Le ferite e le cicatrici

Codice 048 – di Laura Galgani

Se io fossi le mie ferite sarei prima di tutto un “Codice 048”, quello che la mia dottoressa scrive in alto a sinistra sul ricettario regionale quando mi prescrive una semplice analisi del sangue.

Le cicatrici ci sono, eccome. Due melanomi ed un epitelioma, altri tre nei sospetti, tolti prima che diventassero pericolosi, me ne hanno lasciate. E perdonatemi se parlo delle cicatrici “di ciccia”, perché lo sappiamo, sotto la ciccia c’è l’anima, e tutto il resto.

Per la ASL sono una malata di cancro, ma per me?

Ricordo la mia delusione quando, diversi anni dopo aver tolto il secondo melanoma, tutta raggiante mi presentai al centro prelievi dell’Annunziata per ricominciare a donare il sangue, come facevo da giovane. L’infermiera mi accolse con un bel sorriso, mi fece le prime domande, iniziò a riempire il modulo; “beh, è un po’ magrolina… ma ci arriva a 50 kg?” E io, un po’ barando “Sì, sì, più o meno…” e dopo: “Malattie importanti?” “A parte due melanomi dai quali sono perfettamente guarita…” Non mi fece neanche finire. Poggiò la penna sul tavolo, spostò il modulo e cambiò completamente espressione: “Vede, signora, ci credo che lei sia perfettamente guarita, ma per noi lei rimane una paziente oncologica, e come tale non può più donare il sangue.” Mi alzai senza dire nulla e uscii dalla stanza a testa bassa. Avevo voglia di piangere. Io non mi sentivo affatto “una paziente oncologica”. Dentro di me lo sapevo di essere perfettamente guarita. Non so che cosa mi abbia fatto più male, in quel momento: se mettermi davanti a me stessa con quella etichetta stampata addosso, nella quale non mi riconoscevo affatto, o pensare di essere vista dalla società, dal mondo esterno, come tale. Un po’ come Gregor Samsa, che nella “Metamorfosi” di Kafka si sveglia una mattina e nel suo letto scopre di essere diventato uno scarafaggio. Ecco, io non ho mai, ma proprio mai pensato né sentito di essere diventata uno “scarafaggio”. Non ho colpa della malattia che mi è arrivata addosso ad appena 33 anni. So però che da qualche parte una spiegazione c’è a questo “inciampo”: nelle maglie della mia storia familiare, nello spazio che si dilata, nel tempo che è circolare e torna su sé stesso, da qualche parte c’è, e forse un giorno ci arriverò. Ma nel frattempo? Non posso fermarmi a quelle cicatrici. Cerco di vivere nel mio “qui e ora”, del quale sono l’unica responsabile. Perché sono io che decido quali colori usare per dipingere il mio presente. Quello spazio creativo perenne è dentro di me, lo sento aperto, vivo, esplorabile, conoscibile. Mi ci addentro e mi ci lascio fluire, e da là tutto osservo, accarezzo, contemplo, senza mai dire “è mio.” E mi sento libera.

Ferite

Nessuna ferita è per sempre – di Patrizia Fusi

Sono sull’autobus, sono le quattordici, sto andando al lavoro.

Ho un grande peso sul cuore.

Ieri il mio compagno ha preso parte della sua roba e è andato in un appartamento a vivere da solo, si è innamorato di un’altra.

Riflessioni, dubbi, domande, dove ho sbagliato, sentirsi inadeguata, brutta.

Questo pensare mi manda in tilt il cervello, mi fa male persino pensare a quello che ho da fare oggi pomeriggio, sento che non devo e non posso per ora più pensare, decido di spezzare il mio riflettere.

Inizio a focalizzare lo sguardo su tutto quello che mi circonda, su le persone che sono intorno a me, dal finestrino il sole illumina tutto, sul bordo della strada i fiori di campo formano piccole macchie di colore.

Ecco la casa cantoniera, abbracciata nei sui tre lati dalla terra della collina, ha un piccolo giardino sul davanti.

Alla fermata sale una signora dai capelli rossi.

Continuo a guardare le case, dalla loro forma architettonica cerco di individuare il periodo in cui possono essere state costruite, le persone sui marciapiedi le guardo le scruto, salto velocemente da un’immagine all’altra, questo guardare mi allontana la sofferenza che ho nel pensare.

Sono arrivata a lavoro, incontro alcuni miei colleghi, mi sembrano che tutti loro siano felici, lavorare mi fa stare meglio.

Il contatto con i clienti, il parlare con loro, i loro sguardi mi fanno sentire bene, il cuore mi diventa più leggero.

La vita continua.