Labirinto di legno

Il labirinto di legno – di Rossella Gallori


Da troppo tempo vagava in quel cassetto, era diventato un piccolo tarlo impazzito, entrava ed usciva tra lettere grondanti piombo, in un labirinto di legno scuro e consumato, si nutriva del vecchio inchiostro per comporre pensieri :
ti rimetto nel mio ventre per mesi e mesi…poi ti faccio uscire quando voglio, in un mondo sano.
Fu quasi schiacciato da una pesante A maiuscola, mentre, da linotipista esperto, cercava virgole e punti per scrivere sogni:
Ci baceremo ancora una volta ed una volta ancora, cammineremo per mano e la tua stringerà la mia.
Trovò una piccola fessura e da vermiciattolo come era, non ebbe paura del poco spazio:
Mi vestirò di velluto cremisi e gli applausi non saranno mai troppi, sul palco solo io da piccolo tarlo a grande attore.
Il cassetto Hamilton era il suo labirinto magico, nelle piccole tasche dell’ abituccio macchiato, trovò altre lettere, ed ancora piccole frasi salirono dal cuore ansimante, alla bocca:
Ti riprendo dove ti ho lasciato, ma non sarai vecchio e stanco sarai forte, bello come un tempo, passerò la mia mano tra i tuoi capelli, per avere un sorriso e non avrò più freddo.
La polvere non gli aveva tolto l’ appetito, inghiottì, una piccola scheggia di quel vecchio legno povero, continuando a vagare con il pensiero:
Non sarò più solo, non avrò paura delle lunghe notti
d’inverno, di anni bisestili amari come il fiele.
Quel dedalo buio lo faceva avanzare a tastoni, nella magica “tipografia del perdersi” agganciato alla gambetta storta di una anonima q, scrisse ancora una piccola frase:
Sono impazzito, di dolore, di solitudine, di parole cattive, di una vita non mia, di una patologia non riconosciuta, di una tristezza dentro, fatta di incubi veri e presunti, di poesie brutte scritte con amore, di racconti piccoli e striminziti pieni di errori…..

…..Il vecchio falegname entrò svogliatamente nella cantina di via de’ Macci, sbatté a terra il cassetto Hamilton del vecchio lavorante de la Nazione, deceduto da tempo, l’ inchiostro secco si sgretolò, alcune lettere si deformarono nell’ impatto, il piccolo tarlo, fu schiacciato con i suoi pensieri sul pavimento sconnesso da una pesante scarpaccia numero 43….


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Incontrarsi alla Carrozza 10

Al di là dei finestrini – di M. Laura Tripodi

Dovevano attraversare la strada e fare un po’ di cammino  a piedi. Svoltato l’angolo delle case del gas in cinque minuti scarsi arrivavano a un piazzale pieno di erbacce intorno al quale stavano costruendo case. C’era un muro non alto che correva per perdersi chissà dove,  guardando a destra.  Lo stesso muro si interrompeva bruscamente  accanto alle sbarre del passaggio a livello

E lì era assolutamente proibito avventurarsi.

Gli occhi grandi della bambina osservavano famelici, ma non individuavano bene il senso di quel muro, né potevano capire che quello costeggiava gran parte della ferrovia. 

Le sbarre, dipinte a strisce bianche e rosse erano quasi sempre abbassate, ma non avevano una barriera sottostante.  Chi doveva attraversare e aveva fretta guardava a destra e a sinistra e poi correva per raggiungere l’altra sponda di quel fiume fatto di rotaie.

A volte c’era da aspettare un bel po’. Poi, improvvisamente si sentiva un fischio lontano  e l’aspettativa diventava pressante. Chissà cosa stava arrivando.

A volte era  un serpentello rosso che non faceva in tempo ad arrivare ed  era già passato. La sua mamma le disse che si chiamava littorina. Molto più tardi seppe che quel treno rappresentava il simbolo glorioso di un passato da dimenticare.

I treni merci erano composti da tanti vagoni, ognuno diverso a seconda del suo contenuto.

La  mamma, con la mano serrata intorno alla sua  contava, tanto il treno era lento ……

uno, due, tre…….ma quanti vagoni ci sono……quattro, dieci, quindici.

Così Marta si appassionò alla matematica e fu un amore che non l’abbandonò mai.

E poi c’erano i treni passeggeri. Non veloci come la littorina e non lenti come quelli che trasportavano merce.

Gli occhi della bambina frugavano curiosi, forse già allora  in cerca di qualche storia al di là dei finestrini.

Poi la mamma decideva di tornare. Il cinema era terminato.  Di nuovo le case del gas, di nuovo attraversavano la strada. A casa,  Marta che non aveva più di tre anni, aveva la sensazione  che una parte di lei fosse salita su uno di quei treni….., ma la consapevolezza arrivò molto, molto più tardi.

A proposito di labirinti

Poesia dei doni – di Jorges Luis Borges

Si ringrazia della foto Lucia Bettoni

foto di Lucia Bettoni

Ringraziare voglio il divino
labirinto degli effetti e delle cause
per la diversità delle creature
che compongono questo singolare universo,
per la ragione, che non cesserà di sognare
un qualche disegno del labirinto,
per il viso di Elena e la perseveranza di Ulisse,
per l’amore, che ci fa vedere gli altri
come li vede la divinità,
per il saldo diamante e l’acqua sciolta,
per l’algebra, palazzo dai precisi cristalli,
per le mistiche monete di Angelus Silesius,
per Schopenhauer,
che forse decifrò l’universo,
per lo splendore del fuoco
che nessun essere umano può guardare senza uno stupore antico,
per il mogano, il cedro e il sandalo,
per il pane e il sale,
per il mistero della rosa
che prodiga colore e non lo vede,
per certe vigilie e giornate del 1955,
per i duri mandriani che nella pianura
aizzano le bestie e l’alba,
per il mattino a Montevideo,
per l’arte dell’amicizia,
per l’ultima giornata di Socrate,
per le parole che in un crepuscolo furono dette
da una croce all’altra.
per quel sogno dell’Islam che abbracciò
mille notti e una notte,
per quell’altro sogno dell’inferno,
della torre del fuoco che purifica,
e delle sfere gloriose,
per Swedenborg,
che conversava con gli angeli per le strade di Londra,
per i fiumi segreti e immemorabili
che convergono in me,
per la lingua che, secoli fa, parlai nella Northumbria,
per la spada e Tarpa dei sassoni,
per il mare, che è un deserto risplendente
e una cifra di cose che non sappiamo,
per la musica verbale dell’Inghilterra,
per la musica verbale della Germania,
per l’oro, che sfolgora nei versi,
per l’epico inverno,
per il nome di un libro che non ho letto: Gesta Dei per Francos
per Verlaine, innocente come gli uccelli,
per il prisma di cristallo e il peso d’ottone,
per le strisce della tigre,
per le alte torri di San Francisco e dell’isola di Manhattan
per il mattino nel Texas,
per quel sivigliano che stese l’Epistola Morale
e il cui nome, come egli avrebbe preferito, ignoriamo,
per Seneca e Lucano, di Cordova,
che prima dello spagnolo scrissero
tutta la letteratura spagnola,
per il geometrico e bizzarro gioco degli scacchi,
per la tartaruga di Zenone e la mappa di Royce,
per l’odore medicinale degli eucalipti,
per il linguaggio, che può simulare la sapienza,
per l’oblio, che annulla o modifica il passato,
per la consuetudine,
che ci ripete e ci conferma come uno specchio,
per il mattino, che ci procura l’illusione di un principio
per la notte, le sue tenebre e la sua astronomia,
per il coraggio e la felicità degli altri,
per la patria, sentita nei gelsomini
o in una vecchia spada,
per Whitman e Francesco d’Assisi, che scrissero già questa poesia,
per il fatto che questa poesia è inesauribile
e si confonde con la somma delle creature
e non arriverà mai all’ultimo verso
e cambia secondo gli uomini,
per Frances Haslam, che chiese perdono ai suoi figli
perché moriva così lentamente,
per i minuti che precedono il sonno,
per il sonno e la morte,
per due tesori occulti,
per gli intimi doni che non elenco,
per la musica, misteriosa forma del tempo

Per scaldarsi un po’ prima della terza scintilla

Fascino del labirinto

Foto di majomka da Pixabay

Il labirinto è un simbolo da sempre presente nel percorso dell’umanità. La sua storia è complessa, intricata e affascinante, come i disegni che li strutturano. Compaiono in civiltà ed epoche diverse come il Perù, Creta, l’Egitto, l’India, Grecia, Cina……

Foto di Geraldine Dukes da Pixabay

Intanto proviamo ad osservare i modi più semplici per costruire un labirinto:

Proviamo a giocare………e costruire il nostro labirinto…..

Trova la strada….tanto per metterti alla prova:

L’indaco perduto

L’indaco perduto – di Luca Di Volo

Foto di Mabel Amber da Pixabay

Giorni di niente,

notti di sogni vani

Clessidra spaccata

 il tempo sospeso,

smarrita è la rotta.

Avanzano i cieli

Del nostro dolore

Perduto l’indaco bello

Nottilucente blu

Senza colore

i nostri giorni

Si arrendono

 al grigio maligno.

Fratelli

uscite da dentro

Invadiamo le vie

e insieme

Leviamo un canto potente

Che il cielo raggiunga

E uno spiraglio,

un raggio

Sazi la nostra sete

Del bell’indaco segno di pace

Che ci inondi gli occhi

 E ci  riempia le  mani

 di gioiosa speranza.

Nuovo passo indietro sull’arancione

L’atlante arancione – di Roberto Zatini

L’ho guardato un po’ sorpreso e mi ha fatto piacere, perché ormai poche sono le cose che riescono a sorprendermi davvero e, invece, mi piacerebbe farlo ancora: quell’arancione, sbiadito come me, lo faceva assomigliare a una mappa antica.

Le carte geografiche e gli atlanti che le raccolgono mi sono sempre piaciuti: un retaggio delle scuole elementari, quando il maestro ci invitava a esplorare il mondo. Il nome di una città, di un mare, di un fiume da cercare sulla carta geografica del continente che si stava studiando: non c’erano confini, passaporti, aerei da prendere e da perdere. Marco Polo era il nostro profeta; il suo Milione il libro dei sogni.

Nel biglietto che l’accompagnava c’era scritto che illustrava “cinquanta isole dove non ero mai stato e mai sarei andato”: questo mi ha incuriosito ancora di più. Per tanti motivi, qualcuno di questi mi è suonato anche male. I limiti sono sempre una tentazione: quel mai mi ha dato fastidio, lo confesso.

I figli conoscono le nostre passioni, il più piccolo dei miei nota il crescere della mia inquietudine e se ne preoccupa: la clausura di primavera l’ho superata bene con le mie evasioni all’alba; quella invernale sarebbe più complicato violarla, quantomeno più rischioso. L’Atlante delle isole remote, di quel colore che, infatti, mi ha fatto subito andare all’abito polveroso di un monaco che ho incontrato in Sri Lanka e con cui sono rimasto in contatto, secondo lui e i suoi fratelli mi avrebbe aiutato.

Confesso che mi ha aiutato molto di più leggere il messaggio che mi aveva mandato appena alzato: faceva riferimento a noi due, a come ci eravamo rapportati, alle discussioni ai giochi che abbiamo fatto insieme, anche con le parole.

“Tantiauguriatté, primo dei ricordi a cui posso ancora passare un pallone, anche se non lo faccio da un sacco di palloni fa…Tantiauguriatté per ogni nome che mi hai scelto, tirandoli tutti fuori da una delle tante coloratissime scatole di biscotti dentro quella tua testa di cenere…Tantiauguriatté, oggi che è domenica come allora e che c’è quel sole per cui mi hai insegnato ad essere felice…”

Leggerlo, mi ha fatto fare un viaggio lungo una vita. L’atlante è davanti a me, il sole che entra dalla finestra ne riaccende l’arancio spento. Aiutandomi con la lente leggo i nomi delle isole: Isola del Possesso, Isola di Natale, Isola del Cocco, Floreana, Tristan de Cunha, Bouvet, e così via per i mari del mondo con la mia barchetta di carta arancione.

Cinquanta puntini seminati negli oceani, nomi magici che mi fanno andare lontano, dove non sono mai andato e dove, forse, mai andrò…

Ritorno all’arancione

ARANCIO – di Mimma Caravaggi

foto di Mimma Caravaggi

Non c’è cosa più bella e rilassante che starmene seduta in giardino per riempirmi  gli occhi di tutte le sfumature autunnali in cui il colore arancio fa da padrone. Le foglie ingialliscono e si tingono di uno  splendido colore giallo che sfuma poi  nell’arancione che in mezzo al verde del fogliame  risalta avvolgendoti calorosamente. E’ un vero piacere, quando non piove, affacciarmi in giardino e fare una passeggiata per scoprire gli ultimi frutti in maturazione dalle giuggiole che quest’anno non hanno prodotto granché ai cachi sempre abbondanti e succulenti : il nettare di Zeus. Ne ho di due specie a mela e morbidi. Mi accorgo del punto giusto di maturazione quando il mio cane si ferma sotto gli alberi in attesa che qualche caco maturo cada spontaneamente per mangiarselo . Il vento e la forte pioggia di questi ultimi tempi provvedono  al suo fabbisogno e lui divora con voracità tutto ciò che trova vista la loro dolcezza. Mi sposto lentamente più in là e trovo le melegranate che prima di arrivare a maturazione digradano dal verde all’arancio e poi al rosso formando  un arcobaleno di colori sulla superficie del bel frutto rotondeggiante .Non ho gli agrumi che completerebbero il panorama di un arancio intenso e splendente ma il clima non ne permette la maturazione ma che darebbero al giardino quel bel tocco in più illuminandolo. Continuando la passeggiata trovo le sorbe, un vecchio frutto ormai nel dimenticatoio che passa dal verde, al giallo, all’ arancio e poi quando a maturazione in marrone. Nel mio incedere oltre alla frutta  trovo anche arbusti di crategus e cotonaster con le loro piccole bacche aracioni così appetitose per gli uccellini  rimasti in zona e che serviranno loro un pasto nei lunghi mesi autunnali. Infine un albero  di liquidambar orientale che ogni autunno mi affascina per la colorazione delle sue foglie la cui trasformazione dal verde al giallo all’arancio e infine al rosso scuro mi stupisce ogni volta. Confinando con un bosco, il giardino è tutt’uno con i suoi alberi che in autunno si tingono di colori caldi tra cui  l’arancione. Puliti e lucidi sembrano illuminarsi  non appena dei raggi di  sole si affacciano dalle nuvole ancora intrise di pioggia. Madre natura è tutto questo.

foto di Rossella Gallori

Tailleur indaco

Tailleur indaco – di Carla Faggi

Indosso un tailleur color indaco, un bel blu che si imparenta con il viola.

Mi sento molto carina ed elegante, una giovane donna affascinante.

È vero, avrei potuto indossare il tubino rosso, sarei stata più sexy.

Ma, come mi dico spesso, a quarant’anni noblesse oblige, meglio puntare sull’eleganza, la raffinatezza che non sulla seduzione, troppa under concorrenza.

Chanel nere tacco sei, meglio non esagerare.

Un’ultima occhiata ai miei capelli scuri taglio Valentina Di Crepax e via…mi incammino.

Incontro lui, capello scaruffato, barba alla “stamattina è meglio non farla”, pullover marrone chiaro quasi beige, di quel colore che non dona a nessuno, un paio di jeans bracaloni.

Mi guarda, lo guardo.

Aveva gli occhi buoni, aveva gli occhi belli e veniva, veniva dal mare.

Non parlava un’altra lingua però sapeva amare.

Allungo la mano, lui la prende e iniziamo a camminare.

Non ho più un tailleur color indaco ma una tuta rossa, larga, di quelle che ci si sta bene, scarpe basse, capelli corti bianchi.

Ripenso al mio tailleur color indaco, così elegante e sorrido.

Stringo la sua mano, così calda e continuiamo a camminare.

Indaco al vento

Il turchinetto – di Tina Conti

Foto di alkemade da Pixabay

La scorta dei colori è finita:

Blu di Prussia, cobalto, oltremare

Niente  indaco

Sono questi  i colori che vi servono!

Costruite tutte le altre tonalità.

Ordina il maestro

Sarà, a me  fa fatica, provare e riprovare

A volte  viene giusto, altre non assomiglia a niente.

Questa volta mi compro l’indaco

Voglio proprio vedere che sfumatura ha

E il turchino?

Sì quello che le lavandaie, dentro un sacchettino di stoffa  aggiungevano al risciacquo dei panni prima di stenderli al sole e che chiamavano turchinetto.

Si, mi prendo anche il turchino.

Se lo trovo, se esiste, se riescono a convincermi  che adesso esiste ma  che ha cambiato nome…

Come  mi incantavano i panni, stesi al sole, in lunghe file sul prato che sventolavano con quei  lampi azzurrini, celesti, proprio turchini. Sì li prendo tutti, prussia, cobalto, oltremare, turchino, indaco, proprio indaco, così sono sicura di azzeccare la tonalità.

Indaco spaziale

Un anno tutto dipinto di indaco – di Nadia Peruzzi

Foto di Free-Photos da Pixabay

Che anno il 1961 a ripensarci oggi.  Un anno senza uguali .  A febbraio,  i nostri occhi fanciulli avevano dovuto vestirsi di vetri affumicati per seguire quella che oggi sappiamo essere l’ultima eclisse del ventesimo secolo. Eravamo stati lì a guardare il cielo con un misto di eccitazione e esaltazione e paura, mentre vedevamo pian piano svanire la luce, il cono d’ombra della Luna invadere il grande cerchio del Sole fino a spegnerne gli effetti sulla Terra.  Attorno , per un lungo attimo sentimmo il freddo, vedemmo il grigio e l’annullamento dei colori mentre gli animali, noi con loro,  erano ammutoliti !
Non ci eravamo ancora ripresi del tutto e arrivò quella mattina del 12 aprile che cambiò il mondo per sempre. Un ciclo era arrivato a termine si apriva un’epoca nuova.  Un passo importante nella storia dell’umanità e quindi anche nostro che ci aprivamo al mondo del futuro e lo guardavamo con gli occhi dei nostri 9 anni.
Alle ore 9, 07 , ora di Mosca , una navicella spaziale dal nome esotico Vostok (Oriente) si era levata in volo puntando allo spazio siderale. Superata l’atmosfera,  aveva poi orientato la sua rotta in un’orbita attorno alla terra che era durata 1 ora e 48 minuti. Per allora,  una eternità.  E non era tutto . C’era un uomo a bordo . Yuri Gagarin figlio di contadini che in un attimo era diventato pure un figlio delle stelle. Anzi lui stesso era diventato una stella.
Non c’era la tv a seguire gli eventi . Era la radio a portare in tutte le case le notizie. Le raccontava e noi ci mettevamo il di più della immaginazione che traduceva le parole in istantanee di una pellicola da film. Ognuno poteva girare il suo a piacimento.
Occorreva aspettare il giorno dopo i giornali con le loro foto e i loro articoli per leggere e veder documentati in foto gli eventi.
Allora potemmo anche vederlo quel ragazzo sovietico dagli occhi ridenti e dal sorriso radioso e tanto accattivante da farcelo sentire come uno di famiglia, uno di noi.
Uno di noi,  che aveva conquistato lo spazio! Che cosa enorme. Inimmaginabile fino al giorno prima.
Le foto sui giornali della curva della Terra contro il nero del cosmo, erano corredate con le prime parole di Gagarin :” Il cielo è molto nero, la Terra azzurra. Tutto può essere visto chiaramente”.
Ricordo che a scuola andammo elettrizzati per quell’impresa.
Anche nei giochi facevamo correre l’immaginazione che ci portava diritti su quella scaletta per entrare in quel pertugio, per poter fare come Yuri il nostro giro del mondo.  Non sapevamo nulla di geografia astronomica. Entrò nelle nostre vite e nella nostra dimensione allora, insieme a lui.
Sentivamo parlare per la prima volta di assenza di gravità e ci ritrovavamo a pensare di poter galleggiare anche noi, distesi su immensi aquiloni spaziali,  sopra quella sfera immensa di colore indaco. Stava lì da quando nella notte del tempo astronomico, per uno scontro di energie tutto aveva avuto origine. Per la sua posizione nello spazio siderale e rispetto al sole aveva potuto avere l’evoluzione che nessun pianeta del nostro sistema solare aveva avuto , tanto da permettere la vita di esseri viventi e di una natura rigogliosa e varia.
Stava lì , appesa senza fili nello spazio siderale e ora lo sguardo di un essere umano, uno di noi, un fratello, un amico, aveva avuto il privilegio di accarezzarla come si deve fare quando si ha a che fare con la bellezza assoluta.
Nel mondo di allora , uscito da non molto tempo da una guerra devastante e mondiale causata dalla lucida perversione dell’ideologia nazista di dominio sul mondo le parole di Yuri aprivano una speranza per un futuro diverso. ”Da quassù la Terra è bellissima, senza frontiere né confini”.
Ci sembrava impossibile non vedere le linee di separazione fra stati. Le cercavamo in una gara inconsapevole e fanciulla che partiva dal riconoscere piccola piccola piccola la sagoma dello stivale nel quale sapevamo di abitare.
Nella sfera azzurra, dall’alto dei nostri aquiloni spaziali con i quali continuavamo a muoverci appena possibile giocando di fantasia, nessuna linea visibile di quelle che a scuola cominciavamo a studiare sulle carte geografiche.
Nessun limite a perdita d’occhio.  Non eravamo in grado allora di fare il salto di pensiero che ci avrebbe precipitato in una visione a tutto tondo,  venata di filosofia. Eppure a vedersela lì in quelle foto quella immensa palla blu una stilla di pensiero lo faceva venire,  per forza di cose. Se non c’erano linee di confine visibili, anche i popoli potevano intendersi come parte di una intera e multicolore famiglia umana con un identico destino nel bene e nel male, anche se con storie , usi e costumi diversi fra loro.
Pochi anni dopo Yuri Gagarin , anche Valentina Tereskova potè posare il suo sguardo da prima donna su quella meraviglia.  E dopo qualche anno ancora il primo uomo riuscì a metter piede sulla superficie della Luna. La conquista dello spazio non si accontentava più di ruotare attorno al Pianeta Blu, mirava ad andare oltre.  Eravamo già più grandi allora . La Tv ci fece vivere in diretta tutte le fasi dell’allunaggio. Fu magnifico ed esaltante, anche se purtroppo per l’immaginazione che ci aveva fatti salire sui nostri aquiloni spaziali in quel 12 aprile del 1961,  la porta si era chiusa per sempre.  

La gonna indaco

La gonna indaco – di Rossella Gallori

La gonna di duchesse bluette


Indossò un body miracoloso all’alba, in una giornata calda da scoppiare, se lo tolse un’ora dopo, sostituendolo con della biancheria, più comoda anche se meno contenitiva, a voce alta ringraziò quella decisione, in fondo era sua figlia che si sposava, mica lei…cercò di stare calma, doveva e voleva che fosse un giorno normale, perché tutto era normale, era stata anche lei negli anni 70 una sposa colorata, ricordava quel vestito fucsia e verde con poca nostalgia, gli anni sbiadiscono i colori, ma la gonna di quel suo pezzetto di cuore brillava, la duchesse bluette era stata un scelta veloce e consapevole….una delle poche cose che avevano fatto insieme, oltre ad amarsi alla follia naturalmente…
La sarta aveva cucito punto, per punto con tenerezza, come solo un’ amica sa fare..
Era quasi l’ora… guardò la sua mise incredula, tutte quelle sfumature di cielo erano cadute addosso anche a lei, in un intreccio di turchese, indaco e verde…
Controllò il suo compagno di vita, era stato bravo, tanto, forse anche troppo, quando ti hanno insegnato che le cose possono essere in un modo solo, si fa fatica ad accettare cose diverse, molta.
Per lei era stato meno complicato, lei amava l’ amore, non conosceva la parola “diverso” era stata cresciuta da una folle maestra…
Ed ora, era lì in un 15 luglio bello da morire, con piazza Signoria che regalava aliti leggeri di vento, un palazzo Vecchio che sembrava casa, con un Davide nudo fuori e dentro che sorrideva alle spose. La gonna indaco ondeggiava, la gerbera rossa spiccava, sul top di seta avorio…
E quell’ARCOBALENO di gente non la spaventò, sua figlia era felice e voleva gridarlo, non lo fece, che figura avrebbe fatto con la nuora…
Vide gli amici di sempre, i famigliari, i volti sereni, gli occhi sinceri, riuscì perfino a vedere sua madre, un’ombra dietro una colonna anche lei vestita da sposa , indossava uno stupendo tailleur pervinca anni 30, percepì anche lo sguardo di sua nonna vestita quasi dello stesso colore, fu solo immaginazione ma le dette coraggio.
La sala Rossa era gremita, in silenzio il cielo ascoltava l’unione di due persone che si amavano, un azzurro così forte da abbagliare si affacciava dalle finestre spalancate…
Due pompieri sposi di fresco, si abbracciavano, davanti ad autopompa rosso fuoco….fu la prima cosa che vide dopo la cerimonia….
Qualcosa di fresco ecco ora ci voleva qualcosa di fresco, i più giovani fuggirono con le spose, lei ringraziò qualcuno lassù e si avviò con pochi intimi verso piazza Santissima Annunziata…il David di Michelangelo la salutò strizzandole l’ occhio….infondo era stata una giornata …normale…

Occhi indaco

Indaco e marmellata – di Gigliola Franceschini

“Indaco e marmellata di fichi” Indaco, il colore degli occhi di Manuela, quasi quattro anni, un blu intenso quando restava silenziosa e quasi ostile, tendente a pennellate violette quando il sorriso si affacciava sul suo viso gia’ troppo grande per la sua eta’. La conobbi in un istituto di bambini tolti alle famiglie e in attesa di adozione, bambini soli che avevano visto e provato gia’ in pochi anni, quello che non avrebbero dovuto mai sperimentare. Andavo con il gruppo universitario del mio paese a giocare con questi piccoli , un sabato al mese. Non potevamo portare giocattoli ma li costruivamo con loro sfruttando tutto quello che trovavamo, scatole, pezzi di stoffa e tanta fantasia. Manuela aveva quello sguardo straordinario, ci volle un po’ di tempo perche’ si addolcisse e prendesse fiducia. Si attacco’ a me e io a lei, venivo da una grossa perdita familiare e questa bambina mi aiuto’ ad amare di nuovo e ad aprire il mio cuore che si era svuotato anche di lacrime. Mi aspettava con le manine chiuse a pugno nelle tasche del grembiule, seduta sullo scalino della casa madre e mi correva incontro fino al cancello. Una volta apri’ la mano e mi regalo’ una caramella un po’ stropicciata, il suo sguardo era una fonte di arcobaleni confusi, era bellissima. Le ore volavano, facevamo merenda tutti insieme, sempre con pane e marmellata di fichi. Le suore ne facevano in grande quantita’. Un giorno la Superiora mi chiamo’ e mi disse che Manuela sarebbe stata adottata a breve e che bisognava cominciare a parlarle della sua nuova vita per prepararla al mondo che l’aspettava. Contava anche su di me dal momento che la bambina mi ascoltava ed aveva incominciato a parlare con piu’ scioltezza. In quei tempi lontani non c’era il supporto di psicologi o altro, bisognava fare tutto seguendo il nostro buonsenso e cercando di non fare danni. Quando la piccola parti’ sembrava serena, i suoi occhi non avevano quel blu profondo e impenetrabile che ben conoscevo. Non l’ho vista mai piu’, come non ho piu’ gustato quella buona marmellata di fichi che le operose suorine producevano alla fine di ogni estate. Mi avevano dato la ricetta ma devono aver nascosto qualche ingrediente perche’ non mi e’ mai venuta come quella. Debolezze umane! Ricordi lontani di colori e sapori, profumi di buona campagna, sfumature di cieli perduti nel blu, indaco e marmellata di fichi.

Sogno indaco

Il pavone in sogno – di Nadia Peruzzi

Foto di Goran Krejačić da Pixabay

Ci vogliono i sogni per far riaffiorare quello che vorresti tenere nei cassetti se non di fondo,  almeno di mezzo. Lì dove proprio male non fanno più, ma un pizzico di fastidio riescono a darlo ancora, come un piccolo tarlo che lavora instancabile nel legno logorandolo anche se sembra che non sia così.

Laura stava galleggiando in uno dei suoi sogni. Di quelli che arrivano sul far della mattina e restano in superficie e come un battito d’ali di libellula te li ritrovi a sfruzzicare l’anima appena apri gli occhi e riconquisti la dimensione del reale.

Si rivide nitidamente su quella scala. Stava scendendo,  dopo la fine di uno spettacolo a teatro che non le era nemmeno piaciuto tanto. Stava per guadagnare l’uscita.  Sentì una voce. La sua voce calda,  che la raggiunse ancor prima di vederlo. Si fermò. Non sapeva se andare avanti o tornare indietro per trovare un’altra uscita.

Titubante decise di scendere ancora e a questo punto lo vide. Le girava le spalle.  Era seduto su un divanetto stinto, con accanto una squinzietta anonima e palliduccia,  di quelle tutte smorfie e poca sostanza.

Ridevano mentre si baloccavano piluccando pop corn,  come degli adolescenti alla prima uscita in due.

La voglia di fuggire stava mettendo le ali ai piedi di Laura, ma non le cedette e disse un bel no dentro di sé.  Condito bene bene da una colorita espressione che spesso prendeva in prestito dal dialetto siculo.

La scandì più volte per farsi coraggio.  Con quella e il vestito color indaco che indossava trovò tutto il coraggio che pensava fino a poco prima di non avere a disposizione.

Sapeva di essere bella in quell’abito.  

Lo vide attraverso gli occhi di lui che appena se la vide di fronte presero quel che di bovino stralunato che alcuni uomini lasciano trasparire quando si trovano in fallo.

La squinzia, come se niente fosse, invece continuava a piluccare il suo pop corn come se non sapesse fare altro.

Laura nel salutare sfoggiò uno dei suoi migliori sorrisi,  calmi, soddisfatti, appagati e sereni. Era lui in estrema difficoltà. Si vedeva bene.

Non si aspettava di vedersela comparire, tanto più avvolta in quell’abito elegante che la fasciava accarezzando tutte le sue forme in quella nuvola blu viola.

Lui non trovò il coraggio di presentarla si limitò ad un saluto imbarazzato. Del resto altro non poteva essere.

La storia con Laura per lui non aveva significato granché. L’aveva presa con leggerezza. Sfuggevole, anguillesco e in fondo troppo infantile e bambino per immaginare da lui un impegno che non era nella sua natura. Un bambino di 50 anni malato di narcisismo è un pavone che la sua ruota la dedica a sé stesso,  pretendendo dagli altri di far corte ma non di essere protagonisti alla pari.

La storia con lui era finita nell’unico modo possibile.  Male.

Eppure Laura per molto tempo non era riuscita a farsene una ragione. Aveva pianto ed era stata male. Quanto aveva sofferto non era riuscita a confidarlo a nessuna delle sue amiche,  tanto meno a sé stessa fino in fondo. Ci voleva quel sogno per rimettere le cose al loro giusto posto.

Lui  ricondotto alla meschineria infantile che usava per fuggire, lei finalmente consapevole della colossale cantonata che aveva preso.

Mentre si svegliava  del tutto a Laura sembrò di sentire ancora il fruscio del vestito che le accarezzava le gambe mentre varcava la soglia,  facendosi inghiottire dal via vai affaccendato che c’era nella strada. Appena fuori,  aveva guardato in alto  alla ricerca delle prime stelle. Punteggiavano la volta di un cielo infuocato,  ad oriente,  mentre sul resto era l’indaco a farla da padrone. Quella visione tranquillizzante riusciva a stemperare anche l’ultima stilla di disappunto mentre allungava il passo.

Si alzò da letto rilassata e avvolta da una sensazione benefica che l’accompagnò per tutto il giorno.  

Si era liberata finalmente di un fantasma.

Trame di indaco

Le stoffe color indaco – di Mirella Calvelli

Foto di wolfgang Lützgendorf da Pixabay

L’indaco che colore è? E’ blu  un blu intenso che si avvale dell’appoggio del viola.

Ama intervallarsi in cielo con sprazzi di luce rosa o violetta, rendendo i cieli autunnali di un colore speciale e rendendosi lui stesso speciale irripetibile, mai uguale.

In natura fiori di questo colore arricchiscono il giardino , spezzano i manti verdi come  le piccole margherite di cielo stellato. Rigoglioso nel plumbago o imponente nella datura stramonio, con nomi fantastici dalle trombe degli angeli a quello delle streghe, pianta meravigliosa ma velenosissima.

Proprio per le sue capacità di collocarsi riesce a rendere anche un semplice pezzo di stoffa, un’icona, come i turbanti degli uomini blù del deserto (tuareg), che una volta indossato, circoscrivono  occhi corvini e  profondi.

Svolazza imperterrito sui tetti di Marracheck, una volta tinto e steso ad asciugare. Di tanti colori sulla pelle dei suoi tintori prevale al rosso al giallo e a tutti gli altri.

Un urto violento può trasformarsi sulla pelle in un’ematoma , appunto di questo colore e per gridare alla tua guarigione pennella di giallo i contorni.

Evidenzia  gli occhi di giovani orientali, si unisce in un abbraccio su maioliche e mosaici.

Pennella le volte di cappelle medievali e rinascimentali.. Ha il lustro di essere in pittura antica costosissimo, realizzato con lapislazzuli che arrivavano direttamente da oriente.

Tinge le vesti delle varie Madonne in corso dei secoli. Rende sublime la Vergine del Parto, scoprendo sulla prominente pancia un lembo rosa pallido, ma Lei è ammantata da questo colore sovrano.

Famose moschee prendono il nome da questo colore. Donne d’oriente lo indossano nei giorni di festa.

Colore regale, e colore contadino.

La nonna Laudomia, aveva un grembiule di questo colore, di un tessuto non pregiato ma forte..il fustagno. Teneva su la pettorina  con due grosse spille da balia.

Le tasche erano un vero mistero, profonde, piene di utilità. Era la borsa di Mary Poppins, dove al bisogno usciva un fazzoletto grande per soffiarci il moccio. Conteneva forbici, credo spago, un ago con filo e molto altro. E un mazzo infinito di chiavi, fermate anch’esse su un lato. Se non fosse per le sue umili origini farebbe pensare ad una nobildonna che detiene il potere della casa  attraverso il suo mazzo di chiavi appuntato all’abito.

Non lo toglieva mai quel grembiule la nonna Lolla e con il tempo il suo indaco era sempre  un po’ scolorito.

Serviva da borsa durante le passeggiate nei boschi o nei campi, per raccogliere  pere, fichi, uva , noci e more, tutto quanto si poteva portare a casa. Lo fermava alla vita ai due lati e creava così quel marsupio così capiente e ricco di necessità.

Non posso non ricordare lei e dimenticare quell’accessorio così importante. Sopratutto da piccola, quando ancora non arrivavo alla vita  e negli occhi ho stampato quel blu e quelle mani dure e nodose.

Quando se ne è andata alla veneranda età di 98 anni, aveva espresso il desiderio di indossare una camicia da notte rosa che le avevano cucito le sapienti mani di mia madre.

Ma alla sua destra ho pensato di piegarle il suo amato grembiule, chissà una volta arrivata a destinazione potrebbe aver avuto bisogno di quel suo accessorio che l’ha accompagnata per tutta la vita.

Forse è anche per questo che l’indaco è il mio colore preferito.