Il tempo ritrovato – di Gabriella Crisafulli

Era seduta a terra, al centro del ring, le gambe divaricate, le mani a terra, il volto gonfio dai pugni incassati, mentre il sangue le colava dal naso e il corpo flaccido spillava sudore, creando una pozza fetida intorno a lei.
Era davanti a tutta quella gente mentre cercava di recuperare la testa.
Non l’aveva più o si era svuotata?
Di sicuro non ragionava.
Invece di stare lì a perdere tempo, si diceva che doveva produrre qualcosa, un pensiero qualunque, che la facesse fuggire.
Il corpo le doleva da tutte le parti, tumefatto.
Ne aveva prese tante di botte, fin dall’infanzia, ma adesso non riusciva più a incassare.
Il dolore era così grande che non le venivano fuori le lacrime: doveva averle terminate tutte.
Che stupida, malgrado la lezione avuta, non aveva capito niente e si era affidata alla storia felice che i suoi raccontavano.
E poi, chi le avrebbe creduto?
Non c’erano testimoni.
Le maschere del dentro e del fuori erano molto diverse.
Ma non se ne rendeva conto.
Inoltre anche lei era stata al gioco che le veniva tacitamente imposto ed era diventata così brava che anche i suoi personaggi si alternavano in automatico.
All’improvviso, lì, su quell’orrido palcoscenico, si mise a ridere, a ridere, a ridere come una pazza, fino alle lacrime.
E finalmente pianse.
Ok, aveva perso ma poteva dire a se stessa di averci provato.
Per anni aveva tessuto, cucito, rammendato.
Si era aspettata miracoli.
Aveva preteso troppo.
Non poteva farcela contro l’incomprensibile e l’inconoscibile.
Già una volta si era cimentata con la sofferenza e non solo aveva fallito, ma aveva coinvolto malamente le proprie figlie.
Aveva lanciato la lenza in direzioni sbagliate.
Le piaceva fare la brava!
Ecco il risultato.
Raccolse ad uno ad uno i cocci dentro e fuori di lei.
Traghettò verso altri lidi.
Ma l’aspettava il lago del tempo.
Dilatato su di lei, l’avvolgeva, opprimeva e paralizzava: le sfuggiva fra le dita come sabbia nella clessidra e, giorno dopo giorno, lo perdeva.
Tutto questo tempo ritrovato, dopo anni di penuria, si espandeva a tal punto da smarrirla e da farle perdere il senso.
Sapeva che doveva riavvolgere il filo, trovare il bandolo e oltrepassare il muro.
Ma il dolore l’asfaltava.
Attivava frustrazione e risentimento.
Il lago diventava palude.
Come venirne fuori?
Sentiva il desiderio di usare il suo tempo, di metterlo a frutto, di essere orgogliosa di sé, delle energie che le stavano rinascendo e delle sue capacità.
Ma pensare, e ancor più agire, era una sfida.
Una battaglia persa.
Il tempo si era spezzato, frammentato e adesso toccava a lei ricomporlo in un quadro che la gratificasse.
Doveva ritrovarne la cognizione, delimitarlo.
Chiudere il sipario del passato, spalancare la finestra dell’oggi che è e che sarà.
C’era da mettere dei confini, dei paletti di contenimento al suo esondare.
C’era da trasformare il caos in audacia, capire che era una possibilità remota ma non impossibile.
Ritrovare il sapore delle notti solitarie, le sensazioni sorprendenti che dilatano.
Non pretendere troppo ma aspettare, quieta, lo sviluppo del processo.
Perdonarsi le colpe.
Avere fiducia in sé.
Le mancava il cielo dei sogni felici.
Andò in giardino a guardare in su.
un bel viaggio sulla conoscenza di se stessi. Per tutta la vita indossiamo guantoni inutili. Chissà come saremmo stati se nessuno ci avesse “imposto” di usarli…
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Intenso,doloroso, aperto a nuova vita.
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Molto bello come percorso e bella la modalità con cui lo descrivi.
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Doloroso eppure coraggioso sguardo sulla fragilità. Un piccolo fuoco di amore verso se stessi, di compassione verso la propria storia appare come una piccola luce che sa di poter crescere
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Ci sono donne che non sanno pescare, altre che non lo voglion fare, ci sono pesci che non si fanno prendere ed altri che guizzano fuori dall’acqua…vorrei rileggerlo tante volte fino a farlo diventare mio…rubare cose così belle non è peccato.!!!
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Personale, ma allo stesso tempo universale…ognuno ogni tanto deve avvolgere il filo per trovare il bandolo della matassa….bello
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