LA FERITA – di Elisabetta Brunelleschi

Nessuna ferita è per sempre
Il chiarore del mattino la colse turbata e stanca. La sirena di un allarme che per più volte aveva urlato nella notte, l’aveva costretta a un faticoso dormiveglia, con gli occhi che si aprivano, mentre dal buio, un rimbombo ostinato e lugubre cessava e riprendeva a ritmi regolari.
In tarda mattinata squillò il telefono, e la notizia arrivò con due parole: – È morto. –
Senza spiegare il perché, solo è morto.
Lei era a casa sua nel paese del nord disteso sulla collina, lui era rimasto al sud nel paese affacciato sul mare. E in quei primi di agosto giunse improvvisa la notizia.
A quelle parole un tremito l’avvolse, non voleva crederci, ma nello stesso tempo ci credeva, non era un sogno e la paura le chiuse la gola.
Intorno a lei si mossero in tanti, increduli, e poi ancora telefonate, squilli, domande e risposte, in un crescendo di dolore.
Nel pomeriggio partirono in cinque tra familiari e amici. Il viaggio fu lungo e silenzioso. Giunsero il giorno dopo, sul far del mattino.
Poco prima del paese videro un annuncio funebre attaccato a un muro, un foglio bianco, con stampati un tralcio di fiori di neri e un nome, il suo nome. La notizia si era diffusa, quel manifesto rettangolare la diceva a tutti.
Curva dopo curva giunsero al paese, parcheggiarono e si avviarono verso la casa, dappertutto regnava il silenzio.
Davanti alla porta c’era gente con la faccia scura e le bocche chiuse, appena la videro le fecero spazio. Lei si fermò all’ingresso e disse non voglio entrare.
Ma qualcuno le si avvicinò e la portò dentro. Salirono le scale, lui era disteso nel suo letto di ragazzo, l’avevano vestito con abiti nuovi, come dovesse andare a un matrimonio.
I genitori erano muti. La mamma non mangiava da tre giorni, da quando con il male improvviso che aveva colpito il figlio, era finita ogni speranza.
Le cugine l’abbracciarono.
– È stata come una fucilata. – Disse Maria e poi standole più accanto la consolava ripetendo:
– Passato, è passato … –
Catina la portò sul terrazzo.
L’avevano portato all’ospedale, aveva tanto mal di stomaco e vomitava di continuo. Fu ricoverato al policlinico, dopo che in un altro ospedale l’avevano addirittura rimandato indietro! Ma ormai era tardi, non c’era più nulla da fare. E la madre anche lei, lì in ospedale stava morendo, dal dolore, … Lo hanno riportato a casa, con le flebo attaccate alle braccia. Lo hanno disteso sul letto e dopo poco con un gesto fulmineo e quasi di rabbia lui ha staccato le flebo e le ha gettate lontane. Era malato dentro, nelle viscere, nello stomaco, nulla lo avrebbe salvato!
Così raccontava Catina mentre da una sedia, raccoglieva i suoi indumenti, piegava una camicia, scuoteva una maglietta e dalle tasche dei pantaloni traeva piccole cose: una penna, un bigliettino con un appunto, una moneta da cinquanta lire…
La strada si era riempita di amici, di conoscenti, di gente venuta dai paesi vicini.
Lei era lì, non sapeva dove stare, dove guardare e per la testa le volavano strani pensieri. Guarda che funerale, poi glielo racconto! Come un lampo le passò dalla mente che gli avrebbe raccontato di tutta quella gente, di quel gran funerale. Un lampo, solo un lampo, cancellato immediatamente dal tuono del presente, che la riportava in quella camera davanti a una salma con la quale non era più possibile parlare.
Giunse il momento del sigillo. Salì Carmelo con due aiutanti. Muti afferrarono il lenzuolo su cui era disteso il corpo e l’adagiarono nella bara bianca.
Mentre lo distendevano, lei volle riconoscere nel volto una sorta di smorfia: era il suo sorriso ironico, la sua rassegnazione, il suo saluto.
Poi un lento infinito corteo si mosse verso la chiesa: la bara era portata a spalla dagli amici e subito dietro la mamma sostenuta da una fratello e il babbo spinto nella sedia a rotelle dalle nipoti.
Lei, come annullata, camminava a occhi bassi, senza vedere chi le stava accanto.
Giunti davanti alla chiesa il corteo rallentò un poco e il perimetro della piazza si mostrò cinto da decine e decine di ghirlande di fiori bianchi, solo fiori bianchi, rose, garofani, margherite.
Durante il rito funebre se ne stette ritta, immobile, non una lacrima rigò le sue guance.
Il cimitero non distava molto dal paese, vi salirono a piedi, con la bara sempre portata a spalle. Lassù lo murarono in un loculo vicino al nonno. Il vecchio nonno a cui era tanto tanto affezionato.
Si levò allora il lamento funebre, antiche parole che come in un singhiozzo raccontavano della sua breve vita, di quella grande folla, che poteva essere per un matrimonio e invece no, era per il suo funerale.
Poi mestamente ognuno ritornò verso il paese.
A casa iniziarono le condoglianze. Uno alla volta amici, conoscenti, parenti venuti anche da molto lontano sfilarono davanti ai genitori stringendo loro le mani e baciando le guance. Una fila che pareva non finire mai.
Anche lei si mise in fila, andò dai genitori, li baciò e poi si sedette accanto a loro. Ed ecco che dopo il saluto al babbo e alla mamma, le persone si fermavano e le stringevano le mani, baciavano le guance, dicevano qualcosa.
Fu lungo quel consolo, calava la sera e ancora il silenzio del dolore sfilava con strette di mano in quella semplice casa.
E venne il giorno dopo.
I familiari, che l’avevano accompagnata, dissero che era meglio ripartire subito. Non c’era più nulla da fare, si lasciò portare via, a casa.
Il lunedì l’aspettava il lavoro.
Era un lavoro cercato sin dalla primavera. E di quell’inizio, così, a metà agosto ne era stata felice perché le vacanze si sarebbero accorciate.
Una cosa dentro le era chiara, quel rapporto durato sette anni era logoro, consunto, non aveva un futuro. Stare con lui la faceva sentire imprigionata. Ma dopo sette anni, non era semplice dire basta. E allora aveva cercato tutti i modi possibili e alla fine la ricerca di un lavoro le era parso un modo per cominciare a separare le loro strade.
Quando a luglio erano partiti tutti e due sapevano che quella vacanza sarebbe durata poco più di quindici giorni. Quel nuovo lavoro era anche una scusa per iniziare a dire basta. Ma lei non seppe parlare. Lui non capì o forse non volle capire niente,.
C’era una verità che nessuno dei due voleva affrontare. Non ebbero il coraggio di dirsi cosa sarebbe stato di loro in quel prossimo settembre. Ridomandarono il problema.
Lei partì la sera del 6 agosto e lui, dopo una settimana, la notte del 12 agosto, lasciò per sempre questa vita.
Il 7 agosto la prima telefonata: – Sono a casa, tutto bene. –
Due giorni un’altra telefonata. Lui aveva una voce lamentosa.
– Che cos’hai? –
– Ho mal di stomaco! –
– Ma cos’hai mangiato?
– Peperoni arrostiti. –
– Ma se non ti passa vai dal dottore!-
Sì, lei disse proprio così, vai dal dottore!
Le era parsa l’unica soluzione possibile, di una ferrea consequenzialità: ti senti male, consulta il tuo medico, semplice!
E la conversazione finì lì.
Lui era lontano e lei tranquilla, senza nessun presentimento, andava dritta nella sua scelta, convinta che per la prima volta nella vita aveva avuto il coraggio di cambiare, di cercare altre strade.
Ci furono poi due giorni di silenzio.
Poi la notte tra l’undici e il dodici agosto l’allarme della villa dei vicini che per un improvviso guasto suonava a intermittenza, l’aveva tenuta sveglia nel buio.
Si era alzata stanca incapace di fugare il senso di angoscia che quella sirena le aveva provocato.
In tarda mattinata era squillato il telefono e la voce del padre aveva detto è morto.
In un attimo, un colpo di fucile, un precipizio, uno stupore, un non voler credere: il dolore si appropriava del suo cuore.
Ma non poteva finire così. Che cosa aveva provocato quella repentina e tragica morte?
Lei voleva conoscere la verità.
Telefonò al sindaco del paese. Cercò di parlare con i cugini che l’avevano accompagnato in ospedale. Cercò di mettersi in contatto con il reparto che l’aveva accolto nel suo ultimo giorno di vita.
Alla fine qualcuno le disse che solo dalla cartella clinica si sarebbe saputa la verità.
Non fu poi così difficile trovare la persona giusta e la cartella gliela spedirono direttamente a casa, per posta.
La fece leggere a un amico medico. C’è sempre in queste storie un amico medico che dice come sono andate le cose, toglie ogni velo e fa cadere in nuove e insperate disperazioni.
Semplice, molto semplice quella causa di morte: occlusione intestinale.
L’occlusione intestinale è come un nodo, una porta chiusa, una barriera. Un budello si chiude. Il cibo non passa e si comincia a vomitare, vomitare tutto, si vomitano anche le feci. Quello che non può scendere, torna su e se ne esce dalla bocca.
Sì, e la conclusione di tutto fu che un’occlusione intestinale può essere risolta con un intervento, dipende da quando e come viene diagnosticata. Quindi non si muore, ci si può salvare, se i medici riconoscono il problema e vai in tempo in ospedale.
Da quel momento le lacrime che durante il funerale non erano scese, iniziarono a rigare il volto di lei.
Lo strazio di quella fine così repentina l’accompagnò per molto tempo, anche quando intorno tutto cambiava e strade diverse la portavano verso nuovi colori, nuovi suoni, nuovi volti, voci, sguardi.
Ma alla fine, lei non saprebbe nemmeno dir quando, tutto quello strazio si rifugiò in un sotterraneo e lì si addormentò.
Poteva tuffarsi senza paura in nuove strade e le immagini di quelle estati lontane rimasero come scene dipinte in quadri d’autore.
Ho problemi a legger racconti lunghi, perdo attenzione…cerco altre storie…ed anche questa volta è successo così, ma sono stata attenta..ed ho letto , due forse tre altre vite nel tuo racconto…che mi ha coinvolta
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