Era la festa che preferiva. Le piaceva l’uovo di cioccolata, colorato, con la carta che scrocchiava a lungo quando lo scartava, con tutti quei colori luccicanti. Cercava la sorpresa come una bambina e non le importava il valore di quello che trovava. Poteva essere uno stupido portachiavi senza bellezza o un giochino da dondolare tra le dita due secondi o un ciondolo di latta. Mia mamma aspettava la Pasqua come una liberazione. La fine dell’inverno, la fuga al mare sulla spiaggia col vento e le prime nuvole a rincorrersi. “Lo vedi, diceva, è la nascita della natura, guarda come tutto si riempie di verde e di fiori”. Lo guardavo, quel mondo, ma di certo non lo vedevo come lo guardava lei. Vedevo fiori acerbi e aria ancora troppo fredda, in quegli anni lontani in cui la primavera cominciava con l’equinozio. “E poi l’uovo, è un simbolo grandioso, è la vita, è l’inizio, è la maternità”. A me in quegli anni, e poi anche dopo, piaceva il Natale, il buio e le lucine tenui, i pacchetti misteriosi, le piccole sorprese, i gingilli e gli alberi addobbati. Le cene insieme quando ancora c’eravamo tutti. A lei invece piaceva il panino sulla coperta, la solitudine della felicità, non sentirsi obbligata, legata, imbrigliata dai riti. Libera. La sentivo come vibrava di impazienza, come si metteva in sintonia con la natura e come sapeva diventare l’albero che si riempiva di linfa esplosiva. Mi faceva paura. Pensavo di non riuscire a contenerla, di non saperla trattenere e avevo paura di poterla perdere, che cominciasse a correre verso un punto invisibile senza più tornare indietro. Mi faceva paura e mi faceva paura la Pasqua. Ho avuto poi, anche senza di lei, sempre timore di questa festa, impegnativa, così legata al clima e agli spostamenti obbligati. Abbiamo continuato ad andare al mare. La prima vera uscita allo scoperto: il panino sulla coperta, l’ansia che fosse tempo bello altrimenti…..il piano “b” al camino con l’arrosto, mia sorella a proteggere salda le nostre Pasque.
Ogni Pasqua me la sono sempre goduta il giorno dopo, quando le cose erano andate bene, quando c’era stato il sole improvviso dopo i venerdì santi di pioggia, o l’avevamo passata al camino con la quasi neve fuori ed eravamo stati sereni ugualmente, tutti insieme, con l’uovo colorato e scrocchiante e il pensiero mai detto dell’assenza di lei, che continuava a dirci, dentro, silenziosamente, in un punto indistinto dell’anima “vedete come è bella questa festa, con la rinascita della vita che promette”?
Poi sono arrivati i bambini e le Pasque si sono trasformate in feste. Allora davvero la gioia è diventata la potenza dei bambini felici al primo sole sul mare. Ho smesso piano piano di avere paura e all’improvviso, quella Pasqua senza paura dell’anno scorso, così bella e così piena di sole, è stata l’ultima. Oggi si volta pagina e non sappiamo più che capitoli leggeremo.
Nessuna ferita è per sempre e direi che lo sto sperimentando in questi giorni di forzata prigionia.
Avrei preferito coccolarmele, però, le mie ferite andandole a cercare nei cassetti dei ricordi dove sono custodite sotto strati , man mano più spessi, di panni soffici e profumati. Avrei voluto tornare a sfiorarle per ritrovarmele nel cuore sapendo che ogni volta fanno sempre un po’ meno male, che non sono mai solo i segni dei dolori sordi e strazianti che si è provato, ma anche i guizzi delle vite che abbiamo attraversato e i momenti di gioia che quelle vite hanno segnato.
Gli interessi comuni, le scoperte fatte insieme, i viaggi, ogni ora spensierata , ogni risata tornano a galla senza provocare scossoni, destabilizzazione, panico e nemmeno più quel senso di solitudine e di fragilità ipocondriaca propria di una età che pone ormai nel segmento di popolazione a rischio.
Quando è morta mia mamma, l’ho sentita scendere fino nelle mie gambe e tradursi quasi in difficoltà a muoverle in avanti senza provare affanno. Come se mancando anche quest’ultima mano, procedere fosse diventato meno semplice e lineare, quasi impossibile.
Eppure, anche se la commozione sale mentre scrivo, sono costretta ad ammettere con me stessa che di fronte all’immane ferita della situazione presente, le altre è come se avessero fatto un passo indietro.
In qualche caso le ho spinte io. ”Cara mamma, mi sono detta, meglio che tu questa prova te la sia risparmiata”
Ci eravamo organizzate un badantato domestico a tre, con convivenza non semplice ma il punto ero riuscita a tenerlo. Fin dai tempi in cui c’era ancora la nonna e io ero una ragazza che doveva farsi donna.
Mi tornano in mente le nostre baruffe sui “ricoveri”, si chiamavano così allora.
Lei spesso mi diceva:”Visto che fai politica , diglielo al sindaco che faccia un bel ricovero proprio qui ad Antella”
La risposta arrivava in un fiat. “ Nonna io glielo dico di sicuro, ma te li dentro mai e poi mai!”
Chissa’ cosa potrebbe mai dire oggi di fronte alla vera e propria ecatombe di anziani in quelle strutture che dovrebbero essere di cura e di protezione .
E’ il senso di tragedia che pesa sull’oggi a fare il resto. Un meccanismo quasi normale direi.
E’ accaduto che una guerra guerreggiata di forte impatto sulle coscienze e sulle vite delle persone, la prima veramente mondiale, con le sue distruzioni e i suoi 16 milioni di morti, abbia messo in sordina e fatto sparire dai libri della grande storia la famigerata epidemia di “Spagnola” che fra il 1918 e il 1920 di morti ne ha fatti 50 milioni su 500 milioni di infettati.
Così’ nella propria vita può accadere di trovarsi in una strana situazione nella quale è come se enorme mano fosse intervenuta a spingere il mio vissuto precedente nella quinta più lontana, quella dello sfondo.
La tragedia collettiva che stiamo vivendo sembra rimpicciolire e relativizzare tutte le nostre ferite più o meno lontane nel tempo. Non ci posso far nulla. Sento che è così.
Nel canovaccio intriso e infettato dal virus è una rincorsa di ferite che bruciano ora e ora fanno un gran male in una rincorsa e in un rilancio perverso che non lascia spazio ad altro. Come se il mondo si fosse trasformato in una immensa bisca fumosa, tetra e fetida e tutto dipendesse da una partita a poker con il baro, il virus, che al momento sembra avere pressoché tutti gli assi in mano!
Non è un gioco, ce lo stiamo dicendo e lo stiamo sentendo ogni giorno di questa quarantena che ci vede spettatori e attori spaesati e straniti di fronte ad un fenomeno inatteso , da albori della vita dell’uomo sulla terra quando anche un fulmine era vissuto come evento terrificante.
Noi siamo tornati li. E’ come se stessimo affacciati all’imbocco di una caverna, con la bocca spalancata e gli occhi pieni di terrore e lo stesso esatto stupore.
Abitiamo case e non caverne, possiamo chiuderci ma ci sentiamo braccati.
Usciamo di rado e sempre guardinghi e insicuri. Ridotti a misurare le distanze dagli altri. Anche nelle cose essenziali della normalità come il fare la spesa che era solo poco tempo fa un momento di incontro, di scambi, di chiacchiere, di battute e di qualche risata.
Cento metri di distanza dai tuoi cari sono diventati quasi spazi siderali da colmare in una spedizione che avrà il sapore di una avventura una volta che potremo di nuovo percorrerli tutti. Tornare a salire quelle scale avrà il valore del primo passo di un essere umano sulla luna.
La passeggiata in solitaria è molto meno attrattiva di quanto non lo siano quegli occhietti buffi , quei nuovi gesti e parole che hai perso tutti mentre nascevano e prendevano forma, quelle panciotte con cellulite bambina che vorresti sbaciucchiare a più non posso. Per l’anima non c’e’ carburante migliore di questo.
Il futuro sembra addirittura parola faticosa da declinare. Se lo fai, lo fai sottovoce, come per non disturbare. Hai visto mai che si incavoli, giri male e si allontani ancora un po’!
Ce la faremo e andrà tutto bene. Forse torneremo al mare. Il futuro si è pure ristretto geograficamente. Roba da giocarsi, se va di lusso, a 100 chilometri da casa considerandola pure più di una vincita milionaria al superenalotto.
Dietro l’angolo come le vacanze dei vacanzieri degli anni 60, quelli del Sorpasso, della Versilia senza se e senza ma, del lido di Ostia se eri romano.
Le Maldive, Reunion , Mauritius se volevi te le andavi a cercare seguendo alcuni dei tanti puntini su un atlante geografico di quelli buoni.
Le strategie per dare concretezza a quel ce la faremo, sperimentate più o meno tutte.
“Va pensiero” a volume sostenuto, per quel più di un pizzico di orgoglio nazionale che serve attivare quando questa nave a forma di stivale è in netta difficoltà e si trova a traballare dentro una tempesta imperfetta e pure con gli alleati che si divertono a spararti addosso.
“Nessun dorma”, con il suo “all’alba vincerò”cantato a squarciagola con Pavarotti a dar man forte.
Puntare lo sguardo come prima cosa ogni mattina arrivando in cucina sulle orchidee, dato che col loro rigoglio sono una vera sferzata di vitalità .
Quando poi la vedi un po’ più buia del solito ci vuole il rock.
I 6000 passi avanti e indietro nel corridoio quando proprio sei al limite fra canna del gas e 44 Magnum, ma senza l’Ispettore Callaghan.
Cosa non ci si inventa per sopravvivere e cercare di non farsi piegare dalle ferite e dalle difficoltà del presente.
Poi però, ecco lì il momento in cui la gola si chiude, vorresti piangere ma non esce nulla di nulla, il respiro si fa corto e devi prender fiato per allentare quella fastidiosa sensazione che può se non bloccata subito diventare una morsa capace di travolgere qualsiasi strategia difensiva, anche la migliore.
Quando riemergeremo ci rimarrà un po’ di amaro in bocca per questo tempo sospeso nel limbo di una protezione necessitata.
Proveremo anche rabbia, molta rabbia, perché sarà il tempo di pensare a tutto quello che non ha fuzionato, ai troppi mandati allo sbaraglio a mani nude contro un nemico subdolo e potente.
La compassione per i morti , i morti in solitudine, le povere persone andate via senza nemmeno una carezza e un saluto amorevole su quei camion militari, non sarà mai abbastanza. Ci sarà molto da elaborare e rielaborare anche collettivamente.
Immagino, anzi lo sento, che per molto tempo vivremo la fragile condizione umana e psicologica dei sopravvissuti.
Se avremo attraversato indenni questa immane catastrofe, ci sentiremo per una volta un po’ più Gastone che Paperino lo sfigatissimo, anche se il cugino fortunato ci è sempre rimasto sulle scatole mentre lo leggevamo da bambini.
Dovremo ricostruirci e ricostruire. Una sommatoria di piccoli passi, incerti all’inizio poi via via più sicuri, decisi e meno traballanti.
La strada forse da impervia tornerà a farsi più agevole da percorrere.
Anche se non si riapriranno tutte insieme le porte delle case ci lasceranno uscire senza essere la barriera che separa dal mondo esterno che sono diventate in questi lunghi giorni.
Riconquistare lo spazio sociale e tutto quello che ci è mancato in questo periodo varrà come aver raggiunto la vetta dell’Everest. Chissà che una volta arrivati lassù, in quell’aria tersa come non mai , non ci torni anche la voglia matta di spiccare il volo.
La sua ampia e folta chioma ancora oggi accoglie e abbraccia gli uccelli di quel paradisiaco pianoro e rende felici i passanti con i suoi delicati fiori e i suoi frutti che tante volte hanno incorniciato i volti delle bambine con buffi e panciuti orecchini rossi.
Eppure sul tronco infinite ferite fanno leggere le tante sofferenze subite negli anni, inverni troppo rigidi, estati troppo torride o primavere poco piovose.
Ce n’è una in particolare ancora più evidente, in quel punto la corteccia si è spaccata in profondità, si è aperta lacerandosi per un lungo tratto, si vede perfino la parte più interna, cosa sarà stato? Chissà.
Ma il vecchio ciliegio lascia scorrere il tempo, continua a sentire l’abbraccio del sole, la frescura del vento, la musica della pioggia e il solletico delle api che succhiano la sua parte più dolce e continua a regalarci ancora la sua bellezza.
Mi ricorda la Gina questo vecchio ciliegio, la sarta del paese, tuttora bella nonostante i suoi ottantaquattro anni, con i capelli bianchi raccolti in una crocchia e profonde rughe sul viso che la rendono ancora più dolce e saggia.
Sono le tante strade che ho percorso nella mia vita,diceva alla nipote quando le accarezzava il volto, alcune sono superficiali, altre più profonde, ma tutte importanti.
Ne aveva passate tante la Gina, ancora bambina la guerra e la miseria poi un matrimonio voluto dai genitori, tante ferite avevano graffiato il suo fragile cuore, ma quella più profonda è stata la perdita del figlio ancora cinquantenne.
Quest’ultimo dolore l’aveva devastata, aveva distrutto la sua parte migliore, come poteva accettare di sopravvivere al figlio?
Ogni giorno era diventato per lei un macigno sulle sue deboli spalle e sempre di più ne rimaneva schiacciata fino a perdere il respiro.
Tesoro mio, purtroppo non si muore di dolore sai? Se così fosse io non ci sarei più, diceva alla nipote che andava a trovarla per portarle un sorriso.
Rimase nel suo dolore per un tempo indefinito, non riusciva nemmeno più a percepirlo il tempo, si lasciava vivere in una dimensione che non le apparteneva senza provare più piacere per nessuna cosa.
E invece fu proprio il tempo a sostenerla in questo lungo cammino fatto di sofferenza, di silenzi e solitudine perchè il dolore non si racconta, si prova e basta, scava dentro e disegna ferite profonde che il tempo amico trasforma poi in cicatrici.
Il suo macigno diventava di giorno in giorno meno pesante e la Gina ricominciò a vivere nel presente, ricominciò a sentire i profumi, i sapori , quel giorno fu contenta di preparare la ribollita per la nipote e si stupì quando vide i narcisi appena sbocciati nel suo piccolo giardino, finì anche di leggere quel libro che aveva tenuto sul comodino per molto tempo.
Quella ferita si stava pian piano rimarginando, diventò una cicatrice, visibile è vero, lei lo sapeva che c’era, la teneva nascosta agli occhi degli altri, la curava, ma era sempre lì a ricordarle il vuoto, la mancanza, l’antica sofferenza tanto che in alcuni momenti si ritrovava ancora le lacrime sul viso.
Non era morta di dolore la Gina perchè le ferite non sono per sempre, se così non fosse come faremmo a portare sulle spalle le ferite di una vita?
Un delicato macramè rosso sangue sbiadito troneggiava, tra piccoli pulcini gialli, immobili spettatori di una Pasqua muta e calda, come un pesce agonizzante su una spiaggia dorata e deserta, gli ovetti colorati traballavano ad ogni spalancar di finestra, le foglie di olivo si stavano accartocciando prima ancora dello scioglimento delle campane…la Menorah era polverosa come l’ ex voto d’argento, per la par condicio, che mi era stata insegnata da sempre… ed aveva arrecato più danni della grandine….scoppiò all’improvviso il piccolo flacone d’acqua di Lourdes, stretto tra il piccolo uovo di fine cioccolato al latte ed un’immensa gallina di cencio….
Si è la Pasqua della paura, dell’ansia della voglia di fare tre passi in più per essere fermati, ammoniti…ma identificati come esseri umani e non da maiali in cassetta, dal futuro incerto di prosciutto economico…
Mi devo svegliare…alzarmi…farmi di caffè e biscotti buoni…guardare il telefono…accendere la televisione, anche se non son nemmeno le cinque del mattino, un mattino già tiepido e cinguettante di uccelletti rompipalle……
Tra repliche e filmacci, scopro un canale sconosciuto e famigliare che si allontana e si avvicina in un caleidoscopico frullare di immagini…un libro di poesie mai pubblicato per mancanza di soldi e d’amore verso me stessa, un viale di cipressi spettinati ed incombenti, una divisa verde bottiglia, prematura ed indispensabile, un vestito da sposa dai colori di una serra disastrata, i racconti strappati, le amicizie perse, quelle sbagliate, case senza luce, luci senza ombre, libri mai letti, occhi che non sanno guardare davanti, silenzi cattivi inconsapevoli del male che fanno…poi…poi…
Mi devo svegliare!!!!!
Spengere il “canale delle ferite” fare altro caffè, imburrare il pane appena tostato, spalancare le finestre, accarezzare il gatto, dargli cibo buono e goloso, accertarmi che i miei gioielli finti siano al loro posto, anche se un po’ ammaccati ci siano, mettere il mio profumo anche se forse non esco, metterlo per me, per farmi capire che lo merito anche oggi che, una televisione stronza trasmetteva le mie ferite, per renderle pubbliche…
Cambio colore di ombretto, indosso qualcosa di carino anche se mi va un po’ stretto, recito la solita preghieruccia striminzita, cerco i braccialetti più vistosi, gli anelli più grandi, cerco la voce di mia figlia su un telefonino che è piu acari, che numeri…. spengo la radio, ascolto le sue ultime parole ritmate da pause che… Stanislavskkiy insegna…NESSUNA FERITA È PER SEMPRE….
Scopro che lo sapevo già, rispondo a chi non c’è: ma fanno male, sa dottore, ad ogni cambio di stagione, ad ogni spintone, ad ogni …troppo freddo …troppo caldo…ad ogni abbandono, ad ogni ansia, ma ce l’ho quasi fatta, sa, a diventar vecchia, ad esser quella che sono, ad aiutare gli altri, a dare a prendere….ad avere figli, a restar dove sono, a non scappare….a scrivere senza vergogna, a non pagare per esser letta…a vivere con i miei fantasmi…che non mi fanno più paura, anzi mi hanno insegnato a dire grazie a chiedere scusa…. a cantare da stonata, a leggere da strabica….
Stacco la spina, per paura che si riaccenda da sola, la radio impiastricciata di marmellata d’ arancio, saluto in modo poco elegante il dottor…..cavolo ma come si chiama….Mo, More….poco importa, francamente me ne frego, indosso la mascherina ed esco…a portar fuori un cane che non ho…..
Veramente questa volta avrei poca voglia di parlare di ferite e imperfezioni, tutti argomenti degni di miglior disquisizione di quella che oggi mi sento di fare.
Sì perché ora mi sento sopraffatto da una vera e propria “inondazione”. . Ma se non piove. . dirà qualcuno. .
No. . l’inondazione non è fatta di acqua sconvolgente. . quella che sento io è sempre sconvolgente, ma è fatta di luce, splendore, colori che assordano, canti che ci trapassano melodiosi, e su tutto c’è la firma di Lei…di questa incredibile Natura che ora si manifesta in questo modo straripante, quasi provocatorio, sembrerebbe.
E una sera, nel mezzo crepuscolo con Venere che brilla quasi insolente ad Ovest, (“lo bel pianeta che d’amar conforta”…e qui la citazione ci sta). . una sera, dicevo, io questa Natura l’ho proprio VISTA.
Su un terrazzo abbandonato accanto al mio (proprietari Milanesi. . )era distesa su cuscini morbidi. . uno svolazzio di uccellini multicolori e iridescenti la circondava portandole doni, chi un chicco di grano, chi il nettare di un fiore, ognuno per la sua, appunto Natura.
E l’aspetto…già. . cosa mi sembrò di vedere nelle ombre che avanzavano. .
Una bella donna…non mi ricordo se nuda o splendidamente abbigliata, ma non importa.
Invece m’importa ricordare che la sua irresistibile bellezza era offuscata da qualche piccola contusione. . non sembravano gravi ma stonavano maledettamente su quel volto superbamente bello.
E infine il vento fischiando maliziosamente tra le siepi, alla fine portò melodiosa una voce.
Era la sua, , ne ero certo. E io ascoltai, allievo indegno ma rapito. Seppi della sua gloria e di come noi superbi e miserabili omuncoli l’avessero offesa e maltrattata, delle cicatrici che le avevamo inferto per la nostra ingordigia. . e di come lo splendore che era intorno fosse la sua risposta. . come a dire :”Io resto, piccoli nani presuntuosi, e guardate cosa posso ancora fare. . per voi…No, il covid non ve l’ho mandato io. . sono cose che si decidono molto molto più in alto. . e io non ne so nulla. . però so che è un avvertimento. . un invito a riflettere. Siete spaventati, eh? E sapete delle cinque estinzioni di massa del passato. . e vi chiedete con terrore se questa non possa essere la sesta. . Non posso rispondervi. Tenetevi la vostra angoscia. Io intanto generosamente vi do la Primavera, i fiori e la struggente dolcezza dello zefiro. . e ve la do gratis. . solo perché possiate riflettere sulla vostra insolenza. . e se vi riesce, cambiare il vostro mondo. ”
Questo mi parve di sentire nel crepuscolo di quella sera. . e forse il vento portava a me le mie stesse parole.
La testimonianza delle ferite – di Maria Laura Tripodi
Oggi si parla di ferite. Mi guardo allo specchio e le vedo nelle mie rughe. Mi sposto per casa e capisco che non sono agile, che le giunture scricchiolano e se provo a cantare la voce mi esce non limpida e un po’ stonata. Forse semplicemente è una voce stanca.
Eppure fuori c’è il sole. Provo a mettere su un CD di quelli vecchi con Cocciante che mi ricorda la disperazione e Battisti che mi istiga al rimpianto.
Mamma mia. Ho proprio bisogno di star male e mentre me lo confesso sorrido. Allora cerco il silenzio. Non quello intorno perché negli ultimi tempi di quello ce n’è in abbondanza. Ma no. Ho sbagliato. Quello non è silenzio, quello è pace, pacatezza, armonia. Quello che serve per l’ascolto.
No, parlavo di un altro silenzio, quello difficilissimo da trovare perché sta proprio in fondo in fondo, dove spesso è troppo scomodo frugare.
Chiudo le finestre, faccio tacere la musica. Mi sistemo nel mio angolino preferito e chiudo gli occhi.
Cerco lo spazio dei ricordi, proprio quelli più cattivi che continuano a graffiare nonostante la pelle sia diventata come di plastica.
E lì che devo cercare. All’origine dei dolori ci sono ferite forse insanabili, ma io ci sono affezionata. Sono il mio trascorso, sono tagli che hanno sanguinato e proprio per questo mi hanno costretta a guardare. E poi a cercare di fermare il sangue, disinfettare la ferita, curare giorno per giorno con amorevoli medicazioni.
Oddio, non sempre amorevoli.
A volte con stizza ho strappato le bende perché sentivo che sotto sotto la ferita produceva ancora e che le fasciature servivano solo a nascondere.
Quando si cade le ginocchia sono le prime a toccare terra. Prima sono state ginocchia di bambina poi di adolescente, poi di giovane donna.
Sempre sbucciature dolorose sullo stesso punto, prima che la ferita precedente si fosse risarcita.
Ma tutte le volte mi sono rialzata adattando la cura a seconda degli strumenti che avevo a disposizione.
Nel mio oggi, in questo silenzio che però contiene i piccoli, semplici rumori della quotidianità, io so che le mie ferite non sanguinano più, ma restano le cicatrici, testimoni sornione di quello che sono stata e di quello che mi hanno insegnato ad essere.
Sono anni che non veniva una primavera così , con un sole splendido e caldo, nel cielo non si vede una nuvola nel raggio di chilometri. Diverse volte nei giorni di Pasqua o nei ponti di fine aprile sono andata a fare girate al mare o in montagna e pioveva, era freddo, a volte ho trovato anche la neve!
Quest’anno, che dobbiamo stare chiusi nelle nostre case, di acqua, nuvole e freddo non vi è traccia.
Da un mese sono chiusa in casa, non pensavo di farcela. I primi giorni volevo uscire, poi quando era il momento di aprire la porta rinunciavo, perchè mi accorgevo che avrei sbagliato e una volta fuori mi sarei sentita fuori posto. I giorni passano, alcuni meglio altri non troppo bene, e siamo a sperare che questa situazione passi in fretta, pensando che tutto torni come prima, ma non credo sia tanto facile.
Eravamo sempre in giro, cinema, teatri, concerti, ristoranti, cene, viaggi, aerei, treni, ora nessuno si fida dell’altro, ci evitiamo. Quando siamo fuori con le mascherine non si respira,le mani dentro i guanti sudano, e chissà ancora per quanto tempo dobbiamo continuare ad uscire in questa maniera.
Nessuno poteva immaginare una cosa così devastante da mettere in ginocchio il mondo.
Tutto dorme in questo periodo, è tutto ovattato, ogni tanto si sente passare qualche macchina, l’abbaiare di un cane o il cinguettio di qualche uccellino, ma quando piano piano tutto si risveglierà riusciremo a vedere la vita in un’altra maniera, meno affannata e di corsa, o ritorneremo come eravamo? Io penso che, dopo un primo periodo, tutto sarà come prima perché l’uomo, purtroppo, si scorda quello che non vuole ricordare e ritornerà a fare gli stessi errori.
Nessuna ferita è per sempre la stessa – di Vanna Bigazzi
Mi è piaciuto molto il video di Morelli: “Nessuna ferita è per sempre” e condivido ciò che sostiene, trovandolo terapeutico anche se non radicalmente. L’allontanare le ferite, quasi non ci fossero mai state, o meglio ignorarle per volgere in positivo i nostri pensieri, non fa guarire le ferite. E’ ovvio che non dobbiamo farcene uno scudo per non progredire, cullandoci nella nostra infelicità e depressione ma non possiamo nemmeno dimenticarle (anche perché sarebbe irrealizzabile) volgendo in positivo i nostri pensieri e così, magicamente, guarirle. Sono convinta invece che queste si possano elaborare, attenuare e poi anche superare, riuscendo a non soffrirne più. Distogliere il pensiero da queste, per indirizzarlo verso ciò che ci piace e ci fa star bene, può risultare efficace come il “battere la mano sulla spalla” ad un amico che ti fa partecipe del suo dolore. Può invece essere utile non esasperarle, trattarle terapeuticamente o in alcuni casi anche da soli, purchè non ci facciamo, prima, fagocitare dall’abbattimento assoluto. Al confine fra la depressione e l’inizio della ripresa psicologica, esiste un piccolo interstizio, una lingua di terra di nessuno nella quale con l’intuito, l’intelligenza e la volontà propria dell’istinto di vita, possiamo accedervi anche se con sforzo e ricerca interiore. Se riusciamo a penetrarvi, lì scocca la scintilla, quello può essere l’inizio di una resurrezione. Condivido invece pienamente il concetto di Morelli relativo al “germoglio interiore” che ognuno di noi ha in sé e che deve coltivare e curare, perché fiorisca. Questo germoglio possiamo trovarlo proprio in quello spazio interstiziale, in quella terra neutra, non ancora coltivata ma neanche sterile, in quella possibilità che la nostra natura “creativa” ci ha messo a disposizione e che dobbiamo cercare di trovare, nonostante le avversità. Tanti anni fa, quando mi occupavo solo di terapia infantile, una mamma mi sottopose il caso della sua piccolina di soli otto anni, che poi ho seguito nel tempo (aveva subito un trauma in famiglia). Il disegno che la bambina mi propose è stata una delle più grandi lezioni di psicoanalisi che io abbia mai ricevuto. Nel disegno vi erano due immagini, tipo due foglie strette e allungate: una di un rosso vivo, l’altra di un pallido rosa. Vicino, ma separato, aveva disegnato un ago con la cruna e il filo inserito. “Vede signora” mi disse “queste sono ferite profonde, una è sanguinante, l’altra è chiara, non fa più male, ma quest’ago non può ricucirle, è anche inutile aver infilato il filo. Vanno lasciate stare, pian piano quella col sangue si schiarirà e non sarà più pericolosa. Credo non sia necessario commentare. Pensai: “Questa bambina diventerà una psicologa…” Ma mi sbagliavo, la ferita grave, pur col passare degli anni, ha lasciato il suo segno. Gemma, così si chiama la bimba ormai divenuta una ragazza, pur con l’aiuto necessario, non ha potuto intraprendere l’università, anche se le sarebbe piaciuto, perché la sua emotività, non certo la sua intelligenza, non glielo ha permesso. E questo è il punto cruciale (la ferita grave non può guarire, né può essere evasa.) Gemma è diventata una bellissima persona, attiva e capacissima nel suo lavoro, è felice con il suo ragazzo, ha molti interessi, programma viaggi e vuole crearsi una famiglia…
Mi piace trovare accanto al letto quelle vecchie ciabatte comode, che ciaff ciaff ciaff ciabatteranno dietro di me tutto il giorno, chiacchierone.
Mi piace fare la doccia subito la mattina, lasciare l’acqua calda che mi passi e ripassi addosso, mi accarezzi, mi lisci, mi renda lucida.
Mi piace trovare un po’ di caffè rimasto nella caffettiera dalla sera prima. Penso, prima di arrivare in cucina: “se trovo un po’ di caffè, sarà una buona giornata”. Se però non lo trovo, e faccio un caffè nuovo sono contenta del suo odore prepotente, fresco e antico, che arriva dappertutto e che è quello di tutte le nostre case, la mattina, e lo è sempre stato. E sarà una buona giornata, finché ci sarà caffè.
Mi piace sedere in terrazza, quando c’è solo uno spicchio di sole nuovo. Mi piace sapere che c’era anche di notte, il sole, aveva solo nascosto la faccia.
Mi piace questo silenzio. La quiete. Nel frastuono non da’ fastidio nulla. Nel silenzio ogni cinguettio è un’opera sinfonica. Si sta attenti a non perdere un trillo, sembra cinguettato per te.
La quiete rende tutto immobile, una brezza leggera la colora.
Mi piace leggere. Mi piace distrarmi. Ripensare, pensare ad altro. Poi tornare e riannodare i fili della storia interrotta.
Mi piace lasciar dormire chi dorme. Mi piace chi dorme. Mi piace chi si sveglia e mi abbraccia.
Mi piace disegnare, perché non sono capace, ma è una magia scoprire che proporzioni sempre uguali, formino facce così diverse. Mi piace disegnare donne. Con tanti capelli e vestiti fatali o nude, raggomitolate.
Mi piace cucinare cose divertenti. Verdure colorate, pomodori, carote, piselli. Mescolare frutta, azzardare insalate. Fiera, quando non avanza nulla.
Mi piace scrivere, mentre sto facendo altro. Rincorrere pensieri, vestirli di parole giuste. Non parole per piacere, ne’ per fare effetto. Che ci sia un motivo per riempire queste bellissime pagine bianche. Non servono parole di paura, di rabbia o di disperazione. Se il cuore è pieno di tristezza, la cura è cercare il buono ed il bello, e che ci piaccia così tanto da spiaccicare il resto. E portarselo negli occhi, per un’ora, un minuto, una notte, per sempre. Dentro agli occhi.
Mi piace guardare negli occhi.
Paolo ha gli occhi verdi. Come quei coccodrilli al sole, con le palpebre abbassate a metà su occhi che sembra guardino solo davanti. Mai fidarsi, pensare che non ti veda. Ieri lo guardavo da vicino. C’ero io tra lui ed il sole, ed ho scoperto che ha occhi più chiari, ora sono forse verde mare, addirittura sull’azzurro. Può essere la vecchiaia, o la vista calata, o che fossero occhi dolci, per me. La Franci ha occhi d’oro, Ricca gli occhi della mia mamma. Ci siamo mescolati, nei loro occhi. Sono andati per il mondo con loro, i nostri occhi, hanno visto nascere bambini .
Per ricorrente intendo che sono tanti anni che a volte ritorna e io lo riconosco.
Più che un sogno è una situazione e uno stato d’animo con varianti via via diverse.
Sono oggi da adulta in casa dove ho trascorso la mia infanzia, con i miei genitori ancora giovani.
Sono stata lasciata da un qualcuno che amavo, mi sento sola, vorrei telefonare a della amiche per sentirmi meno abbandonata ma non trovo i numeri di telefono. E non trovo neppure il telefono. Lo cerco affannosamente ma non lo trovo.
Lo stato d’animo è sofferenza, abbandono, solitudine e fortissima impotenza.
Forse sono ferite del passato che non riuscendo a farsi ricordare nel presente si insinuano nel sogno.
Le sensazioni sono così forti e vere che è come se vivessi un’altra vita.
Poi mi sveglio e sono sollevata di essere in questa.
Mi faccio un caffellatte caldo con tanti, tanti biscotti.
Adoro il caffellatte, adoro il caldo e adoro i tanti biscotti.
Me li gusto tutti e mi dico: io sono qui e sono questa!
Sono meno di cinquecento passi. Li ho percorsi stamani, uscita prima delle otto per andare al forno a comprare il pane e poche altre cose. Un viaggio, con mascherina soffocante e guanti di gomma, vissuto passo dopo passo gustando l’aria fresca, il canto sottovoce di migliaia di uccellini felici e mentre il respiro si faceva difficile per tutti quegli ostacoli sulla bocca e sul naso ho alzato gli occhi su un cielo pallido e azzurro, indisturbato dalle nostre paure e follie. Ho assaporato ogni piccolo pezzo di quel percorso, lentamente, come se ogni passo fosse il primo e l’ultimo di tutta la vita. L’asfalto sconnesso, i piccoli sassi sparsi, la rete del giardino del centro Tecnico di Coverciano con i suoi prati, al di là, verdissimi e soli. La siepe di leccio altissima, ancora ben pettinata e i merli che zampettano sul bordo dei campi di calcio deserti, il fresco piacevole che sfiora quel poco che rimane scoperto del viso. Ho pensato alle musulmane con il chador, al caldo che verrà, alle mattine pulite e ignare di solo poche settimane fa, alla vita che scorreva affannata, scaraventata ora nell’angolo dei miraggi. Dicono “passerà” ma non so se ce la farò io a vederla passare, se sarò in tempo a ritrovare i miei bambini che crescono senza di me, se questi cinquecento passi, che diventano mille andata e ritorno, potranno tenermi sveglia e viva per un futuro che già era diventato corto e incerto di suo. Torno indietro con una spesa parca eppure preziosa, conquistata, conto gli ultimi passi e ho paura a rimanere ancora fuori, appoggio appena lo sguardo sullo scivolo dove giocavo incosciente con i miei bambini, lo scivolo vuoto, muto, terribilmente triste che non voglio guardare e giro l’ultimo angolo di questa doppia L che è diventata i miei 10 minuti di aria e rientro in casa come fossi braccata da qualche mostro invisibile. Torno, chiudo, aspetto. Un altro giorno comincia.
Se io fossi le mie ferite sarei prima di tutto un “Codice 048”, quello che la mia dottoressa scrive in alto a sinistra sul ricettario regionale quando mi prescrive una semplice analisi del sangue.
Le cicatrici ci sono, eccome. Due melanomi ed un epitelioma, altri tre nei sospetti, tolti prima che diventassero pericolosi, me ne hanno lasciate. E perdonatemi se parlo delle cicatrici “di ciccia”, perché lo sappiamo, sotto la ciccia c’è l’anima, e tutto il resto.
Per la ASL sono una malata di cancro, ma per me?
Ricordo la mia delusione quando, diversi anni dopo aver tolto il secondo melanoma, tutta raggiante mi presentai al centro prelievi dell’Annunziata per ricominciare a donare il sangue, come facevo da giovane. L’infermiera mi accolse con un bel sorriso, mi fece le prime domande, iniziò a riempire il modulo; “beh, è un po’ magrolina… ma ci arriva a 50 kg?” E io, un po’ barando “Sì, sì, più o meno…” e dopo: “Malattie importanti?” “A parte due melanomi dai quali sono perfettamente guarita…” Non mi fece neanche finire. Poggiò la penna sul tavolo, spostò il modulo e cambiò completamente espressione: “Vede, signora, ci credo che lei sia perfettamente guarita, ma per noi lei rimane una paziente oncologica, e come tale non può più donare il sangue.” Mi alzai senza dire nulla e uscii dalla stanza a testa bassa. Avevo voglia di piangere. Io non mi sentivo affatto “una paziente oncologica”. Dentro di me lo sapevo di essere perfettamente guarita. Non so che cosa mi abbia fatto più male, in quel momento: se mettermi davanti a me stessa con quella etichetta stampata addosso, nella quale non mi riconoscevo affatto, o pensare di essere vista dalla società, dal mondo esterno, come tale. Un po’ come Gregor Samsa, che nella “Metamorfosi” di Kafka si sveglia una mattina e nel suo letto scopre di essere diventato uno scarafaggio. Ecco, io non ho mai, ma proprio mai pensato né sentito di essere diventata uno “scarafaggio”. Non ho colpa della malattia che mi è arrivata addosso ad appena 33 anni. So però che da qualche parte una spiegazione c’è a questo “inciampo”: nelle maglie della mia storia familiare, nello spazio che si dilata, nel tempo che è circolare e torna su sé stesso, da qualche parte c’è, e forse un giorno ci arriverò. Ma nel frattempo? Non posso fermarmi a quelle cicatrici. Cerco di vivere nel mio “qui e ora”, del quale sono l’unica responsabile. Perché sono io che decido quali colori usare per dipingere il mio presente. Quello spazio creativo perenne è dentro di me, lo sento aperto, vivo, esplorabile, conoscibile. Mi ci addentro e mi ci lascio fluire, e da là tutto osservo, accarezzo, contemplo, senza mai dire “è mio.” E mi sento libera.
Sono sull’autobus, sono le quattordici, sto andando al lavoro.
Ho un grande peso sul cuore.
Ieri il mio compagno ha preso parte della sua roba e è andato in un appartamento a vivere da solo, si è innamorato di un’altra.
Riflessioni, dubbi, domande, dove ho sbagliato, sentirsi inadeguata, brutta.
Questo pensare mi manda in tilt il cervello, mi fa male persino pensare a quello che ho da fare oggi pomeriggio, sento che non devo e non posso per ora più pensare, decido di spezzare il mio riflettere.
Inizio a focalizzare lo sguardo su tutto quello che mi circonda, su le persone che sono intorno a me, dal finestrino il sole illumina tutto, sul bordo della strada i fiori di campo formano piccole macchie di colore.
Ecco la casa cantoniera, abbracciata nei sui tre lati dalla terra della collina, ha un piccolo giardino sul davanti.
Alla fermata sale una signora dai capelli rossi.
Continuo a guardare le case, dalla loro forma architettonica cerco di individuare il periodo in cui possono essere state costruite, le persone sui marciapiedi le guardo le scruto, salto velocemente da un’immagine all’altra, questo guardare mi allontana la sofferenza che ho nel pensare.
Sono arrivata a lavoro, incontro alcuni miei colleghi, mi sembrano che tutti loro siano felici, lavorare mi fa stare meglio.
Il contatto con i clienti, il parlare con loro, i loro sguardi mi fanno sentire bene, il cuore mi diventa più leggero.
Ascoltiamo bene questo video. Contiene molte parole “scintilla”….ognuno può trovare la sua!
Raffaele Morelli
Una scintilla può essere ALTROVE.
Oppure IMPERFEZIONE
Oppure FERITA (ma nessuna ferita è per sempre)
Oppure RICORDO.
Mi piace l’idea di Morelli per cui I BUONI RICORDI SONO QUELLI PER IL FUTURO, quelli cioè che danno luce nuova e buona sul presente.
E ancora:
I ricordi buoni non sono quelli che ci tengono legati alle nostre ferite, ma sono quelli che ci danno indicazioni positive per vivere meglio il presente.
Non ho avuto bisogno di allontanarmi troppo, l’ho trovata lì, a due passi da casa mia, l’ansa del fiume dove mi sono fermata e ho teso la canna in attesa di una storia.
Ho pescato quella di una casa a due piani e dei suoi abitanti.
La casa è all’interno di un cancello verde, al centro di un piazzale di ghiaino, la vedo dalla mia finestra.
Intorno al piazzale aiuole con rosi, ranuncoli gialli e un albero di pesco.
La porta d’ingresso è dalla parte opposta al cancello e dalla strada si vedono solo le finestre, le stesse sopra e sotto.
La casa fu abitata da due fratelli, ciascuno con la propria famiglia, moglie e un figlio maschio il più anziano, moglie e una figlia l’altro.
L’appartamento di sopra si diversifica dal sotto per una veranda che sporge verso il fiume sul confine, è quindi leggermente più grande oltre che più luminoso .
Ed è forse perché più grande che insieme al figlio minore abitava la mamma dei due.
Oltre la casa si estende un grande appezzamento di terra diviso a metà, il confine è segnato da un filare di viti.
Appena ho abitato la mia casa vicino alla loro, soprattutto a primavera e in estate , seduta sul terrazzo ho iniziato a conoscere i due fratelli che, al ritorno dal lavoro, si fiondavano nel campo a fare l’orto o la vigna.
Anche le rispettive mogli uscivano di casa nel tardo pomeriggio e anche loro zappettavano per abbellire una parte del campo con vasi di fiori.
Dei loro figli, cugini con poca differenza di età, ricordo le voci melodiose, entrambi avevano il dono di saper cantare come usignoli.
L’armonia che si respirava osservando quel brulichio di persone laboriose mi teneva compagnia.
Un giorno, lo ricordo caldissimo, ero nel bagno a farmi i capelli, quando fra il rumore continuo del phon sentii un gran movimento di ghiaia spostata e grida.
Ebbi l’impressione che qualcosa di grave stesse accadendo e non resistetti dall’affacciarmi alla finestra.
Fu un attimo ma in quell’attimo riuscì a vedere il fratello maggiore che, con un forcone in mano, rincorreva la cognata e lei strillando e correndo cercava di salvarsi infilandosi nella porta di casa.
L’immagine mi terrorizzò.
Non ho mai saputo qual era stata la miccia che aveva innescato tanto fuoco.
Seppi poi da confidenze ora dell’uno ora dell’altro che le divisioni degli appartamenti con annessi aiuole, marciapiedi e terreno non li trovava d’accordo e mai li trovò.
Per anni abbiamo sentito grida, si sono visti arrivare carabinieri più volte in protezione di chi si sentiva attaccato, finché il fratello del piano di sopra si è trasferito e l’appartamento è stato affittato.
Il più anziano ha trovato così la sua pace o per lo meno sembrava ed ha continuato a trascorrere ore in quel campo lavorando l’orto e la vigna; regalava con piacere a noi vicini insalata, zucchine e pomodori freschi in cambio dell’attenzione ai suoi sfoghi.
Era un buon uomo, affettuoso e generoso ma quelli che lui sentiva soprusi gli facevano scattare una rabbia furibonda, incontrollata.
Eppure tante sere d’estate, soprattutto dopo la morte della moglie, mi ha fatto compagnia appoggiato alla rete di recinzione guardandomi annaffiare e impartendo consigli su come curare le piante.
Io lo ascoltavo, era davvero sapiente in questo.
Poi si è ammalato e le forze per lavorare il campo lo hanno lentamente abbandonato.
Mi diceva “chi sa che ne sarà di tutto questo quando io non ce la farò più!”
Aveva ragione. Dopo la sua morte ho visto il degrado di quella casa e del terreno intorno ed ho rivisto il fratello che ha messo in vendita il suo appartamento
Era bello andare sul molo al tramonto e vedere tutti quei pescherecci che partivano per andare a pescare. Mentre passavano alcuni pescatori ci salutavano e si allontanovano piano piano finchè non scomparivano laggiù dove pensavo che finisse il mondo. Erano tanti e grandi, poi in mezzo c’era qualche barchetta piccola che pensavo dovesse affondare da un momento all’altro. Tutte le barche avevano 2 o 3 reti che venivano buttate giù e ritirate su con una manovella e questo era il lavoro per tutta la notte. La mattina all’alba, quando rientravano, in faccia ai pescatori si poteva leggere o l’emozione o la disperazione in base a come era andata la pesca.
Era bello vedere scaricare le cassette di piene di pesce fresco, alcuni erano ancora vivi e a volte sento ancora il sapore di quel pesce che ora non riesco più a trovare.
Una volta un pescatore molto anziano ci raccontò che per fare quel lavoro ci vuole molta passione, ma anche competenza perchè bisogna conoscere i venti, le correnti e spesso si parte con l’idea di andare in un posto, poi durante la navigazione si cambia rotta perchè non è possibile.
La sua vita era stare sotto le stelle a cielo aperto con la brezza del mare in faccia in attesa che sorgesse l’alba, ma a quell’età non lo poteva più fare.
In tanti anni passati in mare ho sempre detto: -Vado a pesca e non vado a lavorare –
Ditemi, l’avete più visto l’Arno in questi tempi di quarantena ?
Il colore dico ! Un colore pulito, trasparente come mai l’avevo visto.
E l’aria ? Avete respirato quest’aria incredibilmente nuova, pulita, tersa, fresca in queste giornate limpide piene di sole.
LO SO, NON SI PUO’ USCIRE !
Ma vedere una Firenze meravigliosa, bellissima, con le sue strade a misura d’uomo deserte, libere da qualsiasi nevrosi, dove ci sono solo i cani che portano a spasso i loro padroni con la museruola, dove la poca gente vuole assaporare l’ebrezza di camminare nel mezzo di strada in questa assurda domenica dove regna un silenzio irreale, rotto soltanto dalle sirene delle ambulanze che ci ricordano la terribile realtà che stiamo vivendo.
Beh, tutto questo mi fa pensare che la NATURA, stufa di tutte quelle false promesse di quegli omuncoli che si credono onnipotenti , ha detto BASTA !!!
Ci ha fatto capire che ci può distruggere con un nulla che nemmeno si vede, una semplice, maledetta influenza.
La puoi deturpare quanto vuoi, la NATURA vince sempre e la sua potenza è devastante.