Piovoso fuori e semibuio dentro. O almeno così mi era sembrato il percorso per arrivarci.
Forse ad essere buia era la preoccupazione di non riuscire a nascondere la mia paura di essere un giorno io ospite e non visitatrice.
Il salone era ampio e molto luminoso. I finestroni erano chiusi, ma all’esterno si poteva intravedere un terrazzo molto ben curato dove in primavera, immaginai, i vecchietti sarebbero stati portati a bere un po’ di sole.
Tentai con qualcuno di loro un timido approccio.
Difficile.
Mi guardavano senza capire e in quegli sguardi mi sembrava di leggere lo smarrimento di chi non riesce a ricordare.
Io ho sempre pensato che dentro a quelle menti vecchie e stanche vi fosse il segreto di chi capisce tutto ma non è più in grado di esprimerlo.
Per questo, analogamente a come faccio con bimbi molto piccoli , parlo come se tutte le mie parole arrivassero chiare e limpide nel loro pieno significato. Non si sa mai.
A un certo punto l’ho vista e ho avuto la sensazione che avesse captato il mio pensiero.
Era seduta in maniera piuttosto scomposta su una sedia a rotelle. Il capo leggermente riverso all’indietro e piegato sul lato sinistro. Le mani tenute l’una sull’altra quasi in un gesto di raccoglimento. Aveva gli occhi semichiusi, ma dava la sensazione di seguire quello che accadeva intorno.
Quello che mi colpì di lei era un qualche sentore di eleganza e leggiadria. E poi i suoi capelli: neri.
Qualcuno doveva aver soddisfatto una sua richiesta e io pensai che quella doveva essere stata una donna che aveva tenuto molto al proprio aspetto.
Chiesi chi fosse.
Una ballerina.
Ah ecco.
Porto sempre con me un taccuino e una matita. Di getto ho abbozzato un ritratto, come per imprimere bene nella mia mente lineamenti che non fossero solo fisici, ma che rappresentassero un’emozione.
Non ho mai parlato con lei. Mi sono limitata ad osservarla e sono quasi certa che lei abbia fatto altrettanto.
L’ho ritrovata stamattina su una pagina di giornale.
Era una persona famosa ed è morta da sola a 102 anni.
Attrice, ballerina, modella. Aveva posato per la statua che si trova alla stazione, di fronte al Palazzo dei Congressi.
Non l’ha portata via il corona virus. Si è semplicemente addormentata.
Addio Vittoria. Le nostre vite si sono incrociate solo per un attimo, ma la mia matita ha tracciato un ricordo di te che mi accompagnerà per lungo tempo e non solo sul mio taccuino.
Forse nei tuoi occhi semichiusi avevo letto un messaggio che parlava di gioia di vivere.
Ho paura della solitudine che non scelgo. Mi fa pensare al tempo che passa e mi rivedo sola in casa in attesa che qualcuno si ricordi che esisto e mi faccia sentire viva. E’ vero che la tecnologia va avanti e, nonostante tutti noi cerchiamo di essere connessi con il mondo, ci sentiamo sempre più soli. La presenza umana non può essere sostituita. Quando invece vado a fare una passeggiata sto bene anche sola, riesco a concentrarmi sui profumi, sui rumori, sul paesaggio e le emozioni sono più forti.
Uniche…… in un’immensa solitudine – di Carla Faggi
Quand’ero ragazzetta, non bimba ma neppure ragazza, passavo la villeggiatura di luglio al Sasso di Castro, vicino al Passo della Futa con i miei zii e i miei cugini.
Una sporgenza del Sasso vista dal basso sembrava il profilo di una donna, veniva chiamata “La Bella”.
Si poteva raggiungere con un sentiero oppure scalare dalla parte scoscesa.
Incredibile a dirsi e a ricordarsi ma io la scalavo!
Si, proprio io, quella che non corre, che non scia, che nuota così e così, quella che non ha mai amato le avventure di tipo fisico, proprio io, quella paurosa, quella previdente, scalavo “La Bella”!
Non so perchè e non so come ma me lo ricordo!
Ero io e la roccia, uniche nella nostra immensa solitudine.
Amavo anche andare con i cugini e gli adulti in cima al Sasso in questo caso passando per i sentieri.
C’erano le mucche a pascolare. Quando le ritrovavo alla stalla e gustavo il loro buon latte crudo capivo perché era così buono. Perché facevano una bella vita, passeggiavano, brucavano l’erba, erano tutte insieme ma godevano della loro immensa solitudine.
Sul Sasso al ritorno spesso c’era la possibilità di raccogliere le fragole, erano dolcissime, piccole e tante. Così diverse da quelle coltivate che mangiamo oggi. Erano buone anche perché facevano una bella vita, godevano del calore del sole e della freschezza delle alture. Erano tante, non si sentivano sole ma erano uniche nella loro immensa solitudine.
Passavo dei bei mesi di luglio al Sasso di Castro, in compagnia dei miei cugini ed dei tanti ragazzotti dei vicini.
Ma potevo restare sola se volevo, passeggiavo, appunto scalavo confrontandomi con la mia audacia, leggevo e sognavo, forse immaginavo che al di là del muro della villa vicina c’era un principe triste, magari un po’ tisico: stava aspettando il bacio di una bella e audace principessa così lui guariva e diventava felice.
L’avevo sempre vista lì a quella finestra, ogni volta che arrivavo in macchina o a piedi mi salutava e scambiavamo due parole. All’inizio era attiva, usciva con le amiche, faceva volontariato, ma via via che il tempo passava le cose da fare diminuivano e si lamentava. Quando la incontravo fuori avevo paura che potesse cascare perchè la vedevo sempre più incerta su quelle gambe che erano state belle e forti.
Un giorno mi fece entrare in casa, mi disse che sua figlia aveva deciso di metterla in una residenza assistita. Io rimasi malissimo, mi iniziarono a scendere le lacrime e provai a dirle: – Ma non poteva rimanere a casa con una persona che potrebbe venire qualche ora? –
– No se lei ha deciso così, va bene. Lei ha la sua famiglia e non voglio essere di intralcio -.
Poi mi portò in giro per casa chiedemdomi consiglio di cosa poteva portarsi, facendomi vedere il suo corredo, e tutto quello che aveva di più caro, questo feceva capire il grande dispiacere che provava nell’abbandonare la sua casa. Quando uscii da quella casa avevo rabbia mista a tristezza, non ci potevo credere che ad un genitore si potesse fare una cosa così, senza che fosse d’accordo e considerando che non aveva perso la testa.
Io da quel giorno non l’ho rivista, perchè non ho mai avuto il tempo di andare a trovarla, ma i primi tempi che vedevo la finestra chiusa provavo un senso di vuoto e la pensavo.
Dopo qualche anno se ne andò e, in questo periodo che non si parla altro che di case di riposo e di persone che se ne vanno, ripenso a lei e a tutte quelle persone anziane chiuse in queste strutture, senza vedere un figlio, un nipote, senza camminare, molti non capiranno cosa sta succedendo, ed anche per i parenti che hanno notizie ogni tanto, senza sapere se saranno veritiere, deve essere un incubo. Queste persone spariscono dalla vita in piena solitudine e non aver potuto stare accanto a loro per me sarebbe stato un dispiacere incolmabile.
La neve aveva iniziato a cadere copiosa appena era scesa dal treno. Si accumulava già sui finestrini appannati del bussino che si arrampicava su per i tornanti, che dalla stazione di Camucia e dalla piana del Valdarno conducevano a Cortona. Era scesa proprio in cima al paese, alla fermata davanti alla chiesa di Santa Margherita, dove solo pochi mesi prima aveva assistito con tanta commozione alla cerimonia di consacrazione della sua amica Cristina, che ora si chiamava Suor Chiara. Le aveva fatto una certa impressione vederla lì, sdraiata sul pavimento della chiesa, a faccia in giù, davanti all’altare, nel momento culminante del rito. Avrebbe voluto stendersi con lei, in quel momento, tenerle la mano o sussurrarle qualcosa all’orecchio, per tranquillizzarla. Sapeva che l’emozione sarebbe stata fortissima, nonostante la sua incrollabile fede.
Si ricordò la sorpresa che aveva provato quando, sedute sugli scalini della chiesa del quartiere, in un pomeriggio di ritrovo del gruppo, dopo la maturità, le aveva chiesto quale facoltà universitaria avrebbe scelto: “Io mi iscrivo a Lingue, non so ancora quali sceglierò, forse tedesco e inglese, tu ci hai pensato”? E lei, che era seduta un gradino più sotto, girò la testa, spostò di lato la treccia rossiccia e con quegli occhi grandi e azzurri come il cielo, mentre le guance le prendevano colore disse, con semplicità: “Sai, Laura, non farò l’università. Per me è chiaro, da tanto tempo. Seguo il cammino di Cristo, mi consacro alla preghiera. Entro in clausura.” “Come, in clausura?” “Sì, ti ricordi quel monastero a Cortona, dove siamo state per gli esercizi spirituali con don Icilio … ci sono tornata, ho parlato con la Madre superiora, ho passato qualche giorno insieme alle sorelle, mi sono sentita a casa, con loro. Voglio consacrare la mia vita alla preghiera, perché anche così si aiuta l’umanità a crescere, a guarire, a migliorare. Anche così si può essere vicini, anzi, ancora più vicini, perché non ci sono distrazioni o interessi individuali, si può entrare in comunione attraverso Cristo, ed essere uniti in maniera autentica. O almeno, ci voglio provare, a farne la mia vita. Ti ho sconvolta? Non te l’aspettavi?” No, Laura non se l’aspettava, proprio per niente. Non vedeva, fino a cinque minuti prima, cosa ci fosse di diverso fra la propria fede, che comunque la proiettava nel mondo, dove voleva studiare, trovare un lavoro, farsi una famiglia, e quella di Cristina, che invece dal mondo voleva apparentemente isolarsi. Le sembrava che i loro cammini spirituali fino a quel momento fossero paralleli, vicini, destinati a sorreggerle nel cammino della vita, affiancandolo. E invece no. Per Laura fu come scoprire la faccia nascosta di una persona che pensava di conoscere bene. Un po’ come quando si scopre che l’altro, che credevi provasse le tue identiche emozioni, invece ha un’amante.
Nemmeno un paio d’anni erano passati da quel momento. Le sue scarpe lasciavano un’impronta evidente mentre percorreva le stradine deserte di Cortona, coperte di neve. Non c’era nessuno in giro. La luce si faceva via via più debole, lasciando il cielo sempre più grigio, uniforme, triste. Laura arrivò davanti alla porta del Monastero di Santa Chiara avvolto dal silenzio. Sentiva solo il battito del suo cuore e il rumore del suo respiro un po’affaticato per la salita e il peso della piccola valigia. Il bianco della neve rifletteva quel poco di luce che ancora proveniva dal cielo, quasi la volesse assorbire avidamente per l’ultima volta. Si fermò un attimo prima di tirare la cordicella della campana, che avrebbe annunciato il suo arrivo. Aveva bisogno di concentrarsi su sé stessa, di ricompattare quei frammenti di sé che da mesi vagavano disordinatamente dentro di lei e non la facevano sentire serena. Anzi, molto confusa e a tratti angosciata, persa. Non aveva ancora vent’anni e la fine di quella storia d’amore proprio non le andava giù. Aveva pensato di arrampicarsi fin lassù, al Monastero, per rimanere qualche giorno e andare fino in fondo a quella nuova solitudine, che non voleva né sapeva accettare. “In un luogo così, dove il silenzio e la solitudine sono l’essenza, devo riuscire per forza a capire!”-aveva pensato risoluta. Ma mentre tendeva la mano alla cordicella provava solo un senso di vuoto nello stomaco e un groppo alla gola mentre le lacrime erano pronte a sgorgare. Tuttavia fece un bel respiro e lasciò che il peso del suo braccio facesse il resto. Il suono argentino della campana le fece rialzare la testa e proprio mentre la porta si socchiudeva e una voce gentile la invitava ad entrare, un delicato sorriso le illuminò il volto. “Venga, lei deve essere Laura” – le disse una voce dolcissima, senza riuscire a vedere da chi provenisse. “Cristina La sta aspettando nel parlatorio.” “Cristina, non suor Chiara” – pensò Laura istintivamente. E’ ancora la mia amica. E si sentì anche lei un po’ a casa.
Quando finalmente “sarà un altro giorno” – di Nadia Peruzzi
Il quadro era appeso sulla sinistra in una sala immensa che ne conteneva tanti altri.
Lo aveva visto tradotto su carta più o meno patinata ma trovarselo li davanti era tutta un’altra storia. Ne aveva già visti molti quella mattina, in quel tempio che concentrava testimonianze altissime dell’arte pittorica di tutti i tempi. Ci arrivò che era anche un po’ stanca. I sensi appannati, come la volontà di procedere oltre. Il torpore che sentiva prender campo dentro di sé, dovuto anche al caldo, stava rischiando di avere la meglio volgendosi in disinteresse.
“Questi grandi musei, si disse, a volte si traducono in vera faticaccia da gara di resistenza. Si parte bene, con i sensi al massimo per finire stremati e confusi per la quantità di suggestioni, emozioni, stili, nomi, storie da immagazzinare e catalogare nel proprio archivio personale. ”
Se lo trovò davanti quasi per caso. Aveva sbagliato a girare a destra e si era trovata in un secolo che era uno scarto rispetto a quello che aveva appena lasciato. Ecco lì “Bagnanti ad Asnières” di Georges Seurat!
Lo vedeva per la prima volta e ne fu conquistata. Non sapeva nemmeno dire perché . Forse per la tranquillità che riusciva a trasmettere o forse per la luce di quel pomeriggio assolato che scolpiva figure e paesaggio e si rifletteva sull’acqua del fiume. Forse per l’insieme di natura, operosità umana scandita dalle fabbriche in lontananza e la sensazione di imprevedibile necessità di fermarsi e prender fiato di fronte al bello, arrivando a spogliarsi per godere di ciò che la natura offre e spesso trascuriamo.
Non riusciva a staccarsene.
Girò per la sala e finì per tornare a fermarsi lì davanti. Entrò nella sala successiva ma sentendosi come il polo di una calamita che in cerca di quiete aveva bisogno di ricongiungersi col signore e padrone dei suoi movimenti. Ogni riferimento era perso. L’amica che era con lei, sparita in chissà quale sala. Ad ogni giro le sembrava che anche le persone attorno a lei diminuissero di numero.
Eccolo l’attimo magico in cui cuore e mente si prendono per mano e ci si ritrova, in perfetta solitudine, a tu per tu con l’infinito. Anche la luce sembrò smorzarsi dietro le sue spalle per concentrarsi a illuminare solo ciò che i suoi occhi stavano guardando. Una mano invisibile sembrava la stesse per trascinare su quel greto erboso dando concretezza al sogno ad occhi aperti che stava vivendo.
La riscosse il brusio di una famigliola che le passò accanto senza dedicare grande attenzione al quadro.
Se ne dispiacque quasi. Si voltò di scatto trovandosi immersa in una folla che non aveva percepito. Dovette sedersi per vincere il senso di lieve vertigine. Con calma si riprese mentre ripensava alle altre volte che aveva provato una simile sensazione. Che fosse in compagnia o meno, quel click era scattato in contesti diversi, per suggestioni e stimoli che erano riusciti a unire ragione e sentimento in un tutt’uno che l’aveva trasportata per un attimo più o meno lungo a superare la barriera dello spazio e del tempo.
Con commozione e un gran peso sul cuore si era immaginata vestita di stoffe grezze e pelli insieme i Druidi che si aggiravano per i loro riti in mezzo alle pietre di Stonehenge, in un piovigginoso e brumoso pomeriggio trascorso nella campagna inglese.
Divisa per abiti e atteggiamenti si era vista di fronte alla incombente facciata del duomo medioevale di Bamberga e a passeggio nel giardino della Residenza cinquecentesca dei Vescovi principi a meno di cento passi di distanza sulla gran piazza che le ospitava entrambe. Dal belvedere sulla città aveva visto scolorire i palazzi del presente e affiorare le casupole e le costruzione di allora che avrebbero dovuto indurre a limitare il raggio del pensiero e dell’azione e invece era chiaro che l’intenzione era stata quella di voler parlare al mondo e in chiave universale.
L’aveva provata ad Urbino in quel palazzo così grande da ricomprendere tutto il territorio della Signoria, di fronte alla Città ideale di Laurana.
Più spesso nella sua città ogni volta che si trovava a passare in quell’intreccio incredibile di meraviglie che era Piazza del Duomo. Gli artisti che le avevano costruite e adornate avevano menti eccelse, come i loro committenti. Avessero dovuto progettare e programmare per l’accrocchio di casupole e vicoli malsani non avrebbero osato varcare la linea del possibile per osare di giungere a realizzare, provando e riprovando, addirittura l’impossibile.
A volte la capacità di astrazione dal presente la portava a mettersi in dosso gli abiti di quella storia per aggirarsi in quei luoghi riuscendo a scorgere le impalcature e la miriade di maestranze al lavoro. Se chiudeva gli occhi le pareva di sentire le loro voci. e gli ordini che veniva dati di volta in volta.
Qualche volta il rapimento era capitato di fronte a fenomeni naturali . Era con suo marito e sua figlia a Mont Saint Michel . La marea era arrivata con la sua forza sconvolgente e aveva messo in discussione ogni suo pensiero e ogni sua certezza. In quella forza, in quella potenza pacifica ci si era perduta per un lungo momento. Sia che la vedesse arrivare scivolando luccicante dalla linea dell’orizzonte per riconquistare man mano lo spazio perduto, sia che fissasse un punto in basso, non distante dai suoi piedi. Era schiacciata, intimorita da quella inesorabilità che risvegliava paure ancestrali . La fragilità della condizione umana messa a nudo, da consapevolezza era diventata un artiglio che stringeva la gola e toglieva il fiato. Per fortuna erano arrivate la mano di sua figlia a sfiorare le sue e le parole stupefatte di suo marito a farle recuperare tutta la lucidità che per un attimo si era smarrita.
Il dopo l’aveva lasciato sempre sconcertata e per un bel po’. L’astrazione la portava via da chi le stava accanto. C’erano emozioni che viveva e aveva vissuto in solitudine. Era un dato di fatto. Lo era sempre stato. Era un moto del suo essere a condurla in quella dimensione, ma la solitudine non la considerava lo stesso una compagna.
Ci si immerge volentieri adesso dopo una giornata passata con i nipoti, ovviamente esigenti e desiderosi di tutte le attenzioni.
Ci si era immersa ai tempi dello studio, quando non ce n’era per nessuno, perché la sua cifra era sempre stata la costanza e la fatica più che il prendere le cose al volo, lasciandosele anche scorrere un po’ dietro le spalle. Aveva sempre preso di petto il mondo, lei. Forse sbagliando, ma era andata così e tutto sommato non le era dispiaciuto.
Le piaceva rincorrerla quando sentiva il bisogno di ritrovarsi perché aveva smarrito un po’ delle sue coordinate abituali e si scopriva spiazzata e più fragile. Era una condizione naturale quando si voleva dedicare alla lettura e alla scrittura
Andava bene se la sceglieva e quando la sceglieva le era capitato di coccolarla pure per un momento.
“Ma l’ode alla solitudine no. Non ho nessuna voglia di cantarla. Devo esser sincera con me stessa. Anche adesso che sono qui e sto scrivendo e sento che mi piace e mi fa bene, ” si disse.
Avrebbe voluto sentire suo marito muoversi in una delle altre stanze, magari mentre in sottofondo arrivavano le notizie del TG. Avrebbe voluto far l’elenco mentalmente di quelle da commentare con lui preparando la colazione e prima di immaginare e organizzare le cose da fare nel pomeriggio.
Invece sapeva di dover fare i conti con le tenerezze che le mancavano, come le mancavano gli sguardi che avrebbe voluto su di sé come donna e non come nonna, madre, suocera o amica.
Su tutti questi ruoli contava, sapeva che avevano un senso e una grandissima importanza, erano il suo tutto in quello scorcio di vita.
Ma ci si doveva aggrappare per la sua gran voglia di andare avanti senza lasciarsi piegare da ciò che la riportava dritta dentro un passato che non poteva tornare.
L’essere umano vive bene se può giocarsela insieme agli altri questa partita affascinante e faticosa, irta di ostacoli che è la vita. Là fuori c’e’ un intero mondo da riconoscere e da cui esser riconosciuti. Può bastare a volte una battuta, un sorriso, un semplice saluto. La morsa che stringe la gola si allenta insieme all’ansia che destabilizza con le sue mille domande.
Anche a lei bastava poco, in fondo, per ritrovarsi come Rossella O’Hara a lanciare via nel vento, anche urlando se necessario, quel “Domani è un altro giorno” liberatorio.
Se si fosse crogiolata nella sua solitudine, se avesse deciso di vestirsene come organza di seta trasparente e morbida, non sarebbe riuscita a scrollarsi di dosso i cattivi pensieri e a quella conclusione, certo da film, ma in totale sintonia con il suo carpe diem attuale, non ci sarebbe mai arrivata.
“Si, domani è un altro giorno”, si disse! “Si, dopo un altro e un altro ancora tornerò ad abbracciare e sbaciucchiare i miei nipoti, mia figlia, mio genero e tutti i miei amici . Se volge benissimo anche quelli che incontrerò la prima volta che andrò a fare la spesa sicura che il peggio ce lo siamo lasciati dietro le spalle”.
ovvero voglia di tranquillità – di Elisabetta Brunelleschi
Stavano mangiando l’ultimo spicchio di mela quando udirono la voce della Marcella:
– Nanda, la mandi con noi la Betta? Si va a Cacio –
A Betta si illuminarono gli occhi. A Cacio c’erano Laura e Lola, le compagne di scuola preferite.
Nanda si alzò da tavola e andò alla finestra:
– Quando tornate? –
– Prima di buio. –
– Ma deve fare le lezioni. –
– Le fanno insieme, dalle i quaderni! –
Dopo pochi secondi di silenzio Nanda si rivolse alla figlia:
– Vuoi andare a Cacio?-
Ma senza nemmeno aspettare risposta, rimise la testa fuori della finestra:
– Ma chi c’è? –
– Noi, io e Sandrino, si parte subito. –
Poi tornò a guardare Betta che felice, anche solo con gli occhi, le stava dicendo voglio andare.
Nanda tentennò un pochino, rammentò tutti compiti e alla fine andò in camera a prendere un grembiulino pulito. Mentre la bambina lo indossava, mise due quaderni e un golfino in un sacchetto.
– Per dopo, si raffresca, e non fare ingrullire mi raccomando! –
Partirono, Betta teneva per mano Sandrino, Marcella faceva strada.
Passando dalle scorciatoie attraverso i campi, in una mezz’oretta si arrivava a Cacio.
Arrivati alla villa dei Rosai, entrarono nella viottola degli ulivi, il sole tiepido dell’aprile ne illuminava le chiome argentee, nel terreno il grano già accestito riluceva del suo bel verde smeraldo. Sandrino saltellava e Betta gli andava dietro.
Dopo poco attraversarono la stradaccia e un’altra viottola li portò a villa dei Dolfini. Da qui in tre minuti raggiunsero Via Roma.
Marcella si fermò, prese in braccio Sandrino, dette la mano a Betta, guardò bene da una parte e dall’altra e poi attraversò strada.
Di là, fatti pochi metri di discesa, c’era Cacio, un semplice borghetto, con poche case e uno slargo che gli abitanti chiamavano piazzetta. Qui abitavano i genitori di Marcella e la famiglia del fratello.
Lola li aspettava affacciata alle scale di casa. L’accoglienza fu calorosa, baci e abbracci a Betta, alla zia Marcella e trastulli a Sandrino, il cuginetto.
Andarono in cucina, Anna, la mamma di Lola, aveva preparato la merenda, una fetta per uno di pane con burro e zucchero. Anche Sandrino mangiò con appetito, però aiutato dalla mamma, lui aveva solo due anni.
Finita la merenda le bambine sarebbero volute andare subito fuori.
– No- ordinò Anna – prima fate i compiti! –
Ubbidirono e si misero intorno al tavolo di cucina ognuna con il suo quaderno.
Anna e Marcella intanto chiacchieravano di stoffe; tutte e due erano lavoranti a domicilio, cucivano impermeabili per una ditta di Firenze. La ditta portava direttamente a casa le stoffe già tagliate e loro confezionavano il capo completo. Si lamentavano che i tessuti erano a volte così duri e resistenti che anche l’ago della macchina da cucire faticava a trapassarli, e poi gli occhielli, dovevano finirsi gli occhi, un puntino accanto all’altro, preciso, perché un occhiello mal fatto rovinava l’intero capo.
Si sentì un leggero bussare alla porta, Anna andò a aprire.
– Ecco la terza, ma le lezioni le hai fatte? –
Era arrivata anche Laura, sì, aveva già fatto tutto, anche la merenda.
Di corsa si unì alle amiche che da poco avevano anche loro chiuso i quaderni.
Se ne stettero per un bel po’ a chiacchierare: la scuola, le canzoni ascoltate alla radio e poi la domanda: “ma chi ti piace, dicci il nome”, e la conta sulle dita con la filastrocca “se questo dito schioccherà lui di certo ti amerà”. Che delusione la nocca che non schioccava!
Il tono della voce andava e veniva come musica, ogni tanto si alzava una risata. Sandrino girava intorno, ma loro continuavano con i bisbiglii segreti e lui non poteva essere ammesso.
Stavano cantando le canzoni dell’ultimo festival di San Remo, quando un allegro vocio salì dal basso, era la nonna di Lola, un donnone dalla faccia larga e pacifica, che arrivava dal campo con un corbello d’erba per i conigli. Le bambine scesero, giù c’erano le gabbie dei conigli e volevano vederli mangiare.
– State attente, perché graffiano.-
Avvertì la nonna, quando le vide mettere le manine dentro le gabbie per cercare di accarezzare le morbide pellicce.
Visti i conigli uscirono in piazzetta e si avvicinarono al Carabotto, una specie di circolo ricreativo, Lola si ricordava che dentro c’erano vasi di caramelle e un giradischi. Ma di giorno di lavoro la porta era chiusa, il Carabotto si animava un po’ la sera e soprattutto durante le feste.
Si sedettero allora sulla panca ed ecco arrivare Pino, un bambinetto di appena otto anni. Si divertiva a fare la ruota lì, nella piazzetta, con la mamma che gridava di stare attento perché su quelle pietre la testa si spacca. Le tre amiche ridevano, lo guardavano ammirate e lui continuava a volteggiare come una trottola.
Ma il tempo correva e dal terrazzo risuonò la voce della Marcella:
– Si va casa.-
Un no di tristezza partì come in coro.
– Via, via, sennò fa buio. Domattina a scuola vi rivedete. –
Mogie si alzarono e anche Pino se ne andò.
Le tre amiche si dissero ciao, Betta riprese le sue cose.
– Salutala la tua mamma, è tanto che non la vedo. –
– Quest’altra volta portate anche lei! – Esclamarono quasi all’unisono Anna e la nonna.
Ripresero svelti la via di casa, con l’aria che si faceva più fresca e i fiori che chiudevano le corolle. Sandrino cominciò a lamentarsi e la mamma lo tenne in braccio sino a casa.
Il sole tramontava quando Marcella chiamò Nanda dal cancello:
– Eccola, te l’ho riportata! –
Nanda fece capolino dalla finestra:
– Vieni, ti sei divertita? Sandrino che fa?-
– Si è addormentato! –
Betta salì le scale e si sedette in cucina. La mamma, riposto il lavoro iniziò a preparare la cena, alle sette e mezzo arrivava il babbo.
Che bel pomeriggio, che disegni indelebili si erano scritti nella memoria.
Un gruppo di amici (me compreso), un giorno d’estate, pieno di sole e di noia, ebbe la bella idea di fare un’escursione in montagna.
Incomprensibile, certamente un frutto dell’estate rovente della Versilia. . nessuno di loro era un amante della montagna, né tanto meno delle passeggiate. . ma tant’è…in compagnia prese moglie un frate…
Comunque sia, il mattino presto del giorno dopo li vide in fila, disciplinati come soldatini, affrontare le pendici del Monte Sagro, una delle cime più abbordabili delle Apuane, ma che forse non era proprio adatta alle loro possibilità.
Fatto sta che ad appena metà strada erano già mezzo stramazzati a terra e stavano boccheggiando in debito d’ossigeno.
Fu allora che ad un mio amico, un medico abbastanza stravagante di natura, venne un’idea. Si rivolse a me che fra tutti forse era quello in stato meno comatoso.
“Ma lo sai che ho letto che qui sulle pendici del Monte Sagro hanno trovato l’impronta fossile dello scheletro di un pesce preistorico?!. . ”
Invitava la lepre a correre e lo sapeva.
“Ma sai dov’è di preciso? ”Non mi fidavo molto.
“Proprio qui, a metà salita, a destra del sentiero. . me l’ha detto Beppe. . ”
E se l’aveva detto Beppe…Insomma, accettai e ci mettemmo in cammino.
Stolti. . pensavamo che uno scheletro fossile fosse visibile come un semaforo…Comunque ci allontanavamo sempre di più dal sentiero. Intanto fantasticavamo che, pensa, lì una volta c’era il mare…e giù coi soliti discorsi.
Insomma chiacchierando chiacchierando c’eravamo già allontanati un bel po’ dal sentiero, ma dell’impronta fossile non si vedeva traccia.
Io andavo avanti, il mio amico dietro.
Ma nel porre tutta la nostra attenzione al possibile aspetto che poteva avere uno scheletro preistorico, da un dolce pendio il monte si era fatto sempre più ripido. . e stava rapidamente andando in verticale.
Il mio compagno se ne accorse per primo e mi gridò di stare attento, ma io, scelleratamente, avanzai ancora di qualche passo. . finché, aperti finalmente gli occhi, mi avvidi della tragicità della situazione.
Già. . mi accorsi in un istante che ero appeso. . letteralmente appeso, ad un ciuffo d’erba che mi sosteneva insieme ad una mezza zolla che sporgeva dalla parete. .
Improvvisamente il sereno paesaggio mi mostrò tutto il suo aspetto maligno.
E quello che mi faceva più soffrire non era il pensiero di poter lasciarci le penne. . no, quello che mi tormentava era la vocina che dentro mi diceva: ”Ma come diavolo hai fatto a trovarti in questo stato. . ?! Non solo ora ci rimani, ma oltretutto fai una fine a bischero …perché morire così è proprio da imbecilli …”
Ma il Dio degli stolti ignoranti decise che con me aveva scherzato abbastanza.
Passo dopo passo. . guidato da mio amico, mi appoggiai alla parete, strisciando come un verme, finchè, dopo pochi minuti, che a me parvero un’eternità, raggiunsi un punto stabile.
Mi misi a sedere che tremavo come una foglia.
Da allora non posso più vedere immagini di resti preistorici.
E’ una pagina bianca, un vaso di fiori vuoto che ognuno colora o riempie in modo diverso con sensazioni di piacere o di smarrimento.
E’ lo svegliarsi nel buio silenzio della notte e richiudere immediatamente gli occhi per cercare nel profondo dell’animo e della memoria un aiuto, un’immagine, un ricordo e sentirsi piccoli e fragili.
La solitudine è positiva solo quando la si cerca. Varie volte mi è successo di apprezzarla e mi sono sentita come rigenerata.
Al mattino presto da sola sulla spiaggia deserta della Sterpaia, ammirando l’immensità dell’azzurro del mare che si fonde all’orizzonte col cielo, il silenzio interrotto solo dallo sciaguattio delle onde che lambiscono con lieve carezza i piedi, il grido di un gabbiano che sfiora l’acqua per poi librarsi di nuovo in alto nell’aria dorata di un sole chiaro, quasi latte e miele, il ronzio poco rassicurante dei tafani, qualche farfalla gialla in cerca di un giglio selvatico su cui posarsi.
Lo sguardo abbraccia tutto questo. La sensazione di armonia che senti dentro, questa è cercata e amica solitudine!
Quando la solitudine ti piomba addosso non cercata, quando sei costretta a salutare per sempre una persona cara e ti senti svuotata, disarmata e smarrita allora è difficile apprezzarla. Solo i ricordi possono aiutarti a riprendere con coraggio il corso normale della vita.
“Fa più rumore questo silenzio che le urla della gente”
Le era bastato aspettare…la fine di un film inguardabile, la gatta che finalmente aveva scelto il posto per dormire, l’ apparecchiatura per la colazione, le voci dei vicini finalmente spente…indossare il suo pigiamone, gettare le ciabatte, il russare rassicurante o quasi di suo marito, le gocce pronte, forse troppe, ma mai nemiche, più compagne di viaggio…si le era bastato tutto questo…la porta chiusa, un divano rosso fuoco, più cuccia che relax per essere finalmente sola…
Non era la sua solita solitudine, quella che da bimba le era stata insegnata “ perché da soli si scappa meglio” quella che era diventata nel tempo una zaino pieno di pietre pesanti, che non la facevano mai raggiungere la meta, anzi la riportava sempre più a valle….era semplicemente la fine di un giorno stupido ed un po’ inutile pieno di discussioni aspre che mal celavano…altro…molto altro..
Lyuba nel silenzio di quella notte aveva, non solo metaforicamente, cambiato canale, sorseggiato la sua tazza di latte bollente, scosso la sua testa grigia, gettato lo zaino e a piedi nudi, aveva raggiunto lo Stelvio, quaranta tornanti, come le sue cicatrici, quaranta curve fatte senza fiatone, i ricordi erano medaglie sul campo leggere e luminose….
La neve era raso di seta pura, un tessuto volpone che nasconde i nodi della sua trama, liscia, lucida, abbagliante…..con un sole caldissimo che non brucia, né agli occhi né al cuore…
Ed era rimasta, li, su quel divano pieno di gente bella, di gente buona, che sapevano tutto di lei…ed avevano trasformato i suoi difetti, le sue difficoltà in piccole perle preziose e ne avevano fatto un” vezzo prezioso” ed unico…..
Lyuba non ebbe il coraggio di indossarlo, ma lo avvicinò ai suoi occhi un po’ stanchi per meglio vedere la preziosa chiusura, perfetta se pur irregolare…
E in una notte che era già domani, ad oltre 2000 metri sui tetti di Rovezzano, guardando una televisione che le apparve come un cielo stellato, a finestre chiuse, sentì ancora quelle parole…quella canzone : Ma stai parlando? Tu stai gridando! Cosi non vale è troppo facile così….ma non lo senti che è più forte la vita della morte…
Chiuse gli occhi e si addormentò, tra cuscini color fuoco, e morbidi plaid color cenere….Lyuba aveva imparato a difendersi molto dagli altri, poco da se stessa….ma quella notte…forse quella notte era cambiato qualcosa….non tutto….Vecchioni con la sua musica cullava i suoi sogni : oh oh cavallo oh oh….
Ps: un grazie speciale a Roberto Vecchioni e non solo..
Non vedeva l’ora di stare un po’ da sola ed aspettava quel momento ogni giorno con la stessa intensità. Le bastava mezz’ora da passare al sole sul terrazzo o distesa sul divano, di solito dopo pranzo in compagnia di una tazza di caffè.
Dopo il primo sorso già si sentiva piena di energia e assaporava la libertà di scegliere cosa fare.
Capitava che guardasse nel vuoto, quel vuoto pieno di cielo, di voli di uccelli, di distese erbose, di sole e di ombre, capitava che aprisse il libro alla pagina segnata e continuasse la lettura, capitava che si perdesse nei pensieri.
Voci e rumori i grandi assenti, intorno solo pace.
Quella solitudine significava riposo.
Da mattina a sera un gran movimento, i bambini, il marito, la scuola, la spesa, il pranzo e la cena, sempre qualcosa di tutto questo o tutto questo in una sola giornata, difficile un momento per sé.
La solitudine le era essenziale, era un respiro profondo che le faceva percepire l’aria nei polmoni e in ogni ansa del suo corpo, le restituiva il tempo e la mente ma sapeva bene che senza le gioie e gli affanni delle sue giornate, senza quegli affetti che le riempivano la vita, non avrebbe apprezzato i momenti di solitudine che riusciva a regalarsi.
Non avrebbe saputo come stare davvero da sola.
Da giovane donna diventò vecchia, non più affanni nella giornata, i silenzi avevano invaso la casa, poche erano diventate le uscite e tante le attese.
Da vecchi si attende il telefono che squilla, un campanello che suona, la voce di un figlio o di un nipote che fa palpitare, il racconto di una vita che vivono gli altri, quelli che ami e che speri ogni giorno ti tolgano un po’ di solitudine.
Nell’estrema periferia Est di Firenze scorre una strada che costeggia l’Arno per un discreto tratto. Una strada nuova, realizzata di recente, forse per venire incontro agli amanti del footing o cose del genere. Scorre avendo da un lato il fiume, separata da lui solo per un piccolo argine di erba e argilla. Dall’altro lato la fiancheggia un muro di pietra serena lucida e grigia.
Ma la caratteristica che la rende insolita è il fatto che si prolunga diritta. . diritta come una spada tra gli olivi che traboccano con le loro chiome dal muro e i pochi alberi che sorgono dall’argine.
Il fondo della via è chiaro, quasi bianco, un bianco che sotto il sole estivo evoca paesaggi e sentimenti che portano a visioni di mondi anche molto distanti dai nostri consueti dintorni.
Ed era proprio in uno splendente mattino d’estate che la vidi la prima volta.
Lunga, diritta, bianca, splendente sotto il sole spietato. Non c’era in giro anima viva.
Ma l’occhio vide e l’anima rispose: un nome come un lampo: ”Il viale dei morti”…
Non mi rimane nulla di questa dirompente associazione se non il senso dell’immensità senza tempo che mi travolse.
Già…infatti “Il viale dei morti” esiste davvero. In Messico. E’ il viale che, anche lui diritto come una spada, costeggia le piramidi del Sole e della Luna nell’antichissima città di Tehotihuacan, culla dei Toltechi, antica civiltà mesoamericana. Una civiltà crudele. . iniziatrice e diffonditrice dei sacrifici umani, per esempio.
Ma anche, a suo modo, dotata di grande e creativa grandezza.
Ed ecco la domanda angosciosa che ogni tanto mi tormenta, come una ferita aperta.
Perché. . perché mai quell’associazione incongrua e allucinante?!
Ricordo che la strada mi si parò davanti, mentre sbucavo da una curva che me la nascondeva.
Il silenzio e la solitudine mi assordarono, come il cielo rovente. E il paesaggio. . quella striscia diritta, immensa e abbagliante crearono un trinomio irresistibile. . il muro, lungo e pietroso divenne le due immense piramidi e il cielo d’un azzurro incendiario poteva benissimo essere quello di un Messico tropicale, crudele e misterico.
La vita nel suo scorrere ti mette davanti diverse solitudini.
Non mi piace la solitudine, alcune volte cerco di adattarla alla mio vivere.
Ricordo la solitudine che provavo da bambina, nel tardo pomeriggio quando il sole era per tramontare e gli alberi disegnavano la propria immagine in maniera allungata, nel mio cuoricino era il momento in cui mi mancavano i miei cari, la mia casa, gli odori aspri di cucina semplici ma a me tanto cari.
Questa solitudine che io chiamavo “delle ombre lunghe” l’ho provata per tonto tempo anche quando ero già mamma ma poi piano piano è sparita e rimasto solo il timbro.
Ricordo la solitudine emozionante che per diversi anni provai davanti all’immensità di quel solito tratto di mare. Ricordo la prima volta che passai la duna: era abbastanza in alto in paragone alla spiaggia, davanti a me la lunga conca di spiaggia con questa distesa d’acqua che in lontananza si congiungeva al cielo formando un unico. Il sole era già tramontato il colore prevalente nel mare e su tutto quello che mi circondava era un nocciola chiaro, piccole onde si alternavano dolcemente, un leggero rumore di risacca, richiami striduli di gabbiani, l’odore della salsedine mi pungeva gradevolmente le narici, non c’era nessuno.
Tutto questo mi procurò una forte emozione che mi invase tutta, facendomi stringere lo stomaco che mi pervase tutto il corpo dandomi un senso solitudine e di pace.
Credevo che fosse un’emozione costante che avrei continuato a provare per sempre, ma non fu cosi: dopo diversi anni non provai più quel turbamento nel vedere e assaporare il paesaggio marino.
Solitudine di una Pasqua e Pasquetta da sola, sensazione di vuoto, vecchie paure provate da bambina si riaffacciano alla mente irrazionalmente, un senso di abbandono, di non essere amata. In questo giorno sto male da sola, una telefonata rompe questo stato di malessere: l’invito di mio genero ad andare da loro, accetto per il caffè, passo il pomeriggio piacevolmente.
Il giorno dopo nel primo pomeriggio riprovo un forte disagio, neppure le video chiamate del mio compagno né dei miei nipoti mi bastano a farmi passare il dolore. Indosso un vecchio toni e scappo di casa. Attraverso la strada e vado dietro alle fabbriche, non c’è nessuno, inizio a camminare avanti e indietro in questo piccolo tratto di strada, come un topo in gabbia, le ossa delle ginocchia si fanno sentire, inizio a guardare con attenzione , mi abbandono a quello che mi circonda, un leggero vento fa muovere gli alberi che sono sul balzo , producono un fruscio costante e formano una sinfonia musicale, gli uccelli cantano tranquilli nel silenzio che circonda il tutto, i primi papaveri rossi e i fiori di tarassaco giallo rendono più allegro quel bel balzo ricoperto da una lunga sterpaglia incolta, il vento mi arruffa i capelli incolti anche loro per mancanza delle mani esperte del parrucchiere. Mi fermo, mi sento meglio.
Io posso stare sola, questo non mi fa paura, ma non mi devo sentire sola.
Mi piace la solitudine e il buio della notte nella campagna, mi sembra che il buio mi abbracci e mi nasconda e mi protegga. Mi piace stare da sola nelle mie passeggiate, farmi rapire dai suoni, odori, colori che mi circondano che cambiano a seconda delle stagioni.
Il fuoco, ormai spento, dimorava debole negli ultimi resti di brace di un ceppo che aveva scaldato la notte della piccola bicocca.
Il corpo, rintanato in un caldo piumone, lottava con il gelo che gli mordeva la fronte ed usciva fumante dalla bocca, mentre il bianco accecante della neve entrava di prepotenza riflettendosi sui vetri delle finestre.
Era ora di alzarsi, lavarsi e bere un caffè bollente davanti al fuoco del caminetto ravvivato da nuove fascine e legname.
Una vita da eremita !
L’aveva scelta lui, fuggendo dal mondo, dove si sentiva inadeguato, incapace di proteggere gli altri e se stesso dalla sua stoltezza.
Solo, isolato, era nel suo mondo, nell’epicentro della sua essenza.
Il tempo aveva perso ogni riferimento, se non quello della luce naturale del giorno.
Tutto era regolato dalle esigenze del momento.
Cancellare il passato, che si riproponeva insistente, diventava in quel posto una lotta vincente per vivere il presente.
Una nuova vita, nuove esperienze, la mente libera, aperta per accogliere con curiosità ciò che il futuro gli offriva nel presente lasciandogli nuovi buoni ricordi.
E’ con questa esaltante energia che aprì quella porta alla ricerca della Vita, la sua vita !
Era contratta, nervosa, sembrava una zampa, la zampa di un animale feroce. Era la sua mano, e nello stesso tempo era tutto quello che non si poteva fermare. Quando acchiappo’ il manico del coltello seppe che non poteva fare nulla per scansare il dolore. Che arrivò violento e veloce, come un lampo senza tuono. Uno strappo, e la certezza che da quel momento niente sarebbe più stato come prima.
Aveva sempre pensato che da quando finisce l’infanzia non ci sono più pagine bianche. Tutti sentieri gia’ segnati. Tutti percorsi da affrontare con zaini sulle spalle. Pesavano parole dette, parole non dette. Pesavano le tristezze , pesavano anche le gioie, perché conoscerle voleva anche dire capirne le assenze. Poi aveva sviluppato delle sensibilità dolorose, dipendenti dalle atmosfere, non dai fatti. Per esempio, non dimentico’ mai più il monento nel quale conobbe con certezza il dolore che le si sarebbe rovesciato addosso.
Fu un pomeriggio qualunque. Era inizio inverno, un giorno di fine ottobre, nemmeno così grigio. C’erano ancora le finestre aperte. Leggeva in poltrona, in soggiorno, la televisione accesa spandeva inutili parole . Fu come se entrasse dalla finestra una nuvola nera, spessa, soffocante. Restò senza respiro, e seppe che era tutto dolore. Le nacquero in testa parole che non sono uscite mai più. “Saranno morti, l’inverno prossimo”. Non fu una previsione, né una magia, fu attenzione all’atmosfera.
E fu così, né più, ne meno. Dolore, paura, tristezza, affondare, soffocare, tremare, chiudere gli occhi, scivolare, ingrigire, essere ossessivi, provare a difendere, alzare ripari, poi buttare giù tutto, aprire, riempire di amore, compassione, tenerezza, poi ripararsi. Troppo male fece capire che più nulla serviva.
Quella mattina era rimasta a letto. Già. Era rimasta a letto. Aveva detto di stare male, ma non era vero, stava male come sempre, da un pezzo. Però era stanca, stanchissima. Voleva una giornata normale, stare nella sua casa chiara, piena di mobili chiari, di giochi di bambino, voleva rimanere in quel letto, dove restavano tra le lenzuola baci e abbracci.
Fu lì che suonò il telefono. Una coltellata violenta, tra il cuore e le costole. Rimase piantato lì il coltello. Ogni volta ci si aggrappasse, ricominciava tutto daccapo, non uguale, no, sempre più doloroso, scendeva sempre più in profondità la lama. Non ci fu altro da fare che vivere con il coltello, e ripassare la coltellata, ripensare, rivedere, come una pellicola che ripropone lo stesso frammento di immagine, e si blocca quando dovrebbe andare avanti.
Certo, tutto andava avanti. Per lei, tutto continuava, camminando, lavorando, giocando, facendo l’amore, mangiando, bevendo, leggendo, parlando, sognando, guidando, andando al mare, tutto continuava con un coltello nel petto, in mezzo al petto.
Poi le cose cambiarono. Arrivò il momento in cui cominciò a fare compagnia, quella lama.
A volte sembrava di essere asciugati, inariditi, insensibili? Bastava girare la lama, ed il dolore violento rassicurava. Faceva molto male, ma faceva male ad un vivo.
Passava il tempo, o forse no. Come ci fosse una bolla, uno spazio temporale immobile dove tutto restava uguale, non si sbiadiva nemmeno.
Aveva capito che la differenza tra una ferita e la cicatrice, è l’estrazione del coltello. Che la ferita diventa piaga, che ci si infetta, se non comincia a rinchiudersi.
Un giorno, aggrappata ad occhi profondi , seppe di poter provare. Le disse: “lascia andare” Forse, poco più. Capì, tutto quel dolore era parte di lei, come i suoi occhi, o i capelli, o i piedi, come la mano rattrappita di quella mattina, come i suoi amori, come ridere, fantasticare, nuotare, scrivere, disegnare. Come vestirsi, truccarsi, parlare di politica, coltivare fiori. Era diventata grande, da allora in poi. Quella grossa cicatrice era cambiata di colore, era diventata d’oro, piena di ricordi d’amore, perché la vita che ricorda era prima di tutto amore, dolcezza, generosita’. Poi dolore, ma forse, conoscere il dolore fa splendere la gioia. Fa sembrare gioia la quiete, la serenità, l’accordo. Le cicatrici possono essere ricami, vita tatuata, storie sulla pelle.
Chissà perché si pensa sempre alla solitudine come a una sensazione di malinconia.
Forse perché le riflessioni più profonde nascono dal silenzio e non dalla confusione. Forse perché l’allegria è anche spensieratezza e soprattutto leggerezza. Forse perché nella confusione ci si nasconde meglio.
Appunto.
Molte volte in passato mi è capitato di sentire suggerimenti del tipo: Non ci pensare, esci, vai a fare un viaggio……
Sì, ma il pensiero puoi frenarlo per qualche momento e poi…..
Si esce, ma poi si deve anche rientrare….
Per i viaggi si parte, ma poi si ritorna…..
Io sentivo che la strada non poteva essere quella. La soluzione non è mai nella fuga e c’è sempre un momento in cui scoppia la scintilla. Poi il divampare dell’incendio fa perdere nel nulla il momento iniziale, ma rimane quello l’attimo importante.
Ho scelto. Ho scelto il sentiero di montagna. In tutti i sensi.
Salgo e il panorama muta ad ogni passo. Mi lascio alle spalle visioni che diventano man mano più piccole e la vegetazioni muta gradatamente adattandosi al clima differente perché la natura sa sempre quello che le serve. Il compagno di viaggio è il silenzio che avvolge tutto, ma parla un suo linguaggio e se presto attenzione riesco ad ascoltare le sue storie.
Accade a volte che la magia sia interrotta dall’urlo di un rapace, ma anche questo è fascino, quasi un richiamo al presente. Allora alzo gli occhi al cielo e mi accorgo di quanto sia bello il suo volo elegante e leggero anche se foriero di morte.
E’ successo senza che avessi alcun ricordo o esperienza di boschi e spazi infiniti.
E’ successo perché a un certo punto quei boschi e quegli spazi infiniti li ho sentiti dentro e poi ho avuto bisogno di trovarli fuori. O forse, quando li ho visti fuori ho avuto bisogno di cercarli dentro.
A volte è difficile distinguere un principio dalla fine. O forse c’è un movimento circolare senza fine che si autogenera.
Oggi la “scintilla” parte da una pagina di un libro: Le otto montagne, di Paolo Cognetti, Premio Strega 2017.
Le possibilità di leggere le scintille di oggi possono dirigersi:
Verso la montagna, vista come una allegoria della vita. Ma anche verso i paesaggi del cuore, come si possono raccontare i paesaggi che ci attraversano
Verso l’arte di stare da soli, verso il come sia difficile imparare questa armonia con se stessi oppure questa occasione di affrontare il nostro presente.
Per quanto mi riguarda, in questi giorni solitari, ho avuto esperienza di una sensazione del tutto nuova. Prima mi percepivo “a pezzi”, una donna con capitoli separati, come se fossi un puzzle di molte donne diverse, legata a periodi e a mondi diversi. In questi giorni morbidi, in cui il tempo ha preso sensi e ritmi nuovi, ho avuto la percezione “fisica” di essere invece un insieme, una crema in cui gli ingredienti si sono fusi senza grumi.
Il mio tempo è diventato unico, partito da un punto preciso, la nascita, e che scorre come un fiume, dalla sorgente verso una fine, o forse verso una cascata che mi porterà ancora oltre…..
Ma la cosa bella, che mi dà il senso di una magia, è il fatto che nei miei percorsi, nei miei cambiamenti, che sempre ho percepito bruschi e angolosi, non ci trovo più strappi o ferite, ma solo lo scorrere inevitabile e naturale del mio destino. Tutto acquista così una dolcezza nuova, che non si chiama rassegnazione, ma comprensione.
E forse, per volersi bene, per capire il nostro destino, ci vuole un tempo lento, come questo che stiamo vivendo.
Il chiarore del mattino la colse turbata e stanca. La sirena di un allarme che per più volte aveva urlato nella notte, l’aveva costretta a un faticoso dormiveglia, con gli occhi che si aprivano, mentre dal buio, un rimbombo ostinato e lugubre cessava e riprendeva a ritmi regolari.
In tarda mattinata squillò il telefono, e la notizia arrivò con due parole: – È morto. –
Senza spiegare il perché, solo è morto.
Lei era a casa sua nel paese del nord disteso sulla collina, lui era rimasto al sud nel paese affacciato sul mare. E in quei primi di agosto giunse improvvisa la notizia.
A quelle parole un tremito l’avvolse, non voleva crederci, ma nello stesso tempo ci credeva, non era un sogno e la paura le chiuse la gola.
Intorno a lei si mossero in tanti, increduli, e poi ancora telefonate, squilli, domande e risposte, in un crescendo di dolore.
Nel pomeriggio partirono in cinque tra familiari e amici. Il viaggio fu lungo e silenzioso. Giunsero il giorno dopo, sul far del mattino.
Poco prima del paese videro un annuncio funebre attaccato a un muro, un foglio bianco, con stampati un tralcio di fiori di neri e un nome, il suo nome. La notizia si era diffusa, quel manifesto rettangolare la diceva a tutti.
Curva dopo curva giunsero al paese, parcheggiarono e si avviarono verso la casa, dappertutto regnava il silenzio.
Davanti alla porta c’era gente con la faccia scura e le bocche chiuse, appena la videro le fecero spazio. Lei si fermò all’ingresso e disse non voglio entrare.
Ma qualcuno le si avvicinò e la portò dentro. Salirono le scale, lui era disteso nel suo letto di ragazzo, l’avevano vestito con abiti nuovi, come dovesse andare a un matrimonio.
I genitori erano muti. La mamma non mangiava da tre giorni, da quando con il male improvviso che aveva colpito il figlio, era finita ogni speranza.
Le cugine l’abbracciarono.
– È stata come una fucilata. – Disse Maria e poi standole più accanto la consolava ripetendo:
– Passato, è passato … –
Catina la portò sul terrazzo.
L’avevano portato all’ospedale, aveva tanto mal di stomaco e vomitava di continuo. Fu ricoverato al policlinico, dopo che in un altro ospedale l’avevano addirittura rimandato indietro! Ma ormai era tardi, non c’era più nulla da fare. E la madre anche lei, lì in ospedale stava morendo, dal dolore, … Lo hanno riportato a casa, con le flebo attaccate alle braccia. Lo hanno disteso sul letto e dopo poco con un gesto fulmineo e quasi di rabbia lui ha staccato le flebo e le ha gettate lontane. Era malato dentro, nelle viscere, nello stomaco, nulla lo avrebbe salvato!
Così raccontava Catina mentre da una sedia, raccoglieva i suoi indumenti, piegava una camicia, scuoteva una maglietta e dalle tasche dei pantaloni traeva piccole cose: una penna, un bigliettino con un appunto, una moneta da cinquanta lire…
La strada si era riempita di amici, di conoscenti, di gente venuta dai paesi vicini.
Lei era lì, non sapeva dove stare, dove guardare e per la testa le volavano strani pensieri. Guarda che funerale, poi glielo racconto! Come un lampo le passò dalla mente che gli avrebbe raccontato di tutta quella gente, di quel gran funerale. Un lampo, solo un lampo, cancellato immediatamente dal tuono del presente, che la riportava in quella camera davanti a una salma con la quale non era più possibile parlare.
Giunse il momento del sigillo. Salì Carmelo con due aiutanti. Muti afferrarono il lenzuolo su cui era disteso il corpo e l’adagiarono nella bara bianca.
Mentre lo distendevano, lei volle riconoscere nel volto una sorta di smorfia: era il suo sorriso ironico, la sua rassegnazione, il suo saluto.
Poi un lento infinito corteo si mosse verso la chiesa: la bara era portata a spalla dagli amici e subito dietro la mamma sostenuta da una fratello e il babbo spinto nella sedia a rotelle dalle nipoti.
Lei, come annullata, camminava a occhi bassi, senza vedere chi le stava accanto.
Giunti davanti alla chiesa il corteo rallentò un poco e il perimetro della piazza si mostrò cinto da decine e decine di ghirlande di fiori bianchi, solo fiori bianchi, rose, garofani, margherite.
Durante il rito funebre se ne stette ritta, immobile, non una lacrima rigò le sue guance.
Il cimitero non distava molto dal paese, vi salirono a piedi, con la bara sempre portata a spalle. Lassù lo murarono in un loculo vicino al nonno. Il vecchio nonno a cui era tanto tanto affezionato.
Si levò allora il lamento funebre, antiche parole che come in un singhiozzo raccontavano della sua breve vita, di quella grande folla, che poteva essere per un matrimonio e invece no, era per il suo funerale.
Poi mestamente ognuno ritornò verso il paese.
A casa iniziarono le condoglianze. Uno alla volta amici, conoscenti, parenti venuti anche da molto lontano sfilarono davanti ai genitori stringendo loro le mani e baciando le guance. Una fila che pareva non finire mai.
Anche lei si mise in fila, andò dai genitori, li baciò e poi si sedette accanto a loro. Ed ecco che dopo il saluto al babbo e alla mamma, le persone si fermavano e le stringevano le mani, baciavano le guance, dicevano qualcosa.
Fu lungo quel consolo, calava la sera e ancora il silenzio del dolore sfilava con strette di mano in quella semplice casa.
E venne il giorno dopo.
I familiari, che l’avevano accompagnata, dissero che era meglio ripartire subito. Non c’era più nulla da fare, si lasciò portare via, a casa.
Il lunedì l’aspettava il lavoro.
Era un lavoro cercato sin dalla primavera. E di quell’inizio, così, a metà agosto ne era stata felice perché le vacanze si sarebbero accorciate.
Una cosa dentro le era chiara, quel rapporto durato sette anni era logoro, consunto, non aveva un futuro. Stare con lui la faceva sentire imprigionata. Ma dopo sette anni, non era semplice dire basta. E allora aveva cercato tutti i modi possibili e alla fine la ricerca di un lavoro le era parso un modo per cominciare a separare le loro strade.
Quando a luglio erano partiti tutti e due sapevano che quella vacanza sarebbe durata poco più di quindici giorni. Quel nuovo lavoro era anche una scusa per iniziare a dire basta. Ma lei non seppe parlare. Lui non capì o forse non volle capire niente,.
C’era una verità che nessuno dei due voleva affrontare. Non ebbero il coraggio di dirsi cosa sarebbe stato di loro in quel prossimo settembre. Ridomandarono il problema.
Lei partì la sera del 6 agosto e lui, dopo una settimana, la notte del 12 agosto, lasciò per sempre questa vita.
Il 7 agosto la prima telefonata: – Sono a casa, tutto bene. –
Due giorni un’altra telefonata. Lui aveva una voce lamentosa.
– Che cos’hai? –
– Ho mal di stomaco! –
– Ma cos’hai mangiato?
– Peperoni arrostiti. –
– Ma se non ti passa vai dal dottore!-
Sì, lei disse proprio così, vai dal dottore!
Le era parsa l’unica soluzione possibile, di una ferrea consequenzialità: ti senti male, consulta il tuo medico, semplice!
E la conversazione finì lì.
Lui era lontano e lei tranquilla, senza nessun presentimento, andava dritta nella sua scelta, convinta che per la prima volta nella vita aveva avuto il coraggio di cambiare, di cercare altre strade.
Ci furono poi due giorni di silenzio.
Poi la notte tra l’undici e il dodici agosto l’allarme della villa dei vicini che per un improvviso guasto suonava a intermittenza, l’aveva tenuta sveglia nel buio.
Si era alzata stanca incapace di fugare il senso di angoscia che quella sirena le aveva provocato.
In tarda mattinata era squillato il telefono e la voce del padre aveva detto è morto.
In un attimo, un colpo di fucile, un precipizio, uno stupore, un non voler credere: il dolore si appropriava del suo cuore.
Ma non poteva finire così. Che cosa aveva provocato quella repentina e tragica morte?
Lei voleva conoscere la verità.
Telefonò al sindaco del paese. Cercò di parlare con i cugini che l’avevano accompagnato in ospedale. Cercò di mettersi in contatto con il reparto che l’aveva accolto nel suo ultimo giorno di vita.
Alla fine qualcuno le disse che solo dalla cartella clinica si sarebbe saputa la verità.
Non fu poi così difficile trovare la persona giusta e la cartella gliela spedirono direttamente a casa, per posta.
La fece leggere a un amico medico. C’è sempre in queste storie un amico medico che dice come sono andate le cose, toglie ogni velo e fa cadere in nuove e insperate disperazioni.
Semplice, molto semplice quella causa di morte: occlusione intestinale.
L’occlusione intestinale è come un nodo, una porta chiusa, una barriera. Un budello si chiude. Il cibo non passa e si comincia a vomitare, vomitare tutto, si vomitano anche le feci. Quello che non può scendere, torna su e se ne esce dalla bocca.
Sì, e la conclusione di tutto fu che un’occlusione intestinale può essere risolta con un intervento, dipende da quando e come viene diagnosticata. Quindi non si muore, ci si può salvare, se i medici riconoscono il problema e vai in tempo in ospedale.
Da quel momento le lacrime che durante il funerale non erano scese, iniziarono a rigare il volto di lei.
Lo strazio di quella fine così repentina l’accompagnò per molto tempo, anche quando intorno tutto cambiava e strade diverse la portavano verso nuovi colori, nuovi suoni, nuovi volti, voci, sguardi.
Ma alla fine, lei non saprebbe nemmeno dir quando, tutto quello strazio si rifugiò in un sotterraneo e lì si addormentò.
Poteva tuffarsi senza paura in nuove strade e le immagini di quelle estati lontane rimasero come scene dipinte in quadri d’autore.
Non ricordo quando sono cominciati ma solo che si susseguivano uno dietro l’altro giorno dopo giorno aumentando la mia paura. Con chi avrei potuto confidarmi? Ero giovane circa 30/32 anni e, a parte mio marito, sola, sempre molto sola. Eppure un giorno presi il coraggio e iniziai a parlare dei miei attacchi di panico con lui e gli confidai che non riuscivo più a fare la doccia ma mi lavavo pezzo per pezzo. L’acqua che scorreva all’improvviso dalla doccia su di me mi lasciava senza fiato e non riuscivo più a respirare regolarmente ma sempre con più affanno e un pensiero unico attraversava la mia mente: “Mi sento male!” E come mi affannavo a chiudere immediatamente l’acqua, a sedermi e a cercare di respirare regolarmente ma ci impiegavo diversi minuti prima di calmarmi poi dovevo uscire da lì, aprire la porta e scappare, ma dove andare ? La mia mente elaborava i pensieri che si aggrovigliavano in un turbinio veloce per trovare una soluzione che riuscisse a calmarmi. Non era facile, soprattutto le prime volte. Se prendevo il bus per andare a lavorare la mattina, appena iniziava ad affollarsi sentivo il respiro aumentare salire su fino in gola quasi a soffocarmi così alla prima fermata scendevo e cercavo un taxi e mi facevo portare a destinazione e così anche al rientro a casa. Se poi trovavo la casa vuota come solito uscivo di corsa e andavo dalla mia amica Licia che fortunatamente abitava molto vicina e passavo i pomeriggi con lei e i suoi due figli fino all’ora di cena. Poi mi facevo coraggio e tornavo a casa a breve sarebbe tornata la mia padrona di casa e non sarei più stata sola. Mio marito? Se aveva voglia tornava a casa per la cena altrimenti potevano essere le sette o le tre di notte. Passava le sue ore a giocare a bridge o altro. A volte lo cercavo telefonando al bar dove andava a giocare per passare il tempo, ma a volte faceva dire che non c’era e i miei attacchi riprendevano sempre più vicini e senza soluzione. Un periodo durato più di 4 anni e pensavo che non ne sarei mai venuta fuori. Per affrontare la paura, mangiavo e mi sembrava di sentirmi un po’ meglio ma durava poco. Un giorno stanca di tutta questa situazione che dovevo affrontare completamente da sola senza l’aiuto di nessuno, decisi che avrei cercato uno psicologo per farmi aiutare. dopo varie ricerche lo trovai e fui anche molto fortunata perché è stato veramente bravo a guidarmi pian piano fino alla guarigione. Ricordo però che quando arrivai da lui vergognosa del mio stato e non sapendo dove cominciare, mi aiutò a far venire fuori tutte le mie paure e molto altro. Mentre parlavo senza fermarmi un attimo lui mi studiava e alla fine del mio lungo sfogo mi guardò e mi chiese “Perché è venuta da me ? Ha tutto chiaro che bisogno ha di discuterne con me?” Lo guardai stupita, anzi esterrefatta senza capire il significato della domanda. E lui capì che nonostante avessi espresso chiaramente tutti i miei problemi e le mie paure io non avevo afferrato il significato dei fatti poiché lì c’erano anche le soluzioni ma io non le vedevo, non le capivo. Mi ci sono voluti 4 lunghi anni per capire e venirne fuori. Quando comunicai a mio marito che avevo preso la decisione di seguire uno psicologo per farmi aiutare mi rispose che non ne avevo bisogno che mi avrebbe aiutato lui visto che sapeva cosa e come fare! Il mio matrimonio si stava già sgretolando da un po’ di tempo e forse questa era una delle cause dei miei attacchi di panico. Dopo 18 anni insieme capii che era finito veramente e che non valeva, nonostante il dolore l’affetto e l’amore, continuare una vita con così poche aspettative senza valori, per cui risposi che mettersi, come aveva fatto lui, al disopra di uno psicologo anche il peggiore della specie, avrebbe sempre saputo qualcosa più di lui. E iniziai a frequentare le sedute, inizialmente una volta a settimana poi piano piano sempre a diminuire: ogni 15 giorni, ogni mese fino a chiedergli che mi sembrava di stare meglio e che volevo chiudere i nostri colloqui. Mi disse che secondo lui avrei dovuto ancora continuare per un altro po’ ma che se mi sentivo così sicura andava bene la mia decisione di lasciarlo. Ma stavo decisamente meglio. Gli attacchi di panico erano quasi spariti avevo solo qualche piccola ricaduta ogni tanto ma avevo trovato piccole strategie per andare avanti anche se la paura non mi aveva lasciata del tutto riuscivo a stare da sola a casa, a riprendere l’autobus e a fare la doccia. Che bella sensazione essere tornata a vivere come una qualsiasi normale persona. Nel frattempo avevo mandato fuori di casa mio marito che, sempre per aiutarmi, si era messo con una mia amica e anche questa volta, a causa della mia ingenuità e mancanza di cattiveria direi, ci ho impiegato molti mesi prima che me ne accorgessi. Tutti gli amici sapevano ed io non vedevo probabilmente ciò che non volevo vedere e capire. Quel periodo fu veramente letale : il mio matrimonio in frantumi, io in cura dallo psicologo per riprendere in mano la mia vita le mie sicurezze la mia indipendenza e il posto di lavoro a rischio per un grande scandalo. Eppure ne sono venuta fuori piano piano con i miei tempi per poi finire di nuovo nella ragnatela di mancanza di affetti, forse peggiore della prima ma sempre pensata, ragionata, accettata. Ora se cerco di tirare le somme mi ritrovo a mani vuote sempre con problemi da risolvere e non sempre in grado di venirne fuori ma nonostante tutto non mi sono mai arresa.