzo “prima”?!
Non c’erano risposte, solo il dolce frusciare di un venticello e la tenera luce arancione.
Ma . . il Labirinto sembrò rispondergli…e “prima”…”prima”. . in quel mondo tormentato…forse avrebbe saputo rispondere?!
Assolutamente no. Da questo punto di vista i due mondi erano equivalenti. E altre domande non ce n’erano.
E poi si accorse di un fenomeno di cui non si era accorto, perso nel labirinto del suo pensiero….
Il Sole non sorgeva né tramontava…. era sparito. Quindi questo posto era, come dire. . fuori.
La seconda cosa che lo spaventò fu quello che in un primo momento prese per un suo difetto di vista. Sì perché avrebbe giurato che col trascorrere del tempo le stelle. . le stelle. . gli mancavano le parole. . insomma , gli pareva che le stelle stessero diradandosi. . Già la Croce del Sud non si vedeva, era a Occidente…e ad Oriente anche la sua compagna era scomparsa.
Ma la terza cosa che lo fece quasi piangere di gioia, fu la comparsa di un’ombra…lontana lontana…si avvicinava…quando la riconobbe …cadde in ginocchio, gli occhi bagnati dalle prime lacrime versate in quel posto.
Quell’ombra era una donna…. nuda come lui…. in quel mondo assurdo.
Non ci fu bisogno di parole…anche perché scoprirono che “prima” erano di due paesi diversi e parlavano lingue differenti. Ma “lì” si comprendevano a meraviglia. . senza parole.
Anche lei cadde in ginocchio…. era nera, la sua pelle brillava nella luce dolce assumendo strane luminescenze….
Nella notte dormirono accucciati insieme…. li illuminava la loro beatitudine.
Si svegliarono insieme…qualcosa era cambiato.
Il Labirinto…maestoso ed alieno, era sparito.
E loro stavano guardando da una piccola altura un mondo nuovo di zecca.
Un caldo sole arancione benediceva quel primitivo Eden, traendo strani e dolci riflessi dal panorama ricco di piante, ma soprattutto di una miriade di laghetti che riflettevano la luce di quell’affascinante Sole.
Nuovi Adamo ed Eva…si presero per mano e si incamminarono giù per la collina…. Conoscevano la loro missione.
E per la prima e ultima volta il Labirinto parlò: ”Vi dono tutto questo…non rovinatelo come…. ” Sapevano benissimo a chi alludeva. .
Continuarono la discesa verso la tenera vallata, chiedendosi quale fra tutti quei dolci laghetti sarebbe stato il loro Lete.
Il rumore del battello ti entrava negli orecchi gracchiando come una vecchia rana. La chiglia quasi piatta smuoveva l’acqua creano una leggera spuma in una marea di fango. Ai lati correvano imponenti masse di gladioli di un arancio accecante. Spuntavano dal fogliame un gruppetto di ragazzini , che ridendo e ciarlando smuovevano quei fiori di quel colore così intenso. Molti di loro erano più bassi dei fiori stessi, le loro faccine orientali si intonavo a quella vegetazione imponente. Fiori dei quali ero abituata a vedere recisi, nel loro habitat erano più simili ad alberi, con fusti imponenti e fogliame carnoso. Una volta raggiunta la sponda, scendemmo da quell’imbarcazione provvisoria, per incamminarci nel sito religioso, punteggiato da pagode e templi. Il selciato era di un bianco brillante, sembrava la scia di una nave. Non ci rimaneva che seguirla. Un coda composta di persone con le mani raccolte al seno e con lo sguardo basso scorreva come un grosso serpente colorato, per venire mano mano inghiottita da un edificio ricco di guglie di gesso scintillanti. Disteso in mezzo all’area un Budda enorme, accecante nella sua pelle bianca e vitrea. La veste arancio e oro lo copriva interamente, lasciando scoperti solo una spalla e i piedi. Piedi che raffiguravano il cosmo. Rimasi pietrificata nel vedere una simbologia perfetta fra microcosmo e macrocosmo. Tutto intorno grosse ciotole di terracotta, dove i devoti ponevano una moneta, recitando ad ogni passo una nenia sempre diversa, con delle punte acute, che lentamente venivano rispedite nel tintinnio della moneta che cadeva nel coccio. La testa del Budda era rilassata, collassata sull’enorme mano sinistra, anch’essa come i piedi raccoglieva una simbologia all’interno del palmo, poco visibile a causa dell’altezza. Lo sguardo rilassato sembrava controllare ad uno ad uno i devoti, i turisti e i curiosi, nella sua gigantesca immobilità. Si entrava da un lato a nord, per uscire a sud e proseguire il percorso verso uno dei templi più imponenti. Le scale irte, ad ogni scalino il fiato si accorciava e ti portava verso l’alto con uno scatto affannoso. Il cielo, si era tinto nelle ore della sera del colore delle vesti del Budda, arancio, giallo e oro, per regalarci uno di quei tramonti che rimarranno impressi nella mente e nell’anima. A fare da specchio la “bianchità” della costruzione, mentre la cornice era di un indaco impressionante. In fondo avevo percorso tutti quei Km per vedere i colori dell’Asia, in quel periodo quando la stagione estiva (la loro) volge al termine per lasciar spazio ai venti e ai rovesci improvvisi, che riducono le strade a dei rigagnoli melmosi, lavano le piante rendendole ancora più lussureggianti. La salita era faticosa. Ci reggevamo con forza alla fune laterale. Salivamo lentamente, sferzati dal vento e abbagliati da quel cielo sanguinolento. Un mantra in lontananza ci cullava nella salita e via via che ci avvicinavamo alla cima un altro rumore come delle vele slegate si sovrapponeva all’altro molto più corretto e preciso. L’ultimo scalino ci regalò un sospiro di sollievo e una veduta meravigliosa. A perdere lo sguardo un jungla ingorda che restituiva del suo paesaggio solo le punte dei templi e delle pagode. Il cielo pennellato a tinte forti e approssimative, continuavano a restituire quella luce intensa, abbagliando lo spettacolo delle vesti dei monaci, che imperturbati continuavano il loro mantra verso l’infinito. Le vesti arancio brillavano e si muovevano in un verso e poi nell’altro seguendo il vento come in un copione definito,per poi scontrarsi le une contro le altre, disordinate, ma sublimi.
L’arancio è un colore che mi piace, è allegro, vivo e dà forza, ma per la natura rappresenta il cambiamento. Quando dall’estate si passa all’autunno ecco che tutto si tinge di giallo, rosso e quindi arancione. Ho notato che alcune donne invecchiando, per coprire i capelli bianchi passano al rosso che comunque tende all’arancio. Anche io ho fatto quel percorso e le prime volte che mi vedevano con quel colore non troppo accettato qualcuno mi diceva che stavo bene , ad altri non piacevo troppo, ma ricordo che un mio amico, con scarso tatto, mi disse: Oh che ti sei fatta anche te il rosso menopausa!!!!
Nonostante l’arancio sia un bel colore acceso, non ho l’abitudine di comprarmi vestiti o accessori di questo colore ma, in salotto, ho una parete di un arancio un po’ rosato e, quando in inverno rientro a casa e mi trovo davanti questa parete illuminata dal sole mi sembra che quel pezzo di muro colorato mi scaldi il cuore.
Non avevo riposato bene quella notte e benché avessi cercato di auto convincermi che ciò che dovevo affrontare non era poi cosi grave, perlomeno al momento, mi sentivo a terra.
Niente colazione. Dopo una doccia veloce, indossati gli abiti di sempre, valigia in mano, si parte destinazione ospedale.
Aprendo la porta i raggi tiepidi di un sole di fine ottobre colpiscono i miei occhi e mi stupisco di come fuori tutto sia pervaso da una luce arancione quasi magica, dorata e brillante: mi consolo interpretandolo come buon auspicio. Pochi chilometri e sono a destinazione accompagnata da mio marito tristemente premuroso.
Attraversiamo l’atrio; rumore di voci, volti sconosciuti, camici bianchi. L’ascensore è grigio, stretto e anche lento. Si ferma al terzo piano, l’apertura scorre per farci uscire; ed ecco che mi ritrovo in una sala d’aspetto silenziosa, spaziosa, rilassante dove tutto è arancione, anche le luci soffuse irradiano lo stesso colore.
Un’infermiera ci fa accomodare dicendomi di aspettare la chiamata, la guardo: anche lei porta una divisa arancione. Mi chiedo se questo sia il colore della calma e della tranquillità. Di lì a poco, nel silenzio sento il mio nome, mi alzo e, dopo un tenero saluto con mio marito, mi incammino.
Passando vicino alla vetrata lancio un ultimo sguardo al cielo cercando la carezza dei raggi di un sole che mi appare ancora più arancione e radioso di stamattina.