Pausa sospesa

PAUSA – di Anna Meli

         Bellissima dolce, invitante parola che suggerisce meritato riposo, interruzione, sosta in previsione  di una ripresa positiva.

         Da giovane, quando impegni di lavoro, che dovevo conciliare con figli  e famiglia in genere, mi rendevano particolarmente stanca, usavo questa tecnica: un grande e lungo respiro, vuoto dentro me, nessuna presenza di pensiero, nessuna sensazione, occhi chiusi. E poi ripartivo con energia rinnovata magari in attesa delle meritate ferie che costituivano una pausa più lunga e diversa, senza orari da rispettare né impegni, insomma tutta da inventare e da godere al mare o meglio in montagna.

         Non avrei mai pensato di vivere altri tipi di pause e invece da due mesi ne sto vivendo una nuova e forzata insieme a tutto il mondo. Un virus maligno, infido, a volte mortale ci ha costretto ad una lunga quarantena. Ha diviso le persone, nonni e nipotini, ci ha privato di strette di mano, di   abbracci, di ogni contatto umano. Tutti in casa. Ogni attività, salvo qualche eccezione, si è fermata rendendo spettrali e silenziose le città e i paesi.

         Solo sirene di ambulanze e ricerca affannosa attraverso comunicati TV di infermieri e medici, combattenti disarmati, ma fortemente motivati.

         Una pausa di due mesi è molto, troppo lunga e anche se cerchi di affrontare la solitudine in vari modi magari anche piacevoli, l’amarezza riesce sempre a far capolino e ti ritrovi a pensare come sarà il futuro, come saremo cambiati, se avremo il coraggio di camminare su strade nuove, dove respirare venti di solidarietà e di aiuto reciproco. E’ trascorsa la fase uno: tanti contagi, tanti fortunati guariti, ma anche tanti troppi morti!

         Una generazione intera di nonni se ne è andata in punta dei piedi, la morte non fa rumore: arriva, ghermisce  e se ne va lasciando vuoti incolmabili e tristi rimpianti.

         C’è però in tutto questo anche qualcosa di positivo ed è giusto metterlo in evidenza come se fosse il rovescio di una medaglia. La natura è risorta restituendoci cieli blu intenso, aria piacevolmente respirabile; ha ridipinto tutto con nuovi colori che l’inquinamento aveva reso opachi e spenti, le acque dei fiumi sono divenute limpide.               

         Ci stiamo avviando alla fase due che sarà di ripresa…forse. E’ da qui che dobbiamo ripartire, dalle cose semplici e vere, il nostro patrimonio umano.

Dilemma: vivere o sopravvivere?

Sulle due virtù,

ovvero se sia meglio vivere o sopravvivere – di Luca Di Volo

Insomma, questa storia sul vivere o sopravvivere non mi vuole uscire dalla testa.

Lascio ad altri più profondi e sapienti il compito di analizzare le suggestive implicazioni di questo dilemma cornuto.

Invece a me basterebbe capire un po’ meglio le ragioni per cui a furia di pensarci mi è venuto solo un gran mal di testa…senza ricavar nulla che abbia un valore universale.

Che probabilmente non c’è, intendo come regola generale. Già, perché nella vita di ognuno di noi, secondo me, capitano ambedue questi modi di essere e siamo l’uno o l’altro in base a svariate cause, comprese le circostanze che favoriscono o l’una o l’altra scelta.

Cominciamo però dal primo corno del dilemma: ”sopravvivere”.

In generale, nell’uso comune questo termine ha una sia pur lieve connotazione negativa: chi si limita a sopravvivere, in un regime dispotico, oppure sotto un capufficio insopportabile, o in situazioni simili, si piglia un po’ l’etichetta di “vile” perché non ha il coraggio di ribellarsi.

Ma anche per sopravvivere ci vuole coraggio.

Già, perché innanzitutto si può sopravvivere senza alcun merito(siamo sopravvissuti all’incidente, siamo sopravvissuti al cataclisma..).Ma anche qui siamo nella massima ambiguità: chi lo dice che non ci sia merito e coraggio in queste vicende? Si può sopravvivere ad un incidente o perché si è  stati previdenti, o perché in quel momento abbiamo avuto i riflessi pronti ed abbiamo avuto il coraggio(appunto) di fare la mossa giusta..

Si sopravvive anche col cinismo, con freddezza, ma sempre col coraggio di una scelta, anche se negativa. Come chi si vende al potente di turno.

Si potrebbe continuare, ma questi modesti esempi secondo me bastano a mettere in evidenza l’ambiguità del termine.

Il secondo corno è più difficile: ”vivere”.

Questo invece ha un’accezione positiva, vitale(appunto), un esortazione famosa: ”Viviamo, o mia Lesbia, ed amiamo”,.un inno all’amore come forza della natura.

Ma anche qui c’è l’ambiguità: vivere non significa sempre vivere “bene”e godere dei doni che abbiamo davanti.

“poveretto, ha vissuto una brutta vita, con quella moglie (o quel marito)”, ”ha vissuto una vita segnata dai dispiaceri..”

Allora il poveretto, ha vissuto o è solo “sopravvissuto?

L’unica cosa che a parer mio accomuna i due termini è il “coraggio”, di chi vive o sopravvive, ambedue segnati dalla sorte dei mortali,

E io lascerei da parte gli eroi, i grandi uomini che hanno segnato i nostri grandi passi avanti. Che hanno vissuto, sì, nel senso pieno del termine, ma che hanno dovuto anche piegarsi per sopravvivere, come gli scienziati tedeschi sotto Hitler, per fare un esempio.

Insomma, ho dissertato su questi termini ma il mal di testa mi è rimasto.

Secondo me sono domande messe in giro dai produttori di aspirine e antidolorifici vari.

Vivere o sopravvivere? O sopravvivere per vivere?

Ispirazione da un film – di Vanna Bigazzi

“Cari fottutissimi amici”

È un delizioso film, quello di Monicelli, non lo avevo visto ed è stato una sorpresa. Certo la simpatica “banda” arriva a dedurre che è meglio sopravvivere, anche miseramente, piuttosto che vivere con “esperienze,” a detta di Villaggio, ma a che prezzo…Almeno questo io ho inteso. C’è il motto contrario che recita: ”Meglio un giorno da leoni che cento da pecore” chissà, ognuna delle due ha una sua motivazione e probabilmente sono valide entrambe a seconda del vissuto di chi le esprime. La prima deduzione è un po’frutto di una stanchezza di vita, porta con sé delusione, accettazione, accomodamento, comunque attaccamento alla vita. L’altra invece, sprezzo  della vita ed esaltazione dell’avventura. Diciamo che elemento di base, per entrambe è il coraggio. Coraggio per continuare a vivere in determinate condizioni, apprezzando quello che la vita ci offre, giorno per giorno, nel bene e nel male, ma anche accettando la vita, e coraggio per difendere le nostre emozioni, snobbando la vita. Io non so a quale delle due categorie appartenga, forse a tutte e due a fasi alterne. Forse un po’tutti facciamo così. Ad ogni modo tutto questo mi ha portato a riflettere su un’altra frase, finale di un film di cui non ricordo il titolo, che suggeriva: ”C’è chi eternamente insegue l’amore e chi non può fare di meglio che seguire la corrente”. Questa frase mi colpì molto e nel momento di vita in cui vidi questo film, mi sentii cucita addosso la seconda ipotesi: non poter fare di meglio che seguire la corrente. Ma non la interpretai assolutamente come rassegnazione, anzi come la quintessenza della “scelta”: scegliere con coraggio e magari anche con sacrificio, una certa direzione, contenta di fare la scelta giusta, per il mio bene e per quello degli altri. In fondo c’è eroismo in questa scelta, non troppa abnegazione, perché si sceglie per un bene comune, se non addirittura universale, che in primis premia te stesso. L’idea allucinante di essere costretti a seguire la corrente, idea che spaventava e deprimeva i nostri padri dell’Esistenzialismo, in questa accezione, viene nobilitata, viene meravigliosamente vissuta come “riparazione” che gratifica, solleva, ti fa sentire indispensabile e importante, ti fa capire come non sia il destino a determinare gli eventi, ma sia tu con le tue elezioni, con il tuo valore, pronto ad essere distribuito, a marcare i sentieri del bene.