Là dove tornare

Canto ligure – di Nadia Peruzzi

Il tormentone, mare o montagna, era di là da venire.  La vacanza, quando era possibile farla,  era quella vicina a casa.

Di code di macchine neanche l’ombra. Chi era vicino al mare andava per lo più al mare, gli altri se la giocavano fra campagna e montagna. Spesso ci si muoveva in treno.

Poi con l’autostrada che iniziò a tagliare  il paese da nord a sud, serpentone di macchine assicurato e le code pure.

I tanti operai emigrati nelle fabbriche del nord cominciavano a guidare le macchine che costruivano e vacanza era tornare ai paesi di origine, al sud a ritrovare le famiglie  insieme alle mogli e ai figli nati nel frattempo.

Un po’ come capitava a mia mamma che mancando dalla sua Genova da quando aveva 18 anni, le ferie amava passarle nei suoi luoghi, vicino alle sue radici e ai suoi parenti.

In quello spicchio di Nord ci ho passato intere estati. Al mare con gli zii in giugno e luglio in attesa della vacanza vera,  quella di agosto.

Arrivavano i miei genitori, allora, e con loro si andava in montagna.

Il paese era ad appena una cinquantina di chilometri da Genova. Ci si arrivava per una strada tutta curve nel suo ultimo tratto. Era un’avventura quando a portarci era una di quelle corriere blu che arrancavano in salita e in molti punti occupavano tutta la sede stradale.

Erano vacanze semplici,  al limite dello spartano. Era una montagna fuori dai cataloghi patinati e dalle pubblicità dove si potevano trovare gesti e persone semplici ma vere che mia mamma, malgrado i lunghi anni di lontananza conosceva quasi tutte. Erano famiglie contadine per lo più, che abitavano lassù anche in inverno.

Sulle spalle portavano storie che spesso  raccontavano con gli occhi prima che con quel dialetto stretto che,  nei primi anni,  io e il babbo faticavamo a capire.

Due negozi di alimentari, due locande una in basso e una in alto e tutto finiva li.

Ma solo se ci si fermava alla superficie.

Bastava pensarci solo un po’ e veniva fuori il pregio di un confine geografico duplice.  Sapere di essere esattamente al centro dell’arco della Liguria e alle pendici del suo monte più alto aveva il suo fascino.  Lo  aveva anche la consapevolezza di trovarsi a metà distanza in linea d’aria fra il mare e la catena delle Alpi. In condizioni ottimali,  saliti a cresta di monte non era difficile distinguere lo sbrilluccichio di qualche nave incastonata lungo la linea dell’orizzonte, e dalla parte contraria,  sospese fra pianura e cielo le Alpi con le loro vesti trasparenti e lucidissime per il tanto ghiaccio che ancora le ricopriva anche in piena estate.

Ma non finiva qui.  Quel pezzo di territorio era stato dentro la storia e che storia.

I sentieri e quegli acciottolati erano stati calpestati dai soldati romani che ebbero uno scontro terribile, non distante da lì con le armate di Annibale al tempo della seconda guerra punica. Fu in Val Trebbia che subirono la prima, cocente sconfitta.

In tempi più recenti altri soldati erano scesi da quei pendii,  offendendo la pace di quei luoghi e portando morte e distruzioni.

Mia mamma vi aveva passato mesi interi da sfollata dopo che Genova era stata pesantemente bombardata.

Aveva visto molto e ricordava tutto.

I luoghi degli eccidi di ragazzi attivi nella resistenza. I tedeschi che erano entrati nella casa dei suoi zii durante un rastrellamento. Incendi di cascine e di abitazioni che si sospettava avessero dato ricovero ai partigiani.

Spesso a riportare i suoi racconti indietro nel tempo era il ricordo delle camminate verso i pascoli a seguito delle mucche che doveva controllare, o di quelle ad inseguire le feste e le sagre nei paesi vicini con la cugina più grande che da brava sarta qual era le confezionava vestiti che ne facevano risaltare la figura e erano un richiamo per i giovanotti che la invitavano a ballare e le facevano il filo.

La montagna come dimensione dello spirito e mia grande passione credo sia nata dentro tutto questo. Era un “via dalla pazza folla”, per ritrovare radici e affetti.

Le foto di quegli anni parlano di questo.

Io con mamma e babbo accanto ad una delle tante fonti con l’abbeveratoio anche per le mucche.

Io un po’ intimorita a cavallo del mulo dello zio Natale, uomo silenzioso che sembrava uscito direttamente da un altro secolo con i suoi baffoni alla Bismarck.

La foto che amo di più mi ritrae con un cappellino alla Pancho Villa bordato di piccole frange, mani sui fianchi, lividi sulle gambe a testimoniare i colpi delle varie cadute, un ginocchio fasciato con un fazzoletto annodato offerto all’inquadratura e messo in primo piano come se fosse un trofeo. Sguardo sbarazzino, diretto, puntato verso l’obbiettivo. Si vede che sono contenta, serena. Gli occhi sono chiaramente bambini ma già sicuri e sembrano dire,  si, questo è il mio mondo. Non solo il mondo dei grandi con cui sono arrivata qui.  Ma proprio il mio, quello in cui mi sento bene. Quella che oggi è consapevolezza allora era forse solo una sensazione di benessere,  senza troppe costruzioni mentali a far contorno. Nella foto parlano i gesti, la posa. E in quell’attimo fuggente comunico tutto quello che a parole non avrei saputo dire.

Sarà che il babbo e la mamma li vedevo rifiorire in quei luoghi.  Rompere con l’impegno quotidiano e con le abitudini era salutare per loro e si vedeva.  Si viveva all’aperto e sulle soglie delle case. Dentro solo il tempo del pranzo e della cena poi era tutto un rincorrersi all’aperto fra i campi, nel noccioleto dietro casa, fra i balzi coperti di fiori di montagna.

I giorni dei grandi,  passavano in serenità scanditi da partite a bocce, giochi di carte e discussioni politiche o di calcio.

Poi c’era il tempo delle passeggiate. All’inizio quelle semplici e senza troppe salite per fare il passo e il fiato.

Poi quelle più lunghe e faticose.

La vetta dell’Antola con i suoi 1600 metri incombenti sul paese,  era la prima delle mete ambite per testare resistenza e volontà.

La seconda era il gran clou della vacanza.  Arrivava alla fine, pochi giorni prima del rientro a casa.

Dieci ore di cammino fra andata e ritorno, tre province sfiorate nell’attraversare vallate,  castagneti e boschi di faggio.

Un saliscendi continuo che finiva solo in vista del pianoro erboso delle Capannette di Pej in provincia di Piacenza. Una faticaccia da cui si tornava sempre con la soddisfazione di avercela fatta,  anche se a volte quando il caldo era particolarmente aggressivo,  qualche accidenti benevolo capitava che fosse lanciato dai più piccoli verso gli adulti che ci avevano imbarcato nell’impresa.

Ho visto altre montagne dopo. Più note e più aspre.  Montagne vere,  quelle con i boschi che lasciano il posto alle rocce e arrivano ad altezze ben più elevate. Eppure un bel pezzo di cuore è rimasto lì in quel piccolo paese disteso fra 900 e 1000 metri sull’appennino ligure, che faceva festa nel giorno di San Lorenzo.  Giorno di tavolate,  di gran balli e di attesa che il giorno finisse per permettere alla notte di posarsi e avvolgere tutto. Perché era di notte che  potevi ricevere il regalo più bello di tutti.  Se e quando accadeva la festa volgeva in spettacolo.

Mi rivedo a guardare all’insù in attesa che arrivasse la prima. Era così improvvisa che la mancavo regolarmente. Ma ecco arrivare la seconda, poi la terza. Talora era un’intera pioggia di stelle cadenti come non ho mai più visto in tutta la mia vita.

Se era sereno, senza tutte le gran luci della città,  le vedevi attraversare il cielo da parte a parte.

Come stelle filanti,  si dipanavano in linee lunghissime e fluorescenti. Erano lì a due passi da me, sembrava solo che aspettassero un mio tocco,  prima di sparire nel buio.

Solitudine al tramonto

Arrivederci…. – di M.Laura Tripodi

L’ho conosciuta in una mattina di fine inverno.

Piovoso fuori e semibuio dentro.  O almeno così mi era sembrato il percorso per arrivarci.

Forse ad essere buia era la  preoccupazione di non riuscire a nascondere la  mia paura di essere un giorno io ospite e non visitatrice.

Il salone era ampio e molto luminoso. I finestroni erano chiusi, ma all’esterno si poteva intravedere un terrazzo molto ben curato dove in primavera, immaginai, i vecchietti sarebbero stati portati   a bere un po’ di sole.

Tentai con qualcuno di loro un timido approccio.

Difficile.

Mi guardavano senza capire e in quegli sguardi mi sembrava di leggere lo smarrimento di chi non riesce a ricordare.

Io ho sempre pensato che dentro a quelle menti vecchie e stanche vi fosse il segreto di chi capisce tutto ma non è più in grado di esprimerlo.

Per questo, analogamente a come faccio con bimbi molto piccoli , parlo come se tutte le mie parole arrivassero chiare e limpide nel loro pieno significato. Non si sa mai.

A un certo punto l’ho vista e ho avuto la sensazione che avesse captato il mio pensiero.

Era seduta in maniera piuttosto scomposta su una sedia a rotelle. Il capo leggermente riverso all’indietro e piegato sul lato sinistro. Le mani tenute l’una sull’altra quasi in un gesto di raccoglimento. Aveva gli occhi semichiusi, ma dava la sensazione di seguire quello che accadeva intorno.

Quello che mi colpì di lei era un qualche sentore di eleganza e leggiadria. E poi i suoi capelli: neri.

Qualcuno doveva aver soddisfatto una sua richiesta e io pensai che quella doveva essere stata una donna che aveva tenuto molto al proprio aspetto.

Chiesi chi fosse.

Una ballerina.

Ah ecco.

Porto sempre con me un taccuino e una matita. Di getto ho abbozzato un ritratto, come per imprimere bene nella mia mente lineamenti che non fossero solo fisici, ma che rappresentassero un’emozione.

Non ho mai parlato con lei. Mi sono limitata ad osservarla e sono quasi certa che lei abbia fatto altrettanto.

L’ho ritrovata stamattina su una pagina di giornale.

Era una persona famosa ed è morta da sola a 102 anni.

Attrice, ballerina, modella. Aveva posato per la statua che si trova alla stazione, di fronte al Palazzo dei Congressi.

Non l’ha portata via il corona virus. Si è semplicemente addormentata.

Addio Vittoria. Le nostre vite si sono incrociate solo per un attimo, ma la mia matita ha tracciato un ricordo di te che mi accompagnerà per lungo tempo e non solo sul mio taccuino.

Forse nei tuoi occhi semichiusi avevo  letto un messaggio che parlava di  gioia di vivere.

Nonostante tutto.

Flash di solitudine

Pensiero – di Sandra Conticini

Ho paura della  solitudine che non scelgo. Mi fa pensare al tempo che passa e mi rivedo sola in casa in attesa che qualcuno si ricordi che esisto e mi faccia sentire viva. E’ vero che la tecnologia va avanti e, nonostante tutti noi cerchiamo di essere connessi con  il mondo, ci sentiamo sempre più soli. La presenza umana non  può essere sostituita. Quando invece vado a fare una passeggiata sto bene anche sola, riesco a concentrarmi sui profumi, sui rumori, sul paesaggio e le emozioni sono più forti.