Quando penso al polpo – di Chiara Bonechi
Quando lo vedo sul banco del mio pescivendolo così bello, afflosciato fra i lunghi tentacoli dai colori che degradano dal ruggine rosato al bianco, non resisto e lo compro.
Il pensiero va immediatamente alla cucina: lesso o in guazzetto, o forse meglio un bel risotto col sugo di polpo, in effetti mi viene buonissimo.
Quando dico “stasera polpo” alla mia tavola difficilmente sediamo solo in due, i miei figli accorrono volentieri.
E l’argomento polpo non si esaurisce con una cena, è una tale golosità che diventa spesso piacevole conversazione fra amiche.
Se penso al polpo vedo il mare, il mio angolo di paradiso che è l’insenatura di Patresi all’Elba.
Arrivando al mattino con ombrellone e sdraietta vedo Renza già posizionata al solito posto che scruta l’orizzonte.
“Anche stamani è andato a pescare, spera di prendere un polpo!” Parla di Carlo, suo marito.
Ci avviciniamo e anche noi rimaniamo in attesa.
Un polpo pescato è sempre un richiamo, i bagnanti incuriositi accorrono, occhi che si spalancano intorno alla preda che dà spettacolo.
Fra le maglie della rete il polpo allunga ora l’uno ora l’altro tentacolo, vorrebbe liberarsi e scivolare nell’acqua trasparente di quel mare che non l’ha abbastanza protetto.
Invece rimane imprigionato a soddisfare l’orgoglio del pescatore e la curiosità di chi lo accarezza, di chi lo solleva, di chi lo soppesa, dei bambini che timorosi accostano le manine sulle ventose e le ritirano divertiti o impauriti, chi sa?
Poi c’è stata la lettura di Cecila ed ho di nuovo pensato al polpo.
Era un polpo diverso stavolta, capace di aprire barattoli, scappare da vasche e rientrarci richiudendo il coperchio, riconoscere gli scienziati del gruppo di ricerca, spruzzare quelli antipatici, far saltare lampadine quando la luce dà fastidio, un polpo con comportamenti talmente complessi che invece di mangiarlo è venuta voglia di venerarlo.
In questa etologia mi sono immersa e “il navigar” mi è stato dolce in questo mar.