Immensa solitudine

Uniche…… in un’immensa solitudine – di Carla Faggi

Quand’ero ragazzetta, non bimba ma neppure ragazza, passavo la villeggiatura di luglio al Sasso di Castro, vicino al Passo della Futa con i miei zii e i miei cugini.

Una sporgenza del Sasso vista dal basso sembrava il profilo di una donna, veniva chiamata “La Bella”.

Si poteva raggiungere con un sentiero oppure scalare dalla parte scoscesa.

Incredibile a dirsi e a ricordarsi ma io la scalavo!

Si, proprio io, quella che non corre, che non scia, che nuota così e così, quella che non ha mai amato le avventure di tipo fisico, proprio io, quella paurosa, quella previdente, scalavo “La Bella”!

Non so perchè e non so come ma me lo ricordo!

Ero io e la roccia, uniche nella nostra immensa solitudine.

Amavo anche andare con i cugini e gli adulti in cima al Sasso in questo caso passando per i sentieri.

C’erano le mucche a pascolare. Quando le ritrovavo alla stalla e gustavo il loro buon latte crudo capivo perché era così buono. Perché facevano una bella vita, passeggiavano, brucavano l’erba, erano tutte insieme ma godevano della loro immensa solitudine.

Sul Sasso al ritorno spesso c’era la possibilità di raccogliere le fragole, erano dolcissime, piccole e tante. Così diverse da quelle coltivate che mangiamo oggi. Erano buone anche perché facevano una bella vita, godevano del calore del sole e della freschezza delle alture. Erano tante, non si sentivano sole ma erano uniche nella loro immensa solitudine.

Passavo dei bei mesi di luglio al Sasso di Castro, in compagnia dei miei cugini ed dei tanti ragazzotti dei vicini.

Ma potevo restare sola se volevo, passeggiavo, appunto scalavo confrontandomi con la mia audacia, leggevo e sognavo, forse immaginavo che al di là del muro della villa vicina c’era un principe triste, magari un po’ tisico: stava aspettando il bacio di una bella e audace principessa così lui guariva e diventava felice.

Mi sentivo unica nella mia immensa solitudine.

Solitudine alla finestra

Solitudine alla finestra – di Sandra Conticini

L’avevo sempre vista lì a quella finestra, ogni volta che arrivavo in macchina o a piedi mi salutava e  scambiavamo due parole. All’inizio era attiva, usciva con le amiche, faceva volontariato, ma via via che il tempo passava le cose da fare diminuivano e si lamentava. Quando la incontravo fuori avevo paura che potesse cascare perchè la vedevo sempre più incerta su quelle gambe che  erano state belle e forti.

Un giorno mi fece entrare in casa, mi disse che sua figlia aveva deciso di metterla in una residenza assistita.  Io rimasi malissimo, mi iniziarono a scendere le lacrime e  provai a dirle: – Ma non poteva rimanere a casa con una persona che potrebbe venire qualche ora? –

 – No se lei ha deciso così, va bene. Lei ha la sua famiglia e non voglio essere di intralcio -.

Poi mi portò in giro per casa  chiedemdomi consiglio di cosa poteva portarsi,   facendomi vedere  il suo corredo, e tutto quello che aveva di più caro,  questo  feceva capire il grande dispiacere che provava nell’abbandonare la sua casa. Quando uscii da quella casa avevo  rabbia mista a tristezza, non ci potevo credere che ad un genitore si potesse fare una cosa così, senza che fosse d’accordo e considerando che non aveva perso la testa.

Io da quel giorno non l’ho rivista, perchè non ho mai avuto il tempo di andare a trovarla, ma i  primi tempi che vedevo la finestra chiusa provavo un senso di vuoto e la pensavo.

Dopo qualche anno se ne andò e, in questo periodo che non si parla altro che di case di riposo e di persone che se ne vanno,  ripenso a lei e a tutte quelle persone anziane chiuse in queste strutture, senza vedere un figlio, un nipote, senza camminare,  molti non capiranno cosa sta succedendo, ed anche per i parenti che hanno notizie ogni tanto, senza sapere se saranno veritiere, deve essere un incubo. Queste persone spariscono dalla vita in piena solitudine e non aver potuto stare accanto a loro per me sarebbe stato un dispiacere incolmabile.

Solitudine in bianco e nero

SOLITUDINE IN BIANCO E NERO – di Laura Galgani

La neve aveva iniziato a cadere copiosa appena era scesa dal treno. Si accumulava già sui finestrini appannati del bussino che si arrampicava su per i tornanti, che dalla stazione di Camucia e dalla piana del Valdarno conducevano a Cortona. Era scesa proprio in cima al paese, alla fermata davanti alla chiesa di Santa Margherita, dove solo pochi mesi prima aveva assistito con tanta commozione alla cerimonia di consacrazione della sua amica Cristina, che ora si chiamava Suor Chiara. Le aveva fatto una certa impressione vederla lì, sdraiata sul pavimento della chiesa, a faccia in giù, davanti all’altare, nel momento culminante del rito. Avrebbe voluto stendersi con lei, in quel momento, tenerle la mano o sussurrarle qualcosa all’orecchio, per tranquillizzarla. Sapeva che l’emozione sarebbe stata fortissima, nonostante la sua incrollabile fede.

Si ricordò la sorpresa che aveva provato quando, sedute sugli scalini della chiesa del quartiere, in un pomeriggio di ritrovo del gruppo, dopo la maturità, le aveva chiesto quale facoltà universitaria avrebbe scelto: “Io mi iscrivo a Lingue, non so ancora quali sceglierò, forse tedesco e inglese, tu ci hai pensato”? E lei, che era seduta un gradino più sotto, girò la testa, spostò di lato la treccia rossiccia e con quegli occhi grandi e azzurri come il cielo, mentre le guance le prendevano colore disse, con semplicità: “Sai, Laura, non farò l’università. Per me è chiaro, da tanto tempo. Seguo il cammino di Cristo, mi consacro alla preghiera. Entro in clausura.” “Come, in clausura?” “Sì, ti ricordi quel monastero a Cortona, dove siamo state per gli esercizi spirituali con don Icilio … ci sono tornata, ho parlato con la Madre superiora, ho passato qualche giorno insieme alle sorelle, mi sono sentita a casa, con loro. Voglio consacrare la mia vita alla preghiera, perché anche così si aiuta l’umanità a crescere, a guarire, a migliorare. Anche così si può essere vicini, anzi, ancora più vicini, perché non ci sono distrazioni o interessi individuali, si può entrare in comunione attraverso Cristo, ed essere uniti in maniera autentica. O almeno, ci voglio provare, a farne la mia vita. Ti ho sconvolta? Non te l’aspettavi?” No, Laura non se l’aspettava, proprio per niente. Non vedeva, fino a cinque minuti prima, cosa ci fosse di diverso fra la propria fede, che comunque la proiettava nel mondo, dove voleva studiare, trovare un lavoro, farsi una famiglia, e quella di Cristina, che invece dal mondo voleva apparentemente isolarsi. Le sembrava che i loro cammini spirituali fino a quel momento fossero paralleli, vicini, destinati a sorreggerle nel cammino della vita, affiancandolo. E invece no. Per Laura fu come scoprire la faccia nascosta di una persona che pensava di conoscere bene. Un po’ come quando si scopre che l’altro, che credevi provasse le tue identiche emozioni, invece ha un’amante.

Nemmeno un paio d’anni erano passati da quel momento. Le sue scarpe lasciavano un’impronta evidente mentre percorreva le stradine deserte di Cortona, coperte di neve. Non c’era nessuno in giro. La luce si faceva via via più debole, lasciando il cielo sempre più grigio, uniforme, triste. Laura arrivò davanti alla porta del Monastero di Santa Chiara avvolto dal silenzio. Sentiva solo il battito del suo cuore e il rumore del suo respiro un po’affaticato per la salita e il peso della piccola valigia. Il bianco della neve rifletteva quel poco di luce che ancora proveniva dal cielo, quasi la volesse assorbire avidamente per l’ultima volta. Si fermò un attimo prima di tirare la cordicella della campana, che avrebbe annunciato il suo arrivo. Aveva bisogno di concentrarsi su sé stessa, di ricompattare quei frammenti di sé che da mesi vagavano disordinatamente dentro di lei e non la facevano sentire serena. Anzi, molto confusa e a tratti angosciata, persa. Non aveva ancora vent’anni e la fine di quella storia d’amore proprio non le andava giù. Aveva pensato di arrampicarsi fin lassù, al Monastero, per rimanere qualche giorno e andare fino in fondo a quella nuova solitudine, che non voleva né sapeva accettare. “In un luogo così, dove il silenzio e la solitudine sono l’essenza, devo riuscire per forza a capire!”-aveva pensato risoluta. Ma mentre tendeva la mano alla cordicella provava solo un senso di vuoto nello stomaco e un groppo alla gola mentre le lacrime erano pronte a sgorgare. Tuttavia fece un bel respiro e lasciò che il peso del suo braccio facesse il resto. Il suono argentino della campana le fece rialzare la testa e proprio mentre la porta si socchiudeva e una voce gentile la invitava ad entrare, un delicato sorriso le illuminò il volto. “Venga, lei deve essere Laura” – le disse una voce dolcissima, senza riuscire a vedere da chi provenisse. “Cristina La sta aspettando nel parlatorio.” “Cristina, non suor Chiara” – pensò Laura istintivamente. E’ ancora la mia amica. E si sentì anche lei un po’ a casa.

Solitudine matrigna

Quando finalmente “sarà un altro giorno” – di Nadia Peruzzi

Il quadro era appeso sulla sinistra in una sala immensa che ne conteneva tanti altri.

Lo aveva visto tradotto su carta più o meno patinata ma trovarselo li davanti era tutta un’altra storia. Ne aveva già visti molti quella mattina,  in quel tempio che concentrava  testimonianze altissime dell’arte pittorica di tutti i tempi.  Ci arrivò che era anche un po’ stanca. I sensi appannati,  come la volontà di procedere oltre. Il torpore che sentiva prender campo dentro di sé,   dovuto anche al caldo,  stava rischiando di avere la meglio volgendosi in disinteresse.

“Questi grandi musei,  si disse,  a volte si traducono in vera faticaccia da gara di resistenza. Si parte bene,  con i sensi al massimo per finire stremati e confusi per la quantità di suggestioni,  emozioni,  stili,  nomi,   storie da immagazzinare e catalogare nel proprio archivio personale. ”

Se lo trovò davanti quasi per caso. Aveva sbagliato a girare a destra e si era trovata in un secolo che era uno scarto rispetto a quello che aveva appena lasciato.  Ecco lì “Bagnanti ad Asnières” di Georges Seurat!

Lo vedeva per la prima volta e ne fu conquistata. Non sapeva nemmeno dire perché . Forse per la tranquillità che riusciva a trasmettere o forse per la luce di quel pomeriggio assolato che scolpiva figure e paesaggio e si rifletteva sull’acqua del fiume.  Forse per l’insieme di natura,  operosità umana scandita dalle fabbriche in lontananza e la sensazione di imprevedibile necessità di fermarsi e prender fiato di fronte al bello,  arrivando a spogliarsi per godere di ciò che la natura offre e spesso trascuriamo.

Non riusciva a staccarsene.

Girò per la sala e finì per tornare a fermarsi lì davanti.  Entrò nella sala successiva ma sentendosi come il polo di una calamita che in cerca di quiete aveva bisogno di ricongiungersi col signore e padrone dei suoi movimenti. Ogni riferimento era perso. L’amica che era con lei,  sparita in chissà quale sala. Ad ogni giro le sembrava che anche le persone attorno a lei diminuissero di numero.

Eccolo l’attimo magico in cui cuore e mente si prendono per mano e ci si ritrova,   in perfetta solitudine,   a tu per tu con l’infinito.  Anche la luce sembrò smorzarsi dietro le sue spalle per concentrarsi a illuminare solo ciò che i suoi occhi stavano guardando. Una mano invisibile sembrava la stesse per trascinare su quel greto erboso dando concretezza al sogno ad occhi aperti che stava vivendo.

La riscosse il brusio di una famigliola che le passò accanto senza dedicare grande attenzione al quadro.

Se ne dispiacque quasi. Si voltò di scatto trovandosi immersa in una folla che non aveva percepito. Dovette sedersi per vincere il senso di lieve vertigine. Con calma si riprese mentre ripensava alle altre volte che aveva provato una simile sensazione. Che fosse in compagnia o meno,  quel click era scattato in contesti diversi,  per suggestioni e stimoli  che erano riusciti a unire ragione e sentimento in un tutt’uno che l’aveva trasportata per un attimo più o meno lungo a superare la barriera dello spazio e del tempo.

Con commozione e un gran peso sul cuore si era immaginata vestita di stoffe grezze e pelli insieme i Druidi che si aggiravano per i loro riti in mezzo alle pietre di Stonehenge,  in un piovigginoso e brumoso pomeriggio trascorso nella campagna inglese.

Divisa per abiti e atteggiamenti si era vista di fronte alla incombente facciata del duomo medioevale di Bamberga e a passeggio nel giardino della Residenza cinquecentesca  dei Vescovi principi a meno di cento passi di distanza sulla gran piazza che le ospitava entrambe. Dal belvedere sulla città aveva visto scolorire i palazzi del presente e affiorare le casupole e le costruzione di allora che avrebbero dovuto indurre a limitare il raggio del pensiero e dell’azione e invece era chiaro che l’intenzione era stata quella di voler parlare al mondo e in chiave universale.

L’aveva provata ad Urbino in quel palazzo così grande da ricomprendere tutto il  territorio della Signoria,   di fronte alla Città ideale di Laurana.

Più spesso nella sua città ogni volta che si trovava a passare in quell’intreccio incredibile di meraviglie che era Piazza del Duomo.  Gli artisti che le avevano costruite e adornate avevano menti eccelse,  come i loro committenti. Avessero dovuto progettare e programmare per l’accrocchio di casupole e vicoli malsani non avrebbero osato varcare la linea del possibile per osare di giungere a realizzare,  provando e riprovando,   addirittura l’impossibile.

A volte la capacità di astrazione dal presente la portava a mettersi in dosso gli abiti di quella storia per aggirarsi in quei luoghi riuscendo a scorgere le impalcature e la miriade di maestranze al lavoro. Se chiudeva gli occhi le pareva di sentire le loro voci. e gli ordini  che veniva dati di volta in volta.

Qualche volta il rapimento era capitato di fronte a fenomeni naturali .  Era con suo marito  e sua figlia a Mont Saint Michel . La marea era arrivata con la sua forza sconvolgente e aveva messo in discussione ogni suo pensiero e ogni sua certezza.  In quella forza,  in quella potenza pacifica ci si era perduta per un lungo momento.  Sia che la vedesse arrivare scivolando luccicante dalla linea dell’orizzonte per riconquistare man mano lo spazio perduto,  sia che fissasse un punto in basso,  non distante dai suoi piedi.  Era schiacciata,  intimorita da quella inesorabilità che risvegliava paure ancestrali . La fragilità della condizione umana messa a nudo,  da consapevolezza era diventata un artiglio che stringeva la gola e toglieva il fiato.  Per fortuna erano arrivate la mano di sua figlia a sfiorare le sue e le parole stupefatte di suo marito a farle recuperare tutta la lucidità che per un attimo si era smarrita.  

Il dopo l’aveva lasciato sempre sconcertata e per un bel po’.  L’astrazione la portava via da chi le  stava accanto. C’erano emozioni che viveva e aveva vissuto in solitudine.  Era un dato di fatto. Lo era sempre stato.  Era un moto del suo essere a condurla in quella dimensione,  ma la solitudine non la considerava lo stesso una compagna.

Ci si immerge volentieri adesso dopo una giornata passata con i nipoti,  ovviamente esigenti e desiderosi di tutte le attenzioni.

Ci si era immersa ai tempi dello studio,   quando non ce n’era per nessuno,  perché la sua cifra era sempre stata la costanza e la fatica più che il prendere le cose al volo,  lasciandosele anche scorrere un po’ dietro le spalle. Aveva sempre preso di petto il mondo,  lei. Forse sbagliando,  ma era andata così e tutto sommato non le era dispiaciuto.   

Le piaceva rincorrerla quando sentiva il bisogno di ritrovarsi perché aveva smarrito un po’ delle sue coordinate abituali e si scopriva spiazzata e più fragile.  Era una condizione naturale quando si voleva dedicare alla lettura e alla scrittura

Andava bene se la sceglieva e quando la sceglieva le era capitato di coccolarla pure per un momento.

“Ma l’ode alla solitudine no. Non ho nessuna voglia di cantarla. Devo esser sincera con me stessa. Anche adesso che sono qui e sto scrivendo e sento che mi piace e mi fa bene, ” si disse.

Avrebbe voluto sentire suo marito muoversi in una delle altre stanze,  magari mentre in sottofondo arrivavano le notizie del TG. Avrebbe voluto far l’elenco mentalmente di quelle da commentare con lui preparando la colazione e prima di  immaginare e organizzare le cose da fare nel pomeriggio.

Invece sapeva di dover fare i conti con le tenerezze che le mancavano,   come le mancavano gli sguardi che avrebbe voluto su di sé come donna e non come nonna,  madre,  suocera o amica.

Su tutti questi ruoli contava,   sapeva che avevano un senso e una grandissima importanza,   erano il suo tutto in quello scorcio di vita.

Ma ci si doveva aggrappare per la sua gran voglia di andare avanti senza lasciarsi piegare da ciò che la riportava dritta dentro un passato che non poteva tornare.

L’essere umano vive bene se può giocarsela insieme agli altri questa partita affascinante e faticosa,   irta di ostacoli che è la vita. Là fuori c’e’ un intero mondo da riconoscere e da cui esser riconosciuti. Può bastare a volte una battuta,  un sorriso,   un semplice saluto. La morsa che stringe la gola si allenta insieme all’ansia che destabilizza con le sue mille domande.

Anche a lei bastava poco,  in fondo,  per ritrovarsi come Rossella O’Hara a lanciare via nel vento,   anche urlando se necessario,   quel “Domani è un altro giorno” liberatorio.

Se si fosse crogiolata nella sua solitudine,   se avesse deciso di vestirsene come organza di seta trasparente e morbida,   non sarebbe  riuscita a scrollarsi di dosso i cattivi pensieri e a quella conclusione,  certo da film,  ma in totale sintonia con il suo carpe diem attuale,  non ci sarebbe mai arrivata.

“Si,   domani è un altro giorno”,   si disse! “Si,   dopo  un altro e un altro ancora tornerò ad abbracciare e sbaciucchiare i miei nipoti,  mia figlia,   mio genero e tutti i miei amici . Se volge benissimo anche quelli che incontrerò la prima volta che andrò a fare la spesa sicura che il peggio ce lo siamo lasciati dietro le spalle”.

Paesaggi del cuore

UN POMERIGGIO A CACIO,

ovvero voglia di tranquillità – di Elisabetta Brunelleschi

Stavano mangiando l’ultimo spicchio di mela quando udirono la voce della Marcella:

– Nanda, la mandi con noi la Betta? Si va a Cacio –

A Betta si illuminarono gli occhi. A Cacio c’erano Laura e Lola, le compagne di scuola preferite.

Nanda si alzò da tavola e andò alla finestra:

– Quando tornate? –

– Prima di buio. –

– Ma deve fare le lezioni. –

– Le fanno insieme, dalle i quaderni! –

Dopo pochi secondi di silenzio Nanda si rivolse alla figlia:

– Vuoi andare a Cacio?-

Ma senza nemmeno aspettare risposta, rimise la testa fuori della finestra:

– Ma chi c’è? –

– Noi, io e Sandrino, si parte subito. –

Poi tornò a guardare Betta che felice, anche solo con gli occhi, le stava dicendo voglio andare.

Nanda tentennò un pochino, rammentò tutti compiti e alla fine andò in camera a prendere un grembiulino pulito. Mentre la bambina lo indossava, mise due quaderni e un golfino in un sacchetto.

– Per dopo, si raffresca, e non fare ingrullire mi raccomando! –

Partirono, Betta teneva per mano Sandrino, Marcella faceva strada.

Passando dalle scorciatoie attraverso i campi, in una mezz’oretta si arrivava a Cacio.

Arrivati alla villa dei Rosai, entrarono nella viottola degli ulivi, il sole tiepido dell’aprile ne illuminava le chiome argentee, nel terreno il grano già accestito riluceva del suo bel verde smeraldo. Sandrino saltellava e Betta gli andava dietro.

Dopo poco attraversarono la stradaccia e un’altra viottola li portò a villa dei Dolfini. Da qui in tre minuti raggiunsero Via Roma.

Marcella si fermò, prese in braccio Sandrino, dette la mano a Betta, guardò bene da una parte e dall’altra e poi attraversò strada.

Di là, fatti pochi metri di discesa, c’era Cacio, un semplice borghetto, con poche case e uno slargo che gli abitanti chiamavano piazzetta. Qui abitavano i genitori di Marcella e la famiglia del fratello.

Lola li aspettava affacciata alle scale di casa. L’accoglienza fu calorosa, baci e abbracci a Betta, alla zia Marcella e trastulli a Sandrino, il cuginetto.

Andarono in cucina, Anna, la mamma di Lola, aveva preparato la merenda, una fetta per uno di pane con burro e zucchero. Anche Sandrino mangiò con appetito, però aiutato dalla mamma, lui aveva solo due anni.

Finita la merenda le bambine sarebbero volute andare subito fuori.

– No- ordinò Anna – prima fate i compiti! –

Ubbidirono e si misero intorno al tavolo di cucina ognuna con il suo quaderno.

Anna e Marcella intanto chiacchieravano di stoffe; tutte e due erano lavoranti a domicilio, cucivano impermeabili per una ditta di Firenze. La ditta portava direttamente a casa le stoffe già tagliate e loro confezionavano il capo completo. Si lamentavano che i tessuti erano a volte così duri e resistenti che anche l’ago della macchina da cucire faticava a trapassarli, e poi gli occhielli, dovevano finirsi gli occhi, un puntino accanto all’altro, preciso, perché un occhiello mal fatto rovinava l’intero capo.

Si sentì un leggero bussare alla porta, Anna andò a aprire.

– Ecco la terza, ma le lezioni le hai fatte? –

Era arrivata anche Laura, sì, aveva già fatto tutto, anche la merenda.

Di corsa si unì alle amiche che da poco avevano anche loro chiuso i quaderni.

Se ne stettero per un bel po’ a chiacchierare: la scuola, le canzoni ascoltate alla radio e poi la domanda: “ma chi ti piace, dicci il nome”, e la conta sulle dita con la filastrocca “se questo dito schioccherà lui di certo ti amerà”. Che delusione la nocca che non schioccava!

Il tono della voce andava e veniva come musica, ogni tanto si alzava una risata. Sandrino girava intorno, ma loro continuavano con i bisbiglii segreti e lui non poteva essere ammesso.

Stavano cantando le canzoni dell’ultimo festival di San Remo, quando un allegro vocio salì dal basso, era la nonna di Lola, un donnone dalla faccia larga e pacifica, che arrivava dal campo con un corbello d’erba per i conigli. Le bambine scesero, giù c’erano le gabbie dei conigli e volevano vederli mangiare.

– State attente, perché graffiano.-

Avvertì la nonna, quando le vide mettere le manine dentro le gabbie per cercare di accarezzare le morbide pellicce.

Visti i conigli uscirono in piazzetta e si avvicinarono al Carabotto, una specie di circolo ricreativo, Lola si ricordava che dentro c’erano vasi di caramelle e un giradischi. Ma di giorno di lavoro la porta era chiusa, il Carabotto si animava un po’ la sera e soprattutto durante le feste.

Si sedettero allora sulla panca ed ecco arrivare Pino, un bambinetto di appena otto anni. Si divertiva a fare la ruota lì, nella piazzetta, con la mamma che gridava di stare attento perché su quelle pietre la testa si spacca. Le tre amiche ridevano, lo guardavano ammirate e lui continuava a volteggiare come una trottola.

Ma il tempo correva e dal terrazzo risuonò la voce della Marcella:

– Si va casa.-

Un no di tristezza partì come in coro.

– Via, via, sennò fa buio. Domattina a scuola vi rivedete. –

Mogie si alzarono e anche Pino se ne andò.

Le tre amiche si dissero ciao, Betta riprese le sue cose.

– Salutala la tua mamma, è tanto che non la vedo. –

– Quest’altra volta portate anche lei! – Esclamarono quasi all’unisono Anna e la nonna.

Ripresero svelti la via di casa, con l’aria che si faceva più fresca e i fiori che chiudevano le corolle. Sandrino cominciò a lamentarsi e la mamma lo tenne in braccio sino a casa.

Il sole tramontava quando Marcella chiamò Nanda dal cancello:

– Eccola, te l’ho riportata! –

Nanda fece capolino dalla finestra:

– Vieni, ti sei divertita? Sandrino che fa?-

– Si è addormentato! –

Betta salì le scale e si sedette in cucina. La mamma, riposto il lavoro iniziò a preparare la cena, alle sette e mezzo arrivava il babbo.

Che bel pomeriggio, che disegni indelebili si erano scritti nella memoria.