Dai cieli color indaco

Ritorno dal pianeta arancione – di Luca Di Volo

Foto di LoganArt da Pixabay

Sembrava che quel posto fosse incastonato nel tempo. Un solo attimo fermo, eterno, un’istantanea foto congelata.

Eppure gli eventi si succedevano, ma sembravano, in qualche modo “fuori”. Non c’era altro modo di definirli.

Lui e la sua compagna avevano avuto figli e figlie, tanti…e a loro volta anch’essi avevano generato una prole che generazione dopo generazione aveva finito per popolare quello straordinario pianeta.

Quindi, in qualche modo il tempo passava, se lo si pensava come una lunga catena di avvenimenti. Ma forse non era così, forse la definizione non era quella giusta. Prima di tutto perché loro due non invecchiavano…e i loro figli sì. E morivano anche. In un modo calmo. . senza sofferenze, a volte sorridendo…ma morivano.

Un’altra incongruenza: i loro discendenti sembravano immuni dall’istinto aggressivo che aveva connotato tutta la stirpe degli uomini. Non si facevano guerre su quel mondo stupefacente.

Ma c’era altro.

Era sorta una specie di civiltà…. perchè “era” una civiltà. Però non tecnologica…. difficile da capire,  per loro due. Ne avevano parlato: come definirla. . biologica. . mentale? Avevano anche una lingua, ma potevano non usarla. Con loro preferivano comunicare nel modo non verbale, un modo chiarissimo, per la verità.

Il simbolo mentale per i progenitori era qualcosa che si poteva tradurre con “MadrePadre”. . sia pur con una certa approssimazione che non rendeva bene il concetto.

Altra curiosità: erano nudi. . su quel mondo del resto non faceva mai né caldo né freddo. . un’eterna primavera. E questo a lui, da bravo scienziato, confermava l’idea di essere in una specie di “bolla”. . atemporale…. .

Comunque, quando fu il momento, cominciarono le domande. Su tutto…e su tutto le risposte erano vaghe, incerte. . sembrava che fino ad allora non si fossero accorti di quanto poco sapevano. E quando lui, come astrofisico tentò di spiegare la relatività, che era l’arma più raffinata disponibile per indagare l’universo, vide che il gruppo che li interrogava cominciava a tentennare il capo, a fare qualche gesto di disappunto.

Ci rimase male: ”Cosa c’è…vi sembra sbagliata. . ?!”

Rispose una delle loro discendenti, una negretta dagli occhi azzurri e i capelli biondi…. forse un portavoce. .

“No, MadrePadre. . sbagliata no…limitata, forse,ma non comprende tutti i casi. Se fosse tanto definitiva, significherebbe che le stelle sarebbero per sempre al di fuori della conoscenza. . non ci arrivereste mai…. Ma per fortuna non è così. . ”

Il vecchio scienziato che era in lui espose come un vulcano…”E allora com’è…?!

La loro propronipote aprì la bocca per spiegare….

Ma in quell’attimo successe.

Come la prima volta. Un attimo prima era illuminato da quel gioioso sole arancione . . e un attimo dopo si trovava con gli occhi feriti dalla violenta luce artificiale dell’osservatorio del Cerro Paranal, a 5. 000 metri sulle Ande. Non c’era stata neppure l’ombra di una qualsiasi sensazione di cambiamento.

Si riscosse al suono del telefono. Era il direttore dell’osservatorio. ”Ciao…solo per curiosità…come mai hai orientato i telescopi sulla Sigma Octantis…la Polare del Sud?! Ci hai visto qualcosa. . se è così dimmelo, vai…”

Non aveva risposte…farfugliò qualcosa che però sembrò soddisfare l’interlocutore. . per fortuna.

E allora guardò sul display…. Così quella era la stella Sigma Octantis. . la Polare del Sud…Un astro insignificante. . di quinta grandezza a malapena visibile ad occhio nudo, anche con quei cieli gloriosi.

Però era uno dei due terminali dell’asse di rotazione del pianeta. . l’altro era dall’altra parte del mondo. . la stella Polare sotto cui era cresciuto prima di avventurarsi sotto quei cieli stranieri.

L’osservò con attenzione…colore arancione, lievemente più fredda del Sole, classe spettrale F invece che G…ma praticamente una gemella. . a trecento anni luce di distanza.

Forse era una coincidenza…ma quel colore, quei colori fantastici…. Perché lo turbavano tanto…?! Ricordò:  Dio mio, lui c’era stato. . il pianeta arancione…la sua compagna…i suoi figli. .

E fu in quel momento che l’immagine della stella svanì per essere sostituita da una scena familiare. . anzi “troppo” familiare.

Erano gli stessi che poco prima gli si erano raccolti davanti, su quel mondo arancione.

Parlò la sua discendente, l’affascinante negretta: ”MadrePadre   …vi onoriamo. Abbiamo un messaggio per voi…”

La voce gli uscì strozzata “Da trecento anni luce. . ?!”

“Sì. . ma non importa. Ti dico che tra otto giorni saremo sul vostro pianeta. . potevamo anche  far prima, ma abbiamo voluto che foste preparati. . ”

Otto giorni. . trecento anni luce…”Ma parlate sul serio?!”

Gli rispose il silenzio . . ma era assordante. Eccome se parlavano sul serio…

“Ma perché lo dite a noi…e poi la mia compagna non è più qui…”

“Non è vero. . guardati attorno. ”

Si voltò: lei era lì accanto a lui. Allora era tutto vero…

Per un momento fu sopraffatto dalla gioia. . ma . . niente era gratis. . anche nel migliore dei mondi. .

“E noi cosa dobbiamo fare. . ?!”

La risposta fu quasi crudele: ”Niente. . solo preparare il vostro mondo. . i vostri governanti. . i vostri capi. . avvertiteli che tra otto giorni arriviamo. Diremo solo a voi dove. . al momento giusto”

Ingenui da morire i loro discendenti

“Non pensateci nemmeno. Non avete idea in cosa andremmo a scontrarci…. ”

“Chi ti dice che non lo sappiamo?! Ma sappiamo anche che ce la farete. . non chiedeteci “come”. . ma lo sappiamo. Ora vi onoriamo MadrePadre e vi mostreremo il nostro amore tra otto giorni. . ricordate: tra otto giorni…”

Otto giorni per distruggere il mondo…sorrise amaramente. . uno in più di quanto ci fosse voluto per crearlo…. ma l’ottavo giorno era anche il simbolo dell’eternità…

Abbandonarono l’osservatorio. A bordo di una Jeep in dotazione scesero dai picchi Andini.

Il profondo indaco dei cieli del Sud sembrò parlare. . confortandoli. No, non ci sarebbe stata nessuna battaglia di Armageddon.

Loro e i loro discendenti l’avrebbero evitata.

E così sia, dissero i cieli del color dell’indaco.

I fili per tornare

I colori del ritorno – di Gigliola Franceschini

Foto di Giovanni Edoardo Nogaro da Pixabay

Si aggirava per la casa in cerca di una decisione che tardava a venire. Le sarebbe servito un filo magico che la conducesse fuori da quel labirinto in cui si perdeva e si ritrovava, tra le sue cose che non sentiva piu’ sue. Quando credeva di aver trovato finalmente la strada, si imbatteva in un oggetto, in un ricordo, in una gioia vissuta e perduta e rimaneva prigioniera di quel mondo che fino a poco tempo prima aveva amato, come aveva amato Lorenzo che se ne era andato. Dieci anni insieme non erano bastati a calmare l’ansia di vita e di nuovo che lo dominava. Lei aveva sperato che dopo aver superato la quarantina, si sarebbe fermato ma non era stato cosi, Lorenzo aveva saputo rompere i lacci che lo tenevano unito a lei ed era partito in cerca di nuove avventure. Le aveva lasciato l’uso della casa ed altro, generoso come sempre nel dare come nel distruggere. Anna si affaccio’ e lo sguardo si perse nei colori del giardino, ciuffi violenti e dolci, un intreccio di azzurro, il rosso, il verde dei cespugli e il violetto dei rampicanti. Aveva molto amato quelle cose sue che ora non sentiva piu’ sue, quasi fredde e distanti.. Devo andare via, penso’, devo farlo. Le torno’ in mente la sua vecchia casa di paese, abbandonata da tempo ed ebbe nostalgia della sua stanza a tetto, poco piu’ di un abbaino che lei aveva ribattezzato mansarda.. Le sembro’ di sentire l’odore acre dell’acquaragia vicino ai pennelli intrisi di colore. La sua tavolozza arcobaleno e davanti alla finestra , il suo cavalletto tenuto di tre quarti per catturare sulla tela la luce migliore. Aveva abbandonato tutto questo per Lorenzo che non amava la pittura e l’aveva coinvolta nei suoi sport preferiti e lei era stata felice di assecondarlo. Ora si faceva sentire forte la voglia di affacciarsi su un altro giardino, incolto da sempre ma forse piu’ spontaneo di quello che aveva davanti. Avrebbe riportato sulla tela il colore dei gelsomini notturni che si aprivano appena scendeva la sera, il viola dell’iris che era nato per caso e che si era moltiplicato in un allegro disordine. E poi, l’azzurro spento delle ortensie….. quei colori ora le erano indispensabili per riprendere il suo cammino. Tornare, questo era il filo magico che l’avrebbe liberata da quella prigione dorata. Penso’ ai piccoli ragni che dalla sera alla mattina riuscivano a tessere fini tele, ne avrebbe trovati in grande quantita’ ma non le avrebbero fatto male, fili impalpabili e fragili. I ricordi in questa casa, quelli si’ che facevano male! Parti’ la mattina seguente portando un unico bagaglio, la sua ritrovata voglia di vivere!!

Tenda sull’indaco

La tenda sull’indaco – di Cecilia Trinci

Foto di StockSnap da Pixabay

Dal giardino non guardava quasi mai in su, verso la finestra. Sentiva vibrare atomi trasparenti che muovevano la tenda anche senza vento. Soprattutto senza vento. Era il fremito di chi tornava senza esser chiamato e si faceva, a volte, concreto, in un velo inconsistente, percepibile se nessuno guardava. Un sospiro appeso nel telaio della finestra.

Non era una sola persona, piuttosto un’essenza essiccata, un abbraccio collettivo di assenze. E non necessariamente defunte, ma anche solo passate di lì, in epoche diverse.

La tenda  si gonfiava di respiri fragili, nel tramonto indaco e lei volutamente non la guardava. La sentiva ondeggiare, col suo carico di trina.

Guardava piuttosto davanti a sé, fissando il cespuglio di lavanda azzurra e, al di là della siepe, appena più su, il tetto della chiesina sbarrata, col campanile secco e le tegole smosse, dove un Gesù triste lacrimava da solo le  proprie ferite di legno.

Era a quel punto che arrivavano le voci. Piccoli scoppi di risate indistinte, sussurri di parole spezzate. E cercava di afferrarne il senso, fissando lo sguardo sul cielo accaldato. Ma non riusciva a capire, né a distinguere visi conosciuti e neppure fermare quel frusciare di essenze che respirava lì e contemporaneamente altrove.

Chiudeva gli occhi mentre la finestra si animava e il “giardino delle assenze” si accendeva di indaco, illuminandosi.

Labirinti per camminare

Come Forrest Gump – di M.Laura Tripodi

Foto di PublicDomainArchive da Pixabay

Ci sono giorni in cui camminare è l’unico modo che ho di  sopravvivere. Sorrido pensando ai chilometri percorsi da Forrest Gump. Solo che lui correva. Paradossalmente mi sento un po’ così. Mi sveglio certe mattine e penso che starò tutto il giorno a scrivere. Accendo il computer e la schermata bianca sembra chiedermi di sbrigarmi. Ma i pensieri sono velocissimi e non si fanno acchiappare.  Non è cosa. Richiudo tutto.

Allora faccio qualche telefonata di buongiorno. E poi? Le mie scarpette da ginnastica occhieggiano. No, Oggi riprendo in mano i pennelli.  Preparo tela  e colori, ma sono sconclusionata. Abbandono tutto.

Ogni tanto mi avvicino alla famosa finestra dei miei pensieri. Vera e metaforica. C’è un fico là fuori, presente da sempre. E poi ci sono altri alberelli che per un certo periodo sono apparsi soli e inconcludenti. Adesso però  si sono ripopolati di passerotti e mi incanto a guardare la loro laboriosità, l’instancabile moto che li fa volare da un ramo a un altro o posarsi sul terrazzino adiacente in cerca di briciole che non sempre mi ricordo di lasciare.

Forse pioverà, forse no. Infilo le scarpe e me ne infischio. Prendo la giacchettina leggera con il cappuccio. Lascio a casa il telefono, questa volta volutamente.

Quando mi prende così sono capace di camminare per ore senza una meta precisa. Mi accompagnano i pensieri, ma ogni tanto, soprattutto in questa stagione, mi fermo come invasata di fronte alla magnificenza di una natura fatta di colori e di profumi che a breve spariranno.

Allora ci sarà posto solo per le nebbie e molti alberi rimarranno sentinelle scheletriche  a osservare i propri abiti caduti a terra. Cambieranno anche gli odori, confusi nell’umidità dell’inverno e i suoni saranno ovattati , come catturati da un grigio calderone.

E poi tornerà la primavera.

A volte mi perdo.

E’ accaduto anche nel labirinto della mia vita. Ho sbagliato strada tante volte e tante volte mi sono ritrovata al punto di partenza. Ma non era proprio così.

In cammino si  imparano tante cose e quando si ricomincia daccapo si fa sempre con un cuore diverso.

Chissà se per strada incontrerò Forrest Gump…..

Sfumature di grigio

La camicia di seta – di M.Laura Tripodi

Foto di Anant Sharma da Pixabay

La osservava penzolare inconcludente e triste da quella gruccia di ferro. Un leggero alito di vento confondeva le righe bianche e nere rendendole sinuose e ammiccanti.

La camicia di chiffon di seta,  lacera,  conservava tutta la sua dignità.

Si era ferita a morte in una notte di tempesta. Dal terrazzino era volata via impigliandosi nella rete del condominio e lì era rimasta per tutta la notte a subire  i maltrattamenti della pioggia e del vento.

Era stata recuperata il mattino dopo, ormai inservibile, ma sempre bellissima .

Anzi gli strappi la rendevano misteriosa e affascinante. Le righe che si interrompevano là dove si era lacerata formavano con il movimento della brezza disegni sempre diversi.

Bianco e nero. Giorno e notte.

 E socchiudendo gli occhi , complice il gioco del vento,  tutte le sfumature del grigio.

Come se schegge di notte fossero entrate nel giorno e frammenti di giorno si fossero intrufolati nel buio della notte.

Aprì l’armadio e con una carezza la ripose con cura. 

Labirinto indaco

Labirinto indaco – di Gabriella Crisafulli

Foto di Pexels da Pixabay

Era davvero sorprendente: ad ogni passo incontrava quinte che si dividevano e moltiplicavano all’infinito.

Si diramavano in direzioni diverse e, a seconda delle angolazioni, riflettevano la sua figura talvolta intera, oppure dimezzata, dilatata, frantumata.

Si muoveva con cautela mentre i muri intorno si gonfiavano o alzavano impercettibilmente come cortine esposte al vento.

Era entrata lì dentro non sapeva quando, come, perché e da dove: le era chiaro che ne voleva uscire. Desiderava solo andare via da lì.

Ma gli spigoli che all’improvviso le si paravano davanti e contro ai quali andava a sbattere, rendevano il cammino a dir poco faticoso, mentre si perdeva passo dopo passo.

Allora si resettava, ricominciava da capo, si creava una procedura razionale e un ordine di sviluppo progressivo ma una volta si smarriva, un’altra si scopriva senza forze, una terza aveva la nausea e vomitava. Percepiva dentro di lei quella tenacia testarda e ossessiva come un nucleo centrale che le diceva “Basta, andiamo via!” ma non riusciva a trasformare il suo sentire in azioni.

Così, tra un ricovero ed un altro, ripartiva verso il suo scopo a tentoni.

Osservava desolata l’incredibile sequenza di insuccessi accumulati nel tempo e le veniva da piangere oppure si commiserava ma soprattutto si rassegnava.

Talvolta però si metteva a ridere sgnignazzando mentre gli specchi intorno a lei riflettevano l’immagine grottesca di una vecchia canuta, spezzettata in più parti, che le ghignavano contro riflettendosi fra loro.

Chi sa perché la sorte le aveva assegnato un destino così complicato e contorto: talvolta pensava che ne fosse quasi affezionata e se ne sentiva colpevole.

Di tanto in tanto la mattina sobbalzava al pensiero di quel che doveva fare.

Era come Prometeo, incatenato alla montagna e mentre declinava i sogni perduti come una sorta di Tavola di Mendeleev sapeva che il passato stava provando a giocarle la strada della nostalgia.

Ma non aveva voglia di farsi fiatare sul collo.

Non aveva voglia di riesumare l’incanto di amori totalizzanti.

Così si appoggiava al bordo della tazza di caffè bollente per spiccare il salto: ma non partiva.

Poi arrivò l’indaco: che colore strano!

Non lo conosceva.

Sfogliando pagina dopo pagina l’enciclopedia della sua memoria, l’indaco compariva solo a tratti.

Forse era il colore delle ortensie del giardino dove si nascondeva Leonardo da piccino.

Lo spicchio di cielo che si apriva in Val Saisera tra il mare di nuvole grigie e lo sfondo verde delle montagne.

Il lago che aveva intravisto dalla cima più alta di Andalo.

Le risaie cinesi fotografate dal drone.

Il cielo di Otranto quando spunta la luna piena dai monti dell’Albania.

Il tabernacolo di Consonno, paese diroccato, abbandonato, che la riportava sul Lago di Como.

La donna dinanzi al vento che le soffiava in faccia, mentre i pensieri le svolazzano dietro a sciame.

La vecchia che si trovava al centro di “Morte e vita” di Klimt.

No, niente di tutto questo.

L’indaco era il terzo occhio, quello che le si era aperto all’improvviso, attraverso il quale guardava con un nuovo sguardo la solitudine che si era guadagnata.

Una solitudine fatta di intimità con quella che era e ignorava di essere.

Una solitudine ricca di empatia nei confronti degli altri.

Una solitudine in compagnia di chi era lontano ma la pensava.

Una solitudine affollata di strade diverse.  

Una solitudine per tornare a sé stessi.

Una solitudine per staccarsi e volare.

Una solitudine in un concerto di parole.

Doveva separarsi da persone e cose per partire.

L’indaco era un chakra di energia.

Il labirinto magico

Il labirinto nel cuore – di Stefania Bonanni

Foto di Stefania Bonanni

Il tempo non esiste, eppure è un labirinto magico, nel quale si entra senza volontà e se ne esce solo quando la cosa non ci riguarda più. Ci accompagna, e cambia senza chiedere il permesso. E’ fatto di attimi infiniti, e di anni che non si ricordano, sfuggiti in un batter di ciglia. Di momenti irripetibil, che non torneranno mai uguali, nonostante gli sforzi di replica , perché non ci siamo accorti che il tempo ci ha cambiati. Un labirinto che sbatacchia avanti e indietro, e non è governabile. Siamo piccoli, nel labirinto da poco, e si vorrebbe correre avanti, mettendo anche in conto la possibilità di sbattere, le possibilita’ che il labirinto promette sembrano li’ dietro l’angolo. E si cammina, si cerca la strada più piana, e pazienza se non sarà la più corta. E si cammina cercando di stringere tra le mani il filo che da sicurezza, che ci aiuterà a non perdere tutto il tempo nel labirinto. Siamo grandi, e si rimpiangono gli anni della gioventù. Si fanno i conti con il tempo perso. Ci sono persone che hanno vissuto il loro tempo come tracciando una linea diritta , regolare, senza sbavature, senza vuoti. Io ho avuto diciott’anni ogni volta che mi somo innamorata, di qualcosa o di qualcuno. Sono bambina, quando gioco con Leo. Mi sento immortale quando lui mi dice che mi vorrà accanto per sempre, ogni volta che nella vita avrà un progetto, che devo essere la sua aiutante sempre.Mi sento fragile e malandata, mi sembra di avere cent’anni di stanchezza sulle spalle, ma mi è sembrato di partorire di nuovo, quando è nato Leo, e di nuovo ancora, quando è arrivata Bea, e non ero io,certo, ma nasceva lo stesso qualcosa di mio, e l’emozione fa bene. Una notte di pochi mesi fa è stata un’esperienza che mi ha lasciato un segno grosso. Reduce da un’operazione importante, sola visto il periodo, ovviamente sedata, drogata, in una camera di rianimazione che non riconoscevo, pensavo di essermi persa. Chiamavo Paolo, e non veniva. E pensavo, questo lo ricordo bene “ma guarda come è diventato sordo, invecchiando” Allora ho chiamato “mamma”, e anche altri chiamavano mamma. Ma nessuno arrivava. Apparecchi emettevano suonini da sala giochi. Non sapevo dov’ero, perché, chi ero, quanti anni avevo. Allora ho cominciato a cercare di mettere in fila i ricordi, e terrorizzata mi sono resa conto di non essere capace. Pensavo: “ma è nato prima Riccardo, o la Francesca? E il bambino piccolo chi è? Ma dove lavoro? Da quando? Ricordo che sono sposata, ma sono così giovane….o quella giovane non sono io, è la Francesca? E in che anno mi sono innamorata? No, non torna, e successo prima che nascesse Riccardo….” E ho avuto una paura tremenda di aver mescolato tutto, di non sapere più a che punto del labirinto mi sono persa.Senza ricordi, non mi rimane nulla, Non sono nulla. Se il passato è sparito, il presente è confuso, si può pensare al futuro. Intanto si continua a vagare per sentieri aggrovigliati, con le spine per terra, ed i cocci di bottiglia sui muri, ed a raccogliere il filo che scappa di mano, quello che indica la strada.

Citazioni per pensare

“Il passato non si dimentica, ha radici inestimabili che si intrecciano al presente, definisce ciò che siamo, o ciò che siamo diventati. Per Vivian il passato era una stanza di specchi e ombre, di riflessi che le restituivano, incessantemente, i volti delle donne che l’avevano plasmata: una su tutte sua madre. La sua ombra incombeva ancora su di lei, sebbene da anni avesse cercato, in tutti i modi di lasciarla alle spalle. Tutta la sua vita era una fuga da colei che, per paradosso, le aveva insegnato a fuggire….”

E anche:

“Vivian abbassò lo sguardo alla propria ombra che si allungava sul vialetto.Una foglia secca, reduce da un autunno ormai lontano se ne stava lì al posto del suo cuore. I bordi arricciati, prossimi a sbriciolarsi, ne facevano una superstite ostinata, qualcuno che non vuole cedere all’evidenza. Si infilò la Rolleiflex al collo mettendo a fuoco , attraverso la lente, quella fragile creatura che sopravviveva in una stagione che non le apparteneva. “

Turchese materno

La sciarpa turquoise – di Rossella Gallori

La cerimonia era stata breve, qualcuno aveva aggiunto “intensa”, tanto per dare un senso a parole quasi incomprensibili, poca gente, una pioggerellina stronza e quella voglia di urlare che le prendeva nei momenti meno opportuni.
Si salutarono davanti al cancello di un cimiterino non convenzionale, in una Firenze nord, semideserta…lei e loro due, esemplari così diversi, della stessa madre, tre fratelli, figli unici, per un volere, assurdo di una mamma un po’ “ fuori” per usare un gergo attuale…
Decise di tornare in autobus, un modo originale per stare sola dopo il funerale, allentò il nodo della sciarpa, che la stava quasi impiccando, sapeva ancora di lei, aveva quell’odore che hanno le signore di una certa età, pulite ed un po’ vanitose: un po’ di colonia, un po’ di crema per le mani ed un po’ più di sciroppo per la tosse.
Gliela aveva tolta, quasi con rabbia, non si muore, scheletriti e vecchi con quel colore addosso…..già quel colore…una banale gradazione di azzurro che sua madre chiamava pomposamente “turquoise” …
Lo ripeteva spesso, martellando la figlia, tanto meno femminile di lei: da luce, da vita….quindi primavera in bleu e turchese, estate in bianco e turchese….inverno nero….e sempre noiosamente turquoise.
Non scese alla fermata giusta la lasciò passare allontanandosi, volutamente da casa, ed avvicinandosi a quella della madre chiusa da tempo.
Lottò con la chiave, prima di decidere di usarla, aprì lentamente, come era piccola quella casa…e come poco ricordava chi l’ aveva abitata: ordinata, monotona…le solite foto di gente bella e giovane morta da sempre…i cuscini sul letto di un celeste sbiadito…e ciniglioso.
Trovò la scatola sul cassettone, le cifre ancora nitide, le piccole cerniere sgangherate, aveva quasi paura di alzare quel coperchio, si riavvolse nella sciarpa, quasi per difendersi temeva di ritrovarsela li, sua madre, quell’estranea adorata….
Orecchini, spille, tra il bluette, il pavone ed il manganese …ebbero il loro momento di respiro, il cielo in una scatola di pelle graffiata dagli anni…

Labirinto di mare

Labirinto in fondo al mare – di Mirella Calvelli

Foto di nico49 da Pixabay


Quegli strani segni sul fondale marino, l’avevano sempre affascinata. Non era difficile da raggiungere quel luogo, bastava una spinta di reni e l’abilità nel trattenere l’aria.
I sogni poi si sviluppavano non laggiù, troppo intenta ad osservare a guardare ogni minimo dettaglio, ma una volta riemersa. Era facile a 15 anni fantasticare su popolazioni antiche che in quel luogo avevano disegnato il loro labirinto.
Un dedalo di stradine sconnesse, in parte pietrificate, in parte aggredite dalle poseidonie.
Coralli o presunti tali, avevano avvolto non solo lo schizzo iniziale, ma avevano disegnato un percorso alternativo fatto da morbidi sbarramenti e forti muraglie.
Andare fin laggiù, era una sfida, soprattutto per la durata della piccola immersione.
Una maschera e una paio di pinne erano tutta la sua attrezzatura. Avrebbe voluto trattenersi più a lungo, se avesse potuto usare le bombole e una calda muta.
Ma non era così . Quindi la soluzione era inabissarsi con un bagaglio di area sufficiente e sempre più copiosa per poter esplorare e affrontare quel percorso che ogni volta sembrava diverso.
Certamente lo era. Le sue mani sfioravano con attenzione quel giardino distratto. I pesci con curiosità la osservavano perplessi. Le provava a percorre il labirinto, ma sbagliava sempre strada . Entrava nel solito punto, di questo ne era certa, un grosso buco infossato e stranamente privo di ogni forma di vita , era lì la partenza.
L’arrivo, era un’altra cosa, sempre diverso e sempre più ostile e lungo.
Per riemergere invece un flash di luce dorata la trascinava in superficie come legata ad un lungo filo e con il minimo sforzo, muovendo come in una danza i piedi pinnati. .Il primo sguardo era verso una pennellata di un azzurro brillante.
Le goccioline di acqua le scendevano sulle spalle nude e percepiva il verde chiaro dei suoi occhi e il suo sorriso ingabbiato.
Non era mai riuscita a scoprire nient’altro che il susseguirsi dei percorsi, prima larghi e poi più stretti dove per entrare in alcuni anfratti l’unica possibilità era a taglio.
La sua scoperta, che poi non era solo sua, vista la facilità di accesso, la faceva sognare più a terra che in acqua. Sperava un giorno di imbattersi in un’antica giara o qualche frammento importante.
In fondo erano gli anni della scoperta dei bronzi di Riace. Ma né fama e né soddisfazioni particolari arrivarono da quelle immersioni. L’unica cosa certa fu la proibizione assoluta a continuare quelle indagini labirintesche. Non per capriccio o paura dei suoi, ma per un problema reale al suo orecchio destro.
Danneggiato da un’otite fortissima, l’aveva costretta alla ricostruzione del suo interno, ben riuscita, ma con il monito di salvaguardare quel capolavoro della chirurgia dell’orecchio per gli anni a venire. Riuscì a vedere un labirinto, astratto e doloroso, sempre all’interno di quel suo orecchio malandato con una
labirintite che dava poco spazio alla magia e alla fantasia. Di per certo fu che dopo quei capogiri, quello spazio azzurro del cielo si tuffava sempre nei suoi occhi.

Terza scintilla: Il labirinto dei colori – Scegliete una strada e seguitela

Ripartiamo dall’indaco e seguendolo come fosse una strada di un labirinto cominciamo a camminare. Troviamo un primo bivio, davanti al quale siamo chiamati a scegliere, perché…….

…l’indaco è formato da CIANO:

e da MAGENTA:

quale delle due tonalità scegliete?

Foto di Thanks for your Like • donations welcome da Pixabay

Siete attratti dai toni freddi del celeste acqua, del turchese nelle collane, del lago, del mare al mattino, di certi cieli freddi d’inverno, del vestito di giovani ragazze a una festa di paese, del vetro di una finestra sul mare, di una pozzanghera che riflette il cielo dopo la pioggia, della fusciacca della prima comunione……

Foto di Photorama da Pixabay

oppure siete attratti dalle violacciocche dell’orto, dai ciclamini del bosco, da un vestito da sposa non convenzionale, da un bicchiere di succo di ribes, dai campi di fucsie nelle praterie irlandesi, da un golf che portava qualcuno, dalla tenda leggera su un mercato orientale, da una coperta, che si accendeva di luce al tramonto…….

Foto di RitaE da Pixabay

Scegliete una suggestione cromatica e lasciatevi guidare nella scrittura…….

Poi magari mescolatele…..tornando indietro e cercando la via di uscita.

Come in un labirinto……

Foto di Thanks for your Like • donations welcome da Pixabay

inviate a:

lamatitaperscrivereilcielo@gmail.com

Colore di carta da lettere

Il colore della vecchia carta  da lettere – di Tina Conti

Foto di Tina Conti

Ho trovato nel cassetto  della macchina da cucire della mamma, un piccolo rotolino di fogli scritti.

Lei, sarta da uomo, amava molto stare al suo posto di lavoro, era una sorta di ufficio, zona relax e area creativa.

Realizzava le cose più disparate, sacche per la bici, tende, aggiustava le cose rotte per questo aveva voluto una nuova macchina da cucire tedesca, forte e affidabile. Non avendo tempo per seguire i corsi per applicare le  potenzialità del nuovo acquisto, mi aveva costretta a seguire le lezioni a suo nome.

Oltre alla scatola dei bottoni, raggruppati per colore e misura,  con i quali mi sono trastullata per sentire un po’  la sua vicinanza, ho trovato questo rotolino legato con una cordicella che ho aperto e cominciato a leggere le paginette scritte da lei: contenevano uno sfogo per un diverbio con la sorella, confidenze su momenti di difficoltà nei rapporti con il marito e i figli. Tutti normali problemi della vita che si scrivono per sfogo e confidenza .

Le altre pagine, ingiallite e consumate mi hanno turbato profondamente.

Con parole dirette e urgenti dal fronte  Gino, il fratello minore del babbo, scriveva alla famiglia, prima alla mamma, raccontava dell’inferno della guerra, della fiducia di tornar presto. Si stringe il cuore nell’immaginare dove e come queste parole erano state scritte e di quali sentimenti e tormenti erano inondate.

La lettera  però  che ho faticato a leggere e  decifrare bene, veniva dal comandante della guarnigione che annunciava notizie sulle sorti di Gino.

Mi si è scatenato un uragano di sentimenti, ho immaginato la famiglia, la casa, il vicinato  al momento del ricevimento, di una corrispondenza temuta, immaginata, poi accolta con  la rassegnazione di sentirsi impotenti, con il cuore sempre in ascolto.

Quale ansia e affanno, come immaginare la sofferenza e i patimenti  di quel figlio.,fratello, amico, conoscente, ferito, quanto gravemente ferito sarebbe tornato?

Lo avremmo riabbracciato?  da ragazzina, ho partecipato insieme alla nonna e ai familiari alla cerimonia durante la quale  si riconsegnava alla famiglia quello che si pensava fossero i resti del soldato Gino. Non era più disperso in una terra sconosciuta,  ora aveva un posto vicino alla madre, dove  fermarsi per un pensiero, un fiore, un ricordo. un piccolo lumino acceso.

Era, come tutti, vicino al cuore, nel suo paese.

Labirinto e inganno

Il labirinto – di Stefania Bonanni

Foto di Adina Voicu da Pixabay

Ero convinta che l’avrei trovato, l’amore che porta il sogno.

Io volavo, ma di un volo incerto, uno sbattere ostinato di alette corte e pelose che richiedevano grandi sforzi, e non permettevano di raggiungere destinazioni. Volavo alla cieca, costretta, stremata, a posarmi spesso, dove capitava. Certo, volare volavo, ma a piccoli tratti, sempre inseguendo sulla terra le ombre disegnate da chi le ali le aveva grandi e poteva essere seguito con lo sguardo fin lassù,  forse fin sulle nuvole, nel vento, nel mondo degli esseri liberi, quelli costruiti per conoscere il cielo. Io volavo basso, mangiavo cose immonde, non avevo orizzonti. Non sognavo altra vita, non ne conoscevo. Ma l’amore si, sentivo il bisogno di riempire un vuoto, dentro. Non poteva essere solo così. .. Lo incontrai di notte. Gli capitai vicino, in una notte senza luna. Era simile a me, perlomeno dello stesso colore . Gli esseri umani amano animali colorati, quelli neri come noi li scacciano, quando va bene. Lui era un tipo agile, con lunghissime zampe. Con un gesto solo, fulmineo, mi prese tra le braccia e mi stese su un letto morbido,  e lui si piazzo’ al centro. Un letto strano, un po’ appiccicoso, ma confortevole. Veniva voglia di aspettarci il giorno.

All’alba mi accorsi di essere stesa su seta ricamata, lucida, capace di catturare i raggi del sole,  luccicante di perle di dolce rugiada. Lui riposava soddisfatto.  Stanco per aver tessuto quella meraviglia, felice perché ero stesa sul suo letto. Mi sembro’ un velo da sposa, il ricamo. Fui felice di un calore ardente ed improvviso. Un attimo così può bastare. Può bastare per una vita intera. 

Perché fu un attimo. L’ultimo attimo che ricordo.

Il tesoro nel labirinto

Labirinto – di Nadia Peruzzi


La soluzione era li’, al centro del labirinto. Vi riposava da quasi 300 anni senza che nessuno se ne fosse accorto. A portata di mano ma sapientemente celato alla vista di chi non aveva strumenti per vedere, cuore e pazienza per cercare.
La grande casa osservava sorniona il parco e quell’intreccio tortuoso delimitato da alte siepi di bosso e di evonimo con i loro giochi di colore . Dal verde brillante tendente allo smeraldo, al rosso porpora con apostrofi color fucsia.
A Sara capitava spesso, quando si rifugiava in biblioteca, di perdere la cognizione del tempo mentre seguiva i giochi magistrali e le volute tortuose dell’immenso labirinto che, a quanto era dato sapere aveva preceduto la costruzione della villa padronale. Di solito succedeva il contrario, ma in quel caso si era voluto che fosse il labirinto il centro vero e il punto di origine di tutto.
In tempi remoti in quella stessa area un antico popolo vi aveva tenuto le sue adunanze e vi aveva svolto i suoi riti propiziatori in onore di Dioniso.
Se ne conservava memoria in vari documenti, mentre nel racconto collettivo si tramandava da secoli la possibilità che vi fosse sepolto addirittura un tesoro.
Nessuno dei suoi predecessori si era posto il problema di fare una ricerca approfondita. Si erano accontentati di ricevere in dono la tenuta e tutto era finito lì fra manutenzioni, restauri, aggiustamenti e risistemazioni che non avevano toccato in alcun modo l’impianto originario che voleva il labirinto come centro e riferimento per tutto quanto il resto.
Una forza irresistibile sembrava attrarre, verso quei vialetti con le loro alte mura vegetali a parare ogni vista chi lo vedeva per la prima volta. Molti si erano persi in quei meandri dove era la natura a dettare legge e il piano del suo ideatore a creare impicci per l’incauto esploratore.
Sara aveva trovato nella cavità di un libro il progetto originario. Un documento polveroso e ammuffito in molte sue parti vergato con la scrittura tipica del 600 . Era quasi trasparente per il tempo trascorso, ma ancora ben leggibile. Vi si faceva riferimento alle qualità necessarie per poterlo percorrere tutto senza smarrire la rotta. Curiosità, istinto, osservazione e ingegno.
All’inizio gli strani segni e i ghirigori che segnavano inizio e fine di ogni paragrafo le sembrarono un modo per impreziosire quel documento con simboli che richiamavano, talora in veste astratta, la natura, il mondo animale e oggetti dell’epoca.
Non le ci volle molto a capire che erano invece indizi ben precisi e indicazioni probabili di un percorso .
Decise di seguirli e una mattina alle luci dell’alba si ritrovò al limitare del labirinto proprio di fronte al punto di ingresso. Il varco era invitante ma induceva anche un sentimento di panico.
di Eccitazione e voglia di sapere si mischiarono a paura dell’ignoto e di non ritrovare, una volta entrata né ciò che vi era custodito da secoli, almeno secondo la leggenda, né la strada per tornare indietro.
Trasse un gran respiro come se si dovesse tuffare nell’acqua fonda e si immerse sentendo su di sé tutto il peso delle mura vegetali che la circondavano, mentre i rami più lunghi le sfioravano gambe e braccia.
Nell’’idea che si era fatta, i simboli presenti sul documento li avrebbe dovuti trovare a segnare il percorso.  Il primo, a forma di lepre, lo scorse dopo un tempo che le sembrò infinito e ad un incrocio che indirizzava da tutt’altra parte. Man mano, seguendo il documento scoprì gli altri che l’aiutarono a procedere verso il centro del labirinto.
Le ore erano passate senza che se ne accorgesse. Era entrata in una dimensione che teneva fuori qualsiasi riferimento allo spazio e al tempo. Se ne accorse dalla fame più che dalla fatica. Era troppo eccitata per la fatica, ma fame e sete ad un certo punto cominciarono a farsi sentire.
Era stata previdente e nel suo zaino aveva portato un po’ di cibo e molta acqua. Si rifocillò mentre il sole del mezzogiorno fece un accenno di presenza in alto, su quel muro vegetale che lo schermava quasi del tutto.
Da quel punto arrivò in breve al centro del labirinto. Si trovò di fronte un cubo fatto di arbusti e piante di vari colori. Gli girò intorno fino a che non trovò quello che cercava: i simboli erano tre in quel punto. Un bicchiere in alto, delle cesoie al centro, il sole in basso.
Nell’intrico di rami non scorse nulla . Valutò che forse sarebbe stato meglio provare a scavare sotto il simbolo del sole. Fu la scelta giusta. La teca di vetro era sotto uno spesso strato di terra.
La ripulì e la vide occupata da un drappo di broccato purpureo su cui era adagiato un tralcio di vite completo delle sue radici.
Le foglie rilucevano pure in quella penombra. Il verde era di quelli teneri, da virgulto giovane . Le radici pulsavano di vita.
Un insieme prodigioso considerato che la teca era rimasta lì sotto per oltre 300 anni.
Si affacciò una punta di delusione. Aveva fantasticato tanto sul tesoro la cui esistenza si era sedimentata nei racconti e nei ricordi di generazioni e generazioni, che si aspettava un tesoro vero luccicante di oro, gioielli e pietre preziose.
Quasi quasi voleva rimettere tutto al suo posto, ma ci ripensò e portò con sé lo scrigno di vetro e il suo contenuto.
La via del ritorno fu più agevole. I simboli messi a segnare il percorso li ricordava uno ad uno.
La teca di vetro fu messa in bella vista su un mobile nella biblioteca.
Ci girò attorno per diversi giorni prima di decidersi a chiamare il vecchio Giovanni.  Per anni aveva curato il podere attorno al palazzo avrebbe saputo darle qualche buon consiglio.
Fu lui a dirle che probabilmente si trattava di un vitigno antichissimo e molto pregiato che gli antenati di Sara avevano coltivato per lunghi anni producendone un ottimo vino.
Avevano smesso quando la vigna aveva preso fuoco all’improvviso.  Il terreno da allora in poi sembrò sottoposto ad un sortilegio negativo che guastava tutto quanto vi si provava a coltivare.
Andarono male tutti i tentativi di ricreare una vigna e peggio quelli di provare altre coltivazioni.  Avevano deciso, si raccontava, di lasciarlo a maggese per sempre.
Veder riapparire nella teca il tralcio di quell’antico e prestigioso vitigno Giovanni lo considerò un vero miracolo.
I simboli, sole, cesoie e bicchiere di cui Sara gli aveva parlato,  li considerò un segno,  forse messo da chi aveva salvato quel virgulto, perché si provasse di nuovo a far nascere una vigna nello stesso luogo di quella abbandonata ormai da secoli perché qualunque cosa vi si piantasse, andava in malora.
Sara ci mise i suoi studi, la sua caparbietà, la sua costanza. Giovanni la sua esperienza e la somma delle storie scritte e narrate e di quelle che lui stesso aveva attraversato.
Quel tralcio di vite e quel terreno si sposarono alla perfezione. Erano fatti uno per l’altro.
Prosperò rapidamente e la vigna ebbe modo di ingrandirsi tornando a produrre un vino dal gusto raffinato e dall’aroma intenso e speziato.  Il Labirynthus.