Ferite e guarigioni

Nessuna ferita è per sempre la stessa – di Vanna Bigazzi

Mi è piaciuto molto il video di Morelli: “Nessuna ferita è per sempre” e condivido ciò che sostiene, trovandolo terapeutico anche se non radicalmente. L’allontanare le ferite, quasi non ci fossero mai state, o meglio ignorarle per volgere in positivo i nostri pensieri, non fa guarire le ferite. E’ ovvio che non dobbiamo farcene uno scudo per non progredire, cullandoci nella nostra infelicità e depressione ma non possiamo nemmeno dimenticarle (anche perché sarebbe irrealizzabile) volgendo in positivo i nostri pensieri e così, magicamente, guarirle. Sono convinta invece che queste si possano elaborare, attenuare e poi anche superare, riuscendo a non soffrirne più. Distogliere il pensiero da queste, per indirizzarlo verso ciò che ci piace e ci fa star bene, può risultare efficace come il “battere la mano sulla spalla” ad un amico che ti fa partecipe del suo dolore. Può invece essere utile non esasperarle, trattarle terapeuticamente o in alcuni casi anche da soli, purchè non ci facciamo, prima, fagocitare dall’abbattimento assoluto. Al confine fra la depressione e l’inizio della ripresa psicologica, esiste un piccolo interstizio, una lingua di terra di nessuno nella quale con l’intuito, l’intelligenza e la volontà propria dell’istinto di vita, possiamo accedervi anche se con sforzo e ricerca interiore. Se riusciamo a penetrarvi, lì scocca la scintilla, quello può essere l’inizio di una resurrezione. Condivido invece pienamente il concetto di Morelli relativo al “germoglio interiore” che ognuno di noi ha in sé e che deve coltivare e curare, perché fiorisca. Questo germoglio possiamo trovarlo proprio in quello spazio interstiziale, in quella terra neutra, non ancora coltivata ma neanche sterile, in quella possibilità che la nostra natura “creativa” ci ha messo a disposizione e che dobbiamo cercare di trovare, nonostante le avversità. Tanti anni fa, quando mi occupavo solo di terapia infantile, una mamma mi sottopose il caso della sua piccolina di soli otto anni, che poi ho seguito nel tempo (aveva subito un trauma in famiglia). Il disegno che la bambina mi propose è stata una delle più grandi lezioni di psicoanalisi che io abbia mai ricevuto. Nel disegno vi erano due immagini, tipo due foglie strette e allungate: una di un rosso vivo, l’altra di un pallido rosa. Vicino, ma separato, aveva disegnato un ago con la cruna e il filo inserito. “Vede signora” mi disse “queste sono ferite profonde, una è sanguinante, l’altra è chiara, non fa più male, ma quest’ago non può ricucirle, è anche inutile aver infilato il filo. Vanno lasciate stare, pian piano quella col sangue si schiarirà e non sarà più pericolosa. Credo non sia necessario commentare. Pensai: “Questa bambina diventerà una psicologa…” Ma mi sbagliavo, la ferita grave, pur col passare degli anni, ha lasciato il suo segno. Gemma, così si chiama la bimba ormai divenuta una ragazza, pur con l’aiuto necessario, non ha potuto intraprendere l’università, anche se le sarebbe piaciuto, perché la sua emotività, non certo la sua intelligenza, non glielo ha permesso. E questo è il punto cruciale (la ferita grave non può guarire, né può essere evasa.) Gemma è diventata una bellissima persona, attiva e capacissima nel suo lavoro, è felice con il suo ragazzo, ha molti interessi, programma viaggi e vuole crearsi una famiglia…       

Felicità in perle

I nostri occhi più belli – di Stefania Bonanni

Mi piace trovare accanto al letto quelle vecchie ciabatte comode, che ciaff ciaff ciaff ciabatteranno dietro di me tutto il giorno, chiacchierone.

Mi piace fare la doccia subito la mattina, lasciare l’acqua calda che mi passi e ripassi addosso, mi accarezzi, mi lisci, mi renda lucida.

Mi piace trovare un po’ di caffè rimasto nella caffettiera dalla sera prima. Penso, prima di arrivare in cucina: “se trovo un po’ di caffè,  sarà una buona giornata”. Se però non lo trovo, e faccio un caffè nuovo sono contenta del suo odore prepotente, fresco e antico, che arriva dappertutto e che è  quello di tutte le nostre case, la mattina, e lo è sempre stato. E sarà una buona giornata, finché  ci sarà caffè.

Mi piace sedere in terrazza, quando c’è solo uno spicchio di sole nuovo. Mi piace sapere che c’era anche di notte, il sole,  aveva solo nascosto la faccia.

Mi piace questo silenzio. La quiete. Nel frastuono non da’ fastidio nulla. Nel silenzio ogni cinguettio è un’opera sinfonica. Si sta attenti a non perdere un trillo, sembra cinguettato per te.

La quiete rende tutto immobile, una brezza leggera la colora.

Mi piace leggere. Mi piace distrarmi. Ripensare, pensare ad altro. Poi tornare e riannodare i fili della storia interrotta.

Mi piace lasciar dormire chi dorme. Mi piace chi dorme. Mi piace chi si sveglia e mi abbraccia.

Mi piace disegnare, perché non sono capace, ma è una magia scoprire che proporzioni sempre uguali, formino facce così diverse. Mi piace disegnare donne. Con tanti capelli e vestiti fatali o nude, raggomitolate.

Mi piace cucinare cose divertenti. Verdure colorate,  pomodori, carote, piselli. Mescolare frutta, azzardare insalate. Fiera, quando non avanza nulla.

Mi piace scrivere, mentre sto facendo altro. Rincorrere pensieri, vestirli di parole giuste. Non parole per piacere, ne’ per fare effetto. Che ci sia un motivo per riempire queste bellissime pagine bianche. Non servono parole di paura, di rabbia o di disperazione. Se il cuore è  pieno di tristezza, la cura è cercare il buono ed il bello, e che ci piaccia così tanto da spiaccicare il resto. E portarselo negli occhi, per un’ora, un minuto, una notte, per sempre. Dentro agli occhi.

Mi piace guardare negli occhi.

Paolo ha gli occhi verdi. Come quei coccodrilli al sole, con le palpebre abbassate a metà su occhi che sembra guardino solo davanti. Mai fidarsi, pensare che non ti veda. Ieri lo guardavo da vicino. C’ero io tra lui ed il sole,  ed ho scoperto che ha occhi più chiari, ora sono forse verde mare, addirittura sull’azzurro. Può essere la vecchiaia, o la vista calata,  o che fossero occhi dolci, per  me. La Franci ha occhi d’oro, Ricca gli occhi della mia mamma. Ci siamo mescolati, nei loro occhi. Sono andati per il mondo con loro, i nostri occhi, hanno visto nascere bambini .

Ferite e cure

Caffè e latte – di Carla Faggi

Ho un sogno ricorrente.

Per ricorrente intendo che sono tanti anni che a volte ritorna e io lo riconosco.

Più che un sogno è una situazione e uno stato d’animo con varianti via via diverse.

Sono oggi da adulta in casa dove ho trascorso la mia infanzia, con i miei genitori ancora giovani.

Sono stata lasciata da un qualcuno che amavo, mi sento sola, vorrei telefonare a della amiche per sentirmi meno abbandonata ma non trovo i numeri di telefono. E non trovo neppure il telefono. Lo cerco affannosamente ma non lo trovo.

Lo stato d’animo è sofferenza, abbandono, solitudine e fortissima impotenza.

Forse sono ferite del passato che non riuscendo a farsi ricordare nel presente si insinuano nel sogno.

Le sensazioni sono così forti e vere che è come se vivessi un’altra vita.

Poi mi sveglio e sono sollevata di essere in questa.

Mi faccio un caffellatte caldo con tanti, tanti biscotti.

Adoro il caffellatte, adoro il caldo e adoro i tanti biscotti.

Me li gusto tutti e mi dico: io sono qui e sono questa!

Ferite aperte

Ferite di oggi – di Cecilia Trinci

Sono meno di cinquecento passi. Li ho percorsi stamani, uscita prima delle otto per andare al forno a comprare il pane e poche altre cose. Un viaggio, con mascherina soffocante e guanti di gomma, vissuto passo dopo passo gustando l’aria fresca, il canto sottovoce di migliaia di uccellini felici e mentre il respiro si faceva  difficile per tutti quegli ostacoli sulla bocca e sul naso ho alzato gli occhi su un cielo pallido e azzurro, indisturbato dalle nostre paure e follie. Ho assaporato ogni piccolo pezzo di quel percorso, lentamente, come se ogni passo fosse il primo e l’ultimo di tutta la vita. L’asfalto sconnesso, i piccoli sassi sparsi, la rete del giardino del centro Tecnico di Coverciano con i suoi prati, al di là, verdissimi e soli. La siepe di leccio altissima, ancora ben pettinata e i merli che zampettano sul bordo dei campi di calcio deserti, il fresco piacevole che sfiora quel poco che rimane scoperto del viso. Ho pensato alle musulmane con il chador, al caldo che verrà, alle mattine pulite e ignare di solo poche settimane fa, alla vita che scorreva affannata, scaraventata ora nell’angolo dei miraggi. Dicono “passerà” ma non so se ce la farò io a vederla passare, se sarò in tempo a ritrovare i miei bambini che crescono senza di me, se questi cinquecento passi, che diventano mille  andata e ritorno, potranno tenermi sveglia e viva per un futuro che già era diventato corto e incerto di suo.  Torno indietro con una spesa parca eppure preziosa, conquistata, conto gli ultimi passi e ho paura a rimanere ancora fuori, appoggio appena lo sguardo sullo scivolo dove giocavo incosciente con i miei bambini, lo scivolo vuoto, muto, terribilmente triste che non voglio guardare e giro l’ultimo angolo di questa doppia L  che è diventata i miei 10 minuti di aria e rientro in casa come fossi braccata da qualche mostro invisibile. Torno, chiudo, aspetto. Un altro giorno comincia.