Era contratta, nervosa, sembrava una zampa, la zampa di un animale feroce. Era la sua mano, e nello stesso tempo era tutto quello che non si poteva fermare. Quando acchiappo’ il manico del coltello seppe che non poteva fare nulla per scansare il dolore. Che arrivò violento e veloce, come un lampo senza tuono. Uno strappo, e la certezza che da quel momento niente sarebbe più stato come prima.
Aveva sempre pensato che da quando finisce l’infanzia non ci sono più pagine bianche. Tutti sentieri gia’ segnati. Tutti percorsi da affrontare con zaini sulle spalle. Pesavano parole dette, parole non dette. Pesavano le tristezze , pesavano anche le gioie, perché conoscerle voleva anche dire capirne le assenze. Poi aveva sviluppato delle sensibilità dolorose, dipendenti dalle atmosfere, non dai fatti. Per esempio, non dimentico’ mai più il monento nel quale conobbe con certezza il dolore che le si sarebbe rovesciato addosso.
Fu un pomeriggio qualunque. Era inizio inverno, un giorno di fine ottobre, nemmeno così grigio. C’erano ancora le finestre aperte. Leggeva in poltrona, in soggiorno, la televisione accesa spandeva inutili parole . Fu come se entrasse dalla finestra una nuvola nera, spessa, soffocante. Restò senza respiro, e seppe che era tutto dolore. Le nacquero in testa parole che non sono uscite mai più. “Saranno morti, l’inverno prossimo”. Non fu una previsione, né una magia, fu attenzione all’atmosfera.
E fu così, né più, ne meno. Dolore, paura, tristezza, affondare, soffocare, tremare, chiudere gli occhi, scivolare, ingrigire, essere ossessivi, provare a difendere, alzare ripari, poi buttare giù tutto, aprire, riempire di amore, compassione, tenerezza, poi ripararsi. Troppo male fece capire che più nulla serviva.
Quella mattina era rimasta a letto. Già. Era rimasta a letto. Aveva detto di stare male, ma non era vero, stava male come sempre, da un pezzo. Però era stanca, stanchissima. Voleva una giornata normale, stare nella sua casa chiara, piena di mobili chiari, di giochi di bambino, voleva rimanere in quel letto, dove restavano tra le lenzuola baci e abbracci.
Fu lì che suonò il telefono. Una coltellata violenta, tra il cuore e le costole. Rimase piantato lì il coltello. Ogni volta ci si aggrappasse, ricominciava tutto daccapo, non uguale, no, sempre più doloroso, scendeva sempre più in profondità la lama. Non ci fu altro da fare che vivere con il coltello, e ripassare la coltellata, ripensare, rivedere, come una pellicola che ripropone lo stesso frammento di immagine, e si blocca quando dovrebbe andare avanti.
Certo, tutto andava avanti. Per lei, tutto continuava, camminando, lavorando, giocando, facendo l’amore, mangiando, bevendo, leggendo, parlando, sognando, guidando, andando al mare, tutto continuava con un coltello nel petto, in mezzo al petto.
Poi le cose cambiarono. Arrivò il momento in cui cominciò a fare compagnia, quella lama.
A volte sembrava di essere asciugati, inariditi, insensibili? Bastava girare la lama, ed il dolore violento rassicurava. Faceva molto male, ma faceva male ad un vivo.
Passava il tempo, o forse no. Come ci fosse una bolla, uno spazio temporale immobile dove tutto restava uguale, non si sbiadiva nemmeno.
Aveva capito che la differenza tra una ferita e la cicatrice, è l’estrazione del coltello. Che la ferita diventa piaga, che ci si infetta, se non comincia a rinchiudersi.
Un giorno, aggrappata ad occhi profondi , seppe di poter provare. Le disse: “lascia andare” Forse, poco più. Capì, tutto quel dolore era parte di lei, come i suoi occhi, o i capelli, o i piedi, come la mano rattrappita di quella mattina, come i suoi amori, come ridere, fantasticare, nuotare, scrivere, disegnare. Come vestirsi, truccarsi, parlare di politica, coltivare fiori. Era diventata grande, da allora in poi. Quella grossa cicatrice era cambiata di colore, era diventata d’oro, piena di ricordi d’amore, perché la vita che ricorda era prima di tutto amore, dolcezza, generosita’. Poi dolore, ma forse, conoscere il dolore fa splendere la gioia. Fa sembrare gioia la quiete, la serenità, l’accordo. Le cicatrici possono essere ricami, vita tatuata, storie sulla pelle.
Chissà perché si pensa sempre alla solitudine come a una sensazione di malinconia.
Forse perché le riflessioni più profonde nascono dal silenzio e non dalla confusione. Forse perché l’allegria è anche spensieratezza e soprattutto leggerezza. Forse perché nella confusione ci si nasconde meglio.
Appunto.
Molte volte in passato mi è capitato di sentire suggerimenti del tipo: Non ci pensare, esci, vai a fare un viaggio……
Sì, ma il pensiero puoi frenarlo per qualche momento e poi…..
Si esce, ma poi si deve anche rientrare….
Per i viaggi si parte, ma poi si ritorna…..
Io sentivo che la strada non poteva essere quella. La soluzione non è mai nella fuga e c’è sempre un momento in cui scoppia la scintilla. Poi il divampare dell’incendio fa perdere nel nulla il momento iniziale, ma rimane quello l’attimo importante.
Ho scelto. Ho scelto il sentiero di montagna. In tutti i sensi.
Salgo e il panorama muta ad ogni passo. Mi lascio alle spalle visioni che diventano man mano più piccole e la vegetazioni muta gradatamente adattandosi al clima differente perché la natura sa sempre quello che le serve. Il compagno di viaggio è il silenzio che avvolge tutto, ma parla un suo linguaggio e se presto attenzione riesco ad ascoltare le sue storie.
Accade a volte che la magia sia interrotta dall’urlo di un rapace, ma anche questo è fascino, quasi un richiamo al presente. Allora alzo gli occhi al cielo e mi accorgo di quanto sia bello il suo volo elegante e leggero anche se foriero di morte.
E’ successo senza che avessi alcun ricordo o esperienza di boschi e spazi infiniti.
E’ successo perché a un certo punto quei boschi e quegli spazi infiniti li ho sentiti dentro e poi ho avuto bisogno di trovarli fuori. O forse, quando li ho visti fuori ho avuto bisogno di cercarli dentro.
A volte è difficile distinguere un principio dalla fine. O forse c’è un movimento circolare senza fine che si autogenera.
Oggi la “scintilla” parte da una pagina di un libro: Le otto montagne, di Paolo Cognetti, Premio Strega 2017.
Le possibilità di leggere le scintille di oggi possono dirigersi:
Verso la montagna, vista come una allegoria della vita. Ma anche verso i paesaggi del cuore, come si possono raccontare i paesaggi che ci attraversano
Verso l’arte di stare da soli, verso il come sia difficile imparare questa armonia con se stessi oppure questa occasione di affrontare il nostro presente.
Per quanto mi riguarda, in questi giorni solitari, ho avuto esperienza di una sensazione del tutto nuova. Prima mi percepivo “a pezzi”, una donna con capitoli separati, come se fossi un puzzle di molte donne diverse, legata a periodi e a mondi diversi. In questi giorni morbidi, in cui il tempo ha preso sensi e ritmi nuovi, ho avuto la percezione “fisica” di essere invece un insieme, una crema in cui gli ingredienti si sono fusi senza grumi.
Il mio tempo è diventato unico, partito da un punto preciso, la nascita, e che scorre come un fiume, dalla sorgente verso una fine, o forse verso una cascata che mi porterà ancora oltre…..
Ma la cosa bella, che mi dà il senso di una magia, è il fatto che nei miei percorsi, nei miei cambiamenti, che sempre ho percepito bruschi e angolosi, non ci trovo più strappi o ferite, ma solo lo scorrere inevitabile e naturale del mio destino. Tutto acquista così una dolcezza nuova, che non si chiama rassegnazione, ma comprensione.
E forse, per volersi bene, per capire il nostro destino, ci vuole un tempo lento, come questo che stiamo vivendo.
Il chiarore del mattino la colse turbata e stanca. La sirena di un allarme che per più volte aveva urlato nella notte, l’aveva costretta a un faticoso dormiveglia, con gli occhi che si aprivano, mentre dal buio, un rimbombo ostinato e lugubre cessava e riprendeva a ritmi regolari.
In tarda mattinata squillò il telefono, e la notizia arrivò con due parole: – È morto. –
Senza spiegare il perché, solo è morto.
Lei era a casa sua nel paese del nord disteso sulla collina, lui era rimasto al sud nel paese affacciato sul mare. E in quei primi di agosto giunse improvvisa la notizia.
A quelle parole un tremito l’avvolse, non voleva crederci, ma nello stesso tempo ci credeva, non era un sogno e la paura le chiuse la gola.
Intorno a lei si mossero in tanti, increduli, e poi ancora telefonate, squilli, domande e risposte, in un crescendo di dolore.
Nel pomeriggio partirono in cinque tra familiari e amici. Il viaggio fu lungo e silenzioso. Giunsero il giorno dopo, sul far del mattino.
Poco prima del paese videro un annuncio funebre attaccato a un muro, un foglio bianco, con stampati un tralcio di fiori di neri e un nome, il suo nome. La notizia si era diffusa, quel manifesto rettangolare la diceva a tutti.
Curva dopo curva giunsero al paese, parcheggiarono e si avviarono verso la casa, dappertutto regnava il silenzio.
Davanti alla porta c’era gente con la faccia scura e le bocche chiuse, appena la videro le fecero spazio. Lei si fermò all’ingresso e disse non voglio entrare.
Ma qualcuno le si avvicinò e la portò dentro. Salirono le scale, lui era disteso nel suo letto di ragazzo, l’avevano vestito con abiti nuovi, come dovesse andare a un matrimonio.
I genitori erano muti. La mamma non mangiava da tre giorni, da quando con il male improvviso che aveva colpito il figlio, era finita ogni speranza.
Le cugine l’abbracciarono.
– È stata come una fucilata. – Disse Maria e poi standole più accanto la consolava ripetendo:
– Passato, è passato … –
Catina la portò sul terrazzo.
L’avevano portato all’ospedale, aveva tanto mal di stomaco e vomitava di continuo. Fu ricoverato al policlinico, dopo che in un altro ospedale l’avevano addirittura rimandato indietro! Ma ormai era tardi, non c’era più nulla da fare. E la madre anche lei, lì in ospedale stava morendo, dal dolore, … Lo hanno riportato a casa, con le flebo attaccate alle braccia. Lo hanno disteso sul letto e dopo poco con un gesto fulmineo e quasi di rabbia lui ha staccato le flebo e le ha gettate lontane. Era malato dentro, nelle viscere, nello stomaco, nulla lo avrebbe salvato!
Così raccontava Catina mentre da una sedia, raccoglieva i suoi indumenti, piegava una camicia, scuoteva una maglietta e dalle tasche dei pantaloni traeva piccole cose: una penna, un bigliettino con un appunto, una moneta da cinquanta lire…
La strada si era riempita di amici, di conoscenti, di gente venuta dai paesi vicini.
Lei era lì, non sapeva dove stare, dove guardare e per la testa le volavano strani pensieri. Guarda che funerale, poi glielo racconto! Come un lampo le passò dalla mente che gli avrebbe raccontato di tutta quella gente, di quel gran funerale. Un lampo, solo un lampo, cancellato immediatamente dal tuono del presente, che la riportava in quella camera davanti a una salma con la quale non era più possibile parlare.
Giunse il momento del sigillo. Salì Carmelo con due aiutanti. Muti afferrarono il lenzuolo su cui era disteso il corpo e l’adagiarono nella bara bianca.
Mentre lo distendevano, lei volle riconoscere nel volto una sorta di smorfia: era il suo sorriso ironico, la sua rassegnazione, il suo saluto.
Poi un lento infinito corteo si mosse verso la chiesa: la bara era portata a spalla dagli amici e subito dietro la mamma sostenuta da una fratello e il babbo spinto nella sedia a rotelle dalle nipoti.
Lei, come annullata, camminava a occhi bassi, senza vedere chi le stava accanto.
Giunti davanti alla chiesa il corteo rallentò un poco e il perimetro della piazza si mostrò cinto da decine e decine di ghirlande di fiori bianchi, solo fiori bianchi, rose, garofani, margherite.
Durante il rito funebre se ne stette ritta, immobile, non una lacrima rigò le sue guance.
Il cimitero non distava molto dal paese, vi salirono a piedi, con la bara sempre portata a spalle. Lassù lo murarono in un loculo vicino al nonno. Il vecchio nonno a cui era tanto tanto affezionato.
Si levò allora il lamento funebre, antiche parole che come in un singhiozzo raccontavano della sua breve vita, di quella grande folla, che poteva essere per un matrimonio e invece no, era per il suo funerale.
Poi mestamente ognuno ritornò verso il paese.
A casa iniziarono le condoglianze. Uno alla volta amici, conoscenti, parenti venuti anche da molto lontano sfilarono davanti ai genitori stringendo loro le mani e baciando le guance. Una fila che pareva non finire mai.
Anche lei si mise in fila, andò dai genitori, li baciò e poi si sedette accanto a loro. Ed ecco che dopo il saluto al babbo e alla mamma, le persone si fermavano e le stringevano le mani, baciavano le guance, dicevano qualcosa.
Fu lungo quel consolo, calava la sera e ancora il silenzio del dolore sfilava con strette di mano in quella semplice casa.
E venne il giorno dopo.
I familiari, che l’avevano accompagnata, dissero che era meglio ripartire subito. Non c’era più nulla da fare, si lasciò portare via, a casa.
Il lunedì l’aspettava il lavoro.
Era un lavoro cercato sin dalla primavera. E di quell’inizio, così, a metà agosto ne era stata felice perché le vacanze si sarebbero accorciate.
Una cosa dentro le era chiara, quel rapporto durato sette anni era logoro, consunto, non aveva un futuro. Stare con lui la faceva sentire imprigionata. Ma dopo sette anni, non era semplice dire basta. E allora aveva cercato tutti i modi possibili e alla fine la ricerca di un lavoro le era parso un modo per cominciare a separare le loro strade.
Quando a luglio erano partiti tutti e due sapevano che quella vacanza sarebbe durata poco più di quindici giorni. Quel nuovo lavoro era anche una scusa per iniziare a dire basta. Ma lei non seppe parlare. Lui non capì o forse non volle capire niente,.
C’era una verità che nessuno dei due voleva affrontare. Non ebbero il coraggio di dirsi cosa sarebbe stato di loro in quel prossimo settembre. Ridomandarono il problema.
Lei partì la sera del 6 agosto e lui, dopo una settimana, la notte del 12 agosto, lasciò per sempre questa vita.
Il 7 agosto la prima telefonata: – Sono a casa, tutto bene. –
Due giorni un’altra telefonata. Lui aveva una voce lamentosa.
– Che cos’hai? –
– Ho mal di stomaco! –
– Ma cos’hai mangiato?
– Peperoni arrostiti. –
– Ma se non ti passa vai dal dottore!-
Sì, lei disse proprio così, vai dal dottore!
Le era parsa l’unica soluzione possibile, di una ferrea consequenzialità: ti senti male, consulta il tuo medico, semplice!
E la conversazione finì lì.
Lui era lontano e lei tranquilla, senza nessun presentimento, andava dritta nella sua scelta, convinta che per la prima volta nella vita aveva avuto il coraggio di cambiare, di cercare altre strade.
Ci furono poi due giorni di silenzio.
Poi la notte tra l’undici e il dodici agosto l’allarme della villa dei vicini che per un improvviso guasto suonava a intermittenza, l’aveva tenuta sveglia nel buio.
Si era alzata stanca incapace di fugare il senso di angoscia che quella sirena le aveva provocato.
In tarda mattinata era squillato il telefono e la voce del padre aveva detto è morto.
In un attimo, un colpo di fucile, un precipizio, uno stupore, un non voler credere: il dolore si appropriava del suo cuore.
Ma non poteva finire così. Che cosa aveva provocato quella repentina e tragica morte?
Lei voleva conoscere la verità.
Telefonò al sindaco del paese. Cercò di parlare con i cugini che l’avevano accompagnato in ospedale. Cercò di mettersi in contatto con il reparto che l’aveva accolto nel suo ultimo giorno di vita.
Alla fine qualcuno le disse che solo dalla cartella clinica si sarebbe saputa la verità.
Non fu poi così difficile trovare la persona giusta e la cartella gliela spedirono direttamente a casa, per posta.
La fece leggere a un amico medico. C’è sempre in queste storie un amico medico che dice come sono andate le cose, toglie ogni velo e fa cadere in nuove e insperate disperazioni.
Semplice, molto semplice quella causa di morte: occlusione intestinale.
L’occlusione intestinale è come un nodo, una porta chiusa, una barriera. Un budello si chiude. Il cibo non passa e si comincia a vomitare, vomitare tutto, si vomitano anche le feci. Quello che non può scendere, torna su e se ne esce dalla bocca.
Sì, e la conclusione di tutto fu che un’occlusione intestinale può essere risolta con un intervento, dipende da quando e come viene diagnosticata. Quindi non si muore, ci si può salvare, se i medici riconoscono il problema e vai in tempo in ospedale.
Da quel momento le lacrime che durante il funerale non erano scese, iniziarono a rigare il volto di lei.
Lo strazio di quella fine così repentina l’accompagnò per molto tempo, anche quando intorno tutto cambiava e strade diverse la portavano verso nuovi colori, nuovi suoni, nuovi volti, voci, sguardi.
Ma alla fine, lei non saprebbe nemmeno dir quando, tutto quello strazio si rifugiò in un sotterraneo e lì si addormentò.
Poteva tuffarsi senza paura in nuove strade e le immagini di quelle estati lontane rimasero come scene dipinte in quadri d’autore.
Non ricordo quando sono cominciati ma solo che si susseguivano uno dietro l’altro giorno dopo giorno aumentando la mia paura. Con chi avrei potuto confidarmi? Ero giovane circa 30/32 anni e, a parte mio marito, sola, sempre molto sola. Eppure un giorno presi il coraggio e iniziai a parlare dei miei attacchi di panico con lui e gli confidai che non riuscivo più a fare la doccia ma mi lavavo pezzo per pezzo. L’acqua che scorreva all’improvviso dalla doccia su di me mi lasciava senza fiato e non riuscivo più a respirare regolarmente ma sempre con più affanno e un pensiero unico attraversava la mia mente: “Mi sento male!” E come mi affannavo a chiudere immediatamente l’acqua, a sedermi e a cercare di respirare regolarmente ma ci impiegavo diversi minuti prima di calmarmi poi dovevo uscire da lì, aprire la porta e scappare, ma dove andare ? La mia mente elaborava i pensieri che si aggrovigliavano in un turbinio veloce per trovare una soluzione che riuscisse a calmarmi. Non era facile, soprattutto le prime volte. Se prendevo il bus per andare a lavorare la mattina, appena iniziava ad affollarsi sentivo il respiro aumentare salire su fino in gola quasi a soffocarmi così alla prima fermata scendevo e cercavo un taxi e mi facevo portare a destinazione e così anche al rientro a casa. Se poi trovavo la casa vuota come solito uscivo di corsa e andavo dalla mia amica Licia che fortunatamente abitava molto vicina e passavo i pomeriggi con lei e i suoi due figli fino all’ora di cena. Poi mi facevo coraggio e tornavo a casa a breve sarebbe tornata la mia padrona di casa e non sarei più stata sola. Mio marito? Se aveva voglia tornava a casa per la cena altrimenti potevano essere le sette o le tre di notte. Passava le sue ore a giocare a bridge o altro. A volte lo cercavo telefonando al bar dove andava a giocare per passare il tempo, ma a volte faceva dire che non c’era e i miei attacchi riprendevano sempre più vicini e senza soluzione. Un periodo durato più di 4 anni e pensavo che non ne sarei mai venuta fuori. Per affrontare la paura, mangiavo e mi sembrava di sentirmi un po’ meglio ma durava poco. Un giorno stanca di tutta questa situazione che dovevo affrontare completamente da sola senza l’aiuto di nessuno, decisi che avrei cercato uno psicologo per farmi aiutare. dopo varie ricerche lo trovai e fui anche molto fortunata perché è stato veramente bravo a guidarmi pian piano fino alla guarigione. Ricordo però che quando arrivai da lui vergognosa del mio stato e non sapendo dove cominciare, mi aiutò a far venire fuori tutte le mie paure e molto altro. Mentre parlavo senza fermarmi un attimo lui mi studiava e alla fine del mio lungo sfogo mi guardò e mi chiese “Perché è venuta da me ? Ha tutto chiaro che bisogno ha di discuterne con me?” Lo guardai stupita, anzi esterrefatta senza capire il significato della domanda. E lui capì che nonostante avessi espresso chiaramente tutti i miei problemi e le mie paure io non avevo afferrato il significato dei fatti poiché lì c’erano anche le soluzioni ma io non le vedevo, non le capivo. Mi ci sono voluti 4 lunghi anni per capire e venirne fuori. Quando comunicai a mio marito che avevo preso la decisione di seguire uno psicologo per farmi aiutare mi rispose che non ne avevo bisogno che mi avrebbe aiutato lui visto che sapeva cosa e come fare! Il mio matrimonio si stava già sgretolando da un po’ di tempo e forse questa era una delle cause dei miei attacchi di panico. Dopo 18 anni insieme capii che era finito veramente e che non valeva, nonostante il dolore l’affetto e l’amore, continuare una vita con così poche aspettative senza valori, per cui risposi che mettersi, come aveva fatto lui, al disopra di uno psicologo anche il peggiore della specie, avrebbe sempre saputo qualcosa più di lui. E iniziai a frequentare le sedute, inizialmente una volta a settimana poi piano piano sempre a diminuire: ogni 15 giorni, ogni mese fino a chiedergli che mi sembrava di stare meglio e che volevo chiudere i nostri colloqui. Mi disse che secondo lui avrei dovuto ancora continuare per un altro po’ ma che se mi sentivo così sicura andava bene la mia decisione di lasciarlo. Ma stavo decisamente meglio. Gli attacchi di panico erano quasi spariti avevo solo qualche piccola ricaduta ogni tanto ma avevo trovato piccole strategie per andare avanti anche se la paura non mi aveva lasciata del tutto riuscivo a stare da sola a casa, a riprendere l’autobus e a fare la doccia. Che bella sensazione essere tornata a vivere come una qualsiasi normale persona. Nel frattempo avevo mandato fuori di casa mio marito che, sempre per aiutarmi, si era messo con una mia amica e anche questa volta, a causa della mia ingenuità e mancanza di cattiveria direi, ci ho impiegato molti mesi prima che me ne accorgessi. Tutti gli amici sapevano ed io non vedevo probabilmente ciò che non volevo vedere e capire. Quel periodo fu veramente letale : il mio matrimonio in frantumi, io in cura dallo psicologo per riprendere in mano la mia vita le mie sicurezze la mia indipendenza e il posto di lavoro a rischio per un grande scandalo. Eppure ne sono venuta fuori piano piano con i miei tempi per poi finire di nuovo nella ragnatela di mancanza di affetti, forse peggiore della prima ma sempre pensata, ragionata, accettata. Ora se cerco di tirare le somme mi ritrovo a mani vuote sempre con problemi da risolvere e non sempre in grado di venirne fuori ma nonostante tutto non mi sono mai arresa.